venerdì 28 giugno 2019

La Promessa 2019, ovvero i film che vorrei vedere entro l'anno

Post pubblicato su Pietro Saba World il 05/02/2019 Qui - Ogni promessa è debito, fortunatamente l'anno scorso ho completato la Promessa di vedere i 10 film, anzi, 10 obiettivi, e non ho dovuto pagare pegno, riuscirò quindi anche quest'anno a fare la stessa cosa? Lo spero davvero, anche perché ho rinunciato a vedere i cinepanettoni moderni, e non vorrei mai vedere l'ultimo film della coppia Boldi-De Sica se mai non riuscissi a completare la "nuova" Promessa. Attenzione però, come già accaduto precedentemente, questa speciale lista sarà divisa in due parti ben distinte, una facente parte la promessa in questione, l'altra con i titoli ancora mancanti degli Oscar 2016, 2017 e 2018, i titoli che cercherò e proverò (anche se non dipende molto da me ma dalla programmazione di Sky ed altro) a vedere prima degli Oscar 2019 in riferimento alla candidature di giorni fa e infine gli imperdibili quest'anno. Infine un piccolo bonus relativi ad i film d'animazione.

Quattro film dell'eclettico regista giapponese, di questi ci sarà sicuramente Yakuza Apocalypse

Con Nicolas Winding Refn ho un rapporto conflittuale ultimamente, riuscirà questo film a migliorare questo rapporto

Quattro film del grande regista, di questi ci sarà sicuramente Crash

giovedì 27 giugno 2019

Flatliners - Linea mortale (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 04/02/2019 Qui - Premetto che prima di vedere questo Flatliners, anno 2017, ho rivisto, un po' perché non lo ricordavo bene, un po' perché mi sembrava giusto farlo, la versione del 1990 con Julia Roberts (al tempo fresca del successo mondiale di Pretty Woman), Kiefer Sutherland, Kevin Bacon e la gran regia di Joel Schumacher, e niente, il confronto è netto, ma in negativo. Infatti Linea mortale (in originale Flatliners, prodotto da Michael Douglas), nella banalità delle premesse e della trama, era riuscito a diventare (ed è tuttora, almeno in alcuni circoli) un piccolo cult dell'horror, grazie ad alcune trovate di regia e di narrazione interessanti e un ottimo cast di attori giovanissimi ma promettenti (non dimenticando tra quelli già citati, William Baldwin ed Oliver Platt), tutti baldi giovani che si mettevano in testa di scoprire i segreti della morte e della vita ultraterrena (e le cose andavano ovviamente a scatafascio), invece questo nuovo Flatliners: Linea mortale (Flatliners), non credo sarà mai ricordato. Davvero mediocre è difatti questo remake, un remake che forse non aveva senso produrre. Perché se capita spesso che in tempi di rivisitazioni ci si possa imbattere ed assistere a operazioni completamente ingiustificate, qui si tocca probabilmente il fondo con questo remake mal gestito dallo svedese Niels Arden Oplev (regista arrivato alla ribalta internazionale dopo il successo di Uomini Che Odiano Le Donne) su malfermo script di Ben Ripley (che scrisse anche il discreto Source Code del discreto Duncan Jones), che si permette di aggiornare (in modo non affatto migliore) l'originale che aveva altresì, seppur con la consapevolezza dei propri limiti, l'intelligenza di sollevare interrogativi esistenziali per poi gettarsi nel paranormale, ma qui purtroppo lo spirito inevitabilmente si smarrisce. A 27 anni di distanza infatti della combriccola di giovani studenti di una dura università di medicina c'è solo una citazione in filigrana del film di Schumacher con la partecipazione nel cast di Kiefer Sutherland, al tempo protagonista della vicenda, qui docente duro ma appassionato del gruppo di giovani medici. Il film purtroppo è tutto qui, perché il fascino delle atmosfere è castrato sin dall'inizio da una narrazione lenta e poco coinvolgente.

La forma dell'acqua (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 01/02/2019 Qui - E' uno di quei registi verso cui è difficile provare disaffezione, una volta che hai iniziato ad amarlo, e quel regista è Guillermo del Toro, lui che, nel corso della sua carriera raramente ha perso qualche colpo (anche come produttore), e pur quando ha dato vita a pellicole che non hanno riscontrato un favore totalizzante, come nel caso del suo film più recente, Crimson Peak, si è sempre trattato di ottime produzioni che non hanno minimamente scalfito l'affetto e l'adorazione dei fan. Questo perché il regista messicano è uno che crede fortemente in quello che realizza, e ciò rende autoriali tutti i suoi lavori, tratteggiando una linea comune che è in grado di unire opere anche molto diverse tra loro. L'ultimo incredibile suo lavoro è La forma dell'acqua (The Shape of Water), film del 2017 ovviamente da lui diretto, un racconto fantastico ambientato nell'America degli anni '60. Siamo nel 1962, e l'America è in piena Guerra Fredda con l'Unione Sovietica. In un laboratorio scientifico di Baltimora arriva una misteriosa creatura, catturata dal temibile colonnello Strickland (Michael Shannon). Elisa Esposito (Sally Hawkins) è una donna delle pulizie che lavora all'interno della struttura e casualmente nota questo particolare essere marino, dalle sembianze quasi umanoidi, che lo rendono un perfetto mix tra un uomo e un pesce. La donna purtroppo è muta, ed incuriosita da questa creatura, per la quale prova anche compassione per via del fatto che viene tenuta in cattività, inizia ad entrare di nascosto nella sala in cui risiede questo strano essere, riuscendo incredibilmente a comunicare con lui. Di un racconto quindi di fantasia più sfrenata ci parla il film, eppure, anche se questo film per questo non riflette assolutamente una storia possibile nel mondo reale (anzi, questa storia è delicata e toccante da emozionare nel profondo lo spettatore), tutto quello che troviamo nella pellicola (e con tutto intendo ogni singolo dettaglio) è semplicemente perfetto. Una pellicola che vale la pena vedere (e rivedere) per tanti motivi, ma che tenta comunque di nascondere anche qualche difetto (essi ci sono e fanno perdere sicuramente mezzo voto). Innanzi tutto, è bene dire che l'idea su cui si fonda il film non è affatto originale, fermo restando che il regista riesce comunque ad intrattenere lo spettatore con una regia particolarmente incisiva. Si può notare infatti un palese richiamo al film d'animazione Disney "La Bella e la Bestia" (ma anche a qualcun altro prodotto simile), anche se il contesto è molto differente. Lei, una donna di bell'aspetto, lui, un essere che di umano ha poco e niente. Eppure, potrebbe sorprendere quanto la creatura possa risultare più umana di quanto si possa pensare.

Tutto quello che vuoi (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 31/01/2019 Qui - Diretto da Francesco BruniTutto quello che vuoi, è un film (del 2017) garbato e rassicurante, tuttavia non particolarmente originale e del tutto prevedibile. Dopo il successo del film francese Quasi amici di Olivier Nakache del 2011, la tematica del rapporto tra anziano e badante va di moda, anche qui è evidenziato il contrasto tra l'educazione (all'antica, ahimè) dell'anziano Giorgio (il bravissimo Giuliano Montaldo) e la rozzezza del ragazzo Alessandro (il bravo ed efficace Andrea Carpenzano). Il film è girato con un budget ridottissimo, un villino a Roma che ben rispecchia la differenza tra la tipologia residenziale "signorile" e quella popolare. Giorgio è un poeta elegante intellettuale, nato a Pisa 85 anni fa, colpito da una forma di Alzheimer. Era stato amico di Sandro Pertini (di cui porta sempre con sé una sua foto) e aveva combattuto a fianco degli Alleati nell'ultima guerra mondiale. Alessandro, invece, è un ragazzo di 22 anni, rozzo e ignorante (l'unica cosa che legge è il Corriere dello Sport) che ha smesso di studiare e non ha ancora deciso cosa fare della sua vita e, nel frattempo, spaccia nel quartiere. Suo padre (Antonio Gerardi), stufo di vederselo ciondolare dentro casa e incapace a educarlo, gli trova il lavoro di accompagnamento del vecchio signore, diventato ormai un po' sbadato. Alessandro dalle prime ritrosie, poco a poco si incuriosisce delle cose strane e del mondo sconosciuto che Giorgio rappresenta: la storia, la cultura ma anche la fantasia. Nasce e si sviluppa, in tal modo, un'amicizia transgenerazionale e interclassista grazie anche alla disponibilità di Giorgio che accoglie perfino gli amici (inseparabili e nullafacenti) di Alessandro, contento di spezzare così la solitudine causata dalla morte della moglie cinque anni prima.

Quando un Padre (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 31/01/2019 Qui - Se un figlio si ammala gravemente quali diventano le priorità per un genitore che ha messo sempre la carriera al primo posto? E' quello che succede al  protagonista del film Quando un Padre (A Family Man), film del 2016, diretto da Mark Williams che, continuamente oberato di impegni lavorativi e soprattutto di inventare continue strategie al fine di battere la concorrenza (tanto più quando l'avversario in questione è costituito da una donna, Alison Brie), si trova a dover affrontare la dolorosa realtà di avere il proprio bambino seriamente malato di leucemia. Il papà nel corso della terribile malattia comincerà così a dedicarsi maggiormente alla propria famiglia che, invece, ha sempre trascurato per il lavoro, ed "in primis" ovviamente al figlioletto malato. Riscoprirà la gioia di avere degli affetti familiari sinceri, di quanto invece sia arido e spietato, seppure necessario, il mondo del lavoro e pertanto ad iniziare una nuova e più serena esistenza. Il film diretto dal produttore statunitense qui al debutto alla regia, non presenta troppe sorprese: la storia è un "drammone" che mescola il tema del lavoro e dello stress da successo con quello della famiglia e della malattia del figlio, quest'ultimo, con il rischio (inevitabile) di essere ricattatorio. Gerard Butler, poi, nei panni del padre/protagonista è efficace e scontato al tempo stesso: gli vengono bene le parti da uomo con un alto senso di sé (fino a risultare irritante) cui la vita costringe ad abbassare le penne, ma è un profilo umano che si è visto mille volte, e che il possente Re Leonida stesso ha già incarnato (Dane ricorda a tratti un altro suo personaggio, quello di un film diretto da Gabriele Muccino negli Usa ovvero Quello che so dell'amore).

The Silent Man (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 31/01/2019 Qui - Questa è la vera storia di "Gola profonda", e no, non si parla di Linda Lovelace, protagonista dell'omonimo porno-cult, ma dell'uomo (Mark Felt, vice-direttore dell'FBI) "silenzioso" che, nell'America che si apprestava a rieleggere Richard Nixon per il secondo mandato, portò alla luce e fu la fonte anonima (la "Gola profonda", appunto) del famoso scandalo conosciuto come Watergate. Peter Landesman, giornalista investigativo prima che regista, lo aveva già dimostrato nel suo film d'esordio, Parkland, confermandolo poi nel successivo Concussion (Zona d'ombra con Will Smith): l'oggetto del suo cinema è da ricercarsi sempre dietro le pieghe delle verità, negli angoli nascosti di vicende realmente accadute. Ispirato ai libri dello stesso Mark Felt e di John O'ConnorThe Silent Man (The Mark Felt: The Man Who Brought Down the White House) potrebbe essere perciò considerato "il dietro le quinte del dietro le quinte" di Tutti gli uomini del Presidente, opera che mai come in questi anni di cinematografia (si pensi anche a The Post di Steven Spielberg) sta tornando alla ribalta. Più nello specifico, però, il regista è interessato a soffermarsi sull'uomo dietro il "sussurratore" e, soprattutto, sul momento cruciale vissuto all'interno dell'FBI all'indomani della morte di J. Edgar Hoover (che guidava il Bureau dal 1935): la Casa Bianca colse la palla al balzo per poter finalmente mettere mano sull'istituzione che, fino a quel momento, da statuto era sempre stata indipendente e libera da qualsiasi forma di controllo governativo. È questo, senza dubbio, l'aspetto più interessante del film, che si concentra sul difficile momento di Felt (i più lo immaginavano sarebbe stato il naturale successore di Hoover) chiamato a dover sottostare a L. Patrick Gray (Marton Csokas), nuovo direttore e uomo vicino a Nixon, primo informatore della Casa Bianca allo scoppio del caso Watergate. Peccato che la sceneggiatura talvolta fin troppo verbosa, che cerca di condensare concetti e informazioni (anche molto tecniche) dentro sguardi e momenti di alta tensione dialogica, non sempre sia perfettamente chiara ed efficace.

Sing (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 31/01/2019 Qui - Avevo già in mente di recuperarlo il più prima possibile, soprattutto dopo aver intravisto qualcosina in Pets: Vita da animali (di cui a quanto pare è già in programma il sequel), ma non c'ero ancora riuscito, poi Mediaset l'ha mandato in prima visione prima dell'Epifania ed è così che ho finalmente visto il settimo lungometraggio della prolifica Illumination Entertainment, casa di produzione che da Cattivissimo me in avanti ha sfornato quasi ogni anno film d'animazione di qualità altalenante ma successo crescente. Come questo Sing, film d'animazione del 2016 diretto da Garth Jennings, un prodotto semplice e fresco, non troppo cerebrale o innovativo nei temi, ma ugualmente coinvolgente e spassoso, che tuttavia non mi ha del tutto convinto. Infatti, iniziamo subito col dire quello che Sing, che racconta del koala Buster Moon proprietario di un bellissimo teatro, purtroppo con gli anni caduto in disgrazia, che siccome si ritrova al verde e pieno di debiti decide di indire una grande gara di canto, una gara che complice un errore di stampa relativo al premio finale attira alle audizioni una folla numerosissima di "persone comuni" che sognano di cambiare la propria vita, non ha: non ha la profondità dei prodotti Pixar, né una sceneggiatura brillante come il disneyano Zootropolis (tanto per citare un altro film ambientato in un mondo animale). Anzi, bisogna dire che nella sostanza Sing ha ben poco di originale: la storia è delle più classiche e come tale riporta svolte piuttosto prevedibili, i personaggi ricalcano il topos hollywoodiano degli antieroi che si riscattano perseguendo con tenacia le proprie passioni, la morale (avere fiducia in sé stessi) è trita e ritrita. La stessa idea di base, quella del contest musicale, si aggrappa chiaramente al successo di talent show come X FactorThe Voice ecc. e la colonna sonora è composta da canzoni molto conosciute presso il grande pubblico (si va da Frank Sinatra a Taylor Swift).

Il domani tra di noi (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 31/01/2019 Qui - Di sicuro non strafa ma di certo neanche delude, anche se pecca dal punto di vista dell'originalità e, soprattutto, della prevedibilità, ma tutto sommato tiene botta fino alla fine miscelando l'avventura e la drammaticità, per tre quarti della durata, con il romanticismo e il sentimento della parte conclusiva, Il domani tra di noi (The Mountain Between Us), nuovo film (del 2017) del regista di Paradise Now. Il film infatti e dopotutto, diretto da Hany Abu-Assad, tratto dal romanzo The Mountain Between Us di Charles Martin, che mescola il melodramma classico con il survival, consegna allo spettatore tutto ciò che promette in partenza: due grandi star, avventura e sentimenti, tutto mixato in maniera semplicistica (ma neanche troppo ad essere sinceri) per regalare agli spettatori due ore di intrattenimento un po' romantico e un po' avvincente che magari alla fin fine non sanno né di carne né di pesce, ma comunque riescono a saziare. Il film difatti, che si basa sulla sopravvivenza e dai risvolti sentimentali, che narra appunto la storia di Alex (Kate Winslet), una dinamica fotoreporter, e di Ben (Idris Elba), un pacato neurochirurgo che si incontrano in aeroporto dopo aver appreso che il loro volo è stato cancellato a causa di una forte turbolenza, e che siccome entrambi devono assolutamente prendere un'aereo entro l'indomani affittano un velivolo con conducente che, dopo aver aggirato la tempesta, viene colpito da un ictus perdendo irreversibilmente i controlli dell'aereo e facendolo precipitare nel bel mezzo delle montagne, tra la natura incontaminata, e in questa situazione i due, con caratteri decisamente opposti, saranno costretti a collaborare e a unire le forze per riuscire a sopravvivere, lo fa in un modo non eccessivamente drammatico, anzi, si prende anche abbastanza alla leggera in maniera direi gradevole.

La sposa bambina (2014)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 31/01/2019 Qui - Tratto purtroppo da una storia vera, storia tratta dall'omonimo romanzo scritto da Nojoud Ali e dalla giornalista Delphine Minoui e che ripercorre anche il vissuto della stessa regista, Khadija Al-SalamiLa Sposa Bambina, film del 2014 diretto dalla regista yemenita, narra la vicenda di una bimba (appunto) yemenita di 10 anni andata in sposa ad un uomo più vecchio di lei di 20 anni, subendo abusi e violenze sessuali "legittimati" dal fatto che quest'ultimo era suo marito. La bambina in questione, non riuscendo più a sopportare le continue violenze, riesce a scappare dal villaggio presso cui era stata relegata e ad appellarsi al tribunale della città di Sana'a al fine di chiedere il divorzio dal marito. Il suo caso, primo nella storia in Yemen, viene preso in considerazione ed a cuore da un giudice il quale si adopera con ogni mezzo per togliere la giovanissima  protagonista dalla potestà del marito e renderla finalmente una persona libera e concederle la possibilità di vivere la propria esistenza di adolescente, sebbene ormai fortemente provata. Questa pellicola quindi, che affronta appunto un tema scottante, un quasi documentario con il difetto tuttavia di essere troppo didascalico e eccessivamente retorico, denuncia apertamente la pratica di dare in sposa le proprie figlie ancora bambine a uomini più vecchi in cambio di denaro, togliendo loro l'innocenza e la possibilità di vivere serenamente la propria vita come tutti gli altri bambini ed adolescenti nel resto del mondo. Dal film si evince che purtroppo è una consuetudine assai diffusa in certi paesi musulmani e soprattutto nei villaggi dove impera l'ignoranza e la certezza di agire bene nei confronti delle proprie figlie.

The Bachelors: Un nuovo inizio (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 31/01/2019 Qui - Una storia come tante, abbastanza convenzionale per quello che racconta: l'elaborazione del lutto, la depressione e il disagio giovanile all'interno della famiglia sono argomenti già sviscerati in altre decine di pellicole. La differenza lo fa l'impegno, l'emozionalità che traspare dalle interpretazioni di un cast abile e credibile, dalla regia che non si concede distrazioni e da una sceneggiatura che tenta di imprimere quella forza e quella carica emotiva dati da argomenti sempre interessanti e attuali. Una buona dramedy (garbata e non troppo stucchevole) che riesce a intrattenere, coinvolgere ed emozionare in maniera semplice e poco banale. The Bachelors: Un nuovo inizio infatti, film del 2017 scritto e diretto da Kurt Voelker, un film convincente e riuscito, un viaggio dolceamaro (costantemente in equilibrio fra il ricordo di un doloroso passato e il timido slancio verso un futuro incerto ma affascinante) che arriva al cuore dello spettatore, un film che, seppur lontano dal livello di introspezione e intensità raggiunto per esempio da Manchester By The Sea, riesce con una sostanziale scolasticità nella messa in scena e nello sviluppo narrativo, a veicolare un messaggio di speranza e di possibilità di costruire un futuro sulle proprie macerie personali. La struttura narrativa è difatti equilibrata, lineare, attenta a non cadere mai in eccessivi sentimentalismi o in scene di buonismo e retorica del dolore. Una narrazione insomma priva di guizzi originali, ma sincera nel miscelare silenzi e slanci emozionali e nel dare vita a un pungente ritratto degli adulti di oggi, sempre più incapaci di affrontare i propri problemi, e di conseguenza inadeguati nell'aiutare i loro figli a fare altrettanto.

Virgin Mountain (2015)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 31/01/2019 Qui - Quella raccontata dal regista islandese Dagur Kàri è una storia di solitudine ed emarginazione, la storia di un uomo che vorrebbe uscire dal proprio guscio ma che invece si lascia trascinare dagli eventi. Virgin Mountain (Fúsi), film islandese del 2015 infatti, racconta la storia di un uomo timido e taciturno di 43 anni che vive con sua madre e lavora in aeroporto, dove è vittima di bullismo da parte dei suoi colleghi. Egli ama ascoltare la musica hard rock e passa il suo tempo libero a rievocare battaglie con i soldatini (il nostro protagonista difatti ha uno speciale interesse per la Seconda Guerra mondiale e addirittura possiede un modello in miniatura della battaglia di El Alamein con cui, occasionalmente, gioca con il suo migliore amico Mordur), ma il giorno del suo compleanno, egli riceve in dono dal compagno della madre l'iscrizione a un corso di Country Dance, e sarà qui che conoscerà Sjöfn, una donna triste e sola che aiuterà ad essere felice, e sarà da quel momento che qualcosa nella sua vita definitivamente (anche senza volerlo veramente) cambierà. Virgin Mountain è quindi una favola intima, ma anche una pellicola cruda e delicata allo stesso tempo, ispirata da un personaggio imponente e fragile che incontrerà una persona a lui affine, una persona che come lui ha paura del mondo esterno, così poco indulgente e frivolo. Una pellicola che per questo offre due bellissimi ritratti e lancia un bel messaggio di speranza con la sua narrazione lontana da ogni cliché, che scava con lucidità l'umanità di ogni giorno, un lavoro commovente, che fotografa come la felicità viva attraverso le piccole cose. Una pellicola impreziosita da un umorismo sottile, leggero che accompagna dolcemente il dramma che abita il film e il protagonista, costretto a dover vivere una vita così poco attinente alla sua persona. Una pellicola insomma davvero bella ed interessante, che evita ogni sorta di sentimentalismo e riesce a sorprendere anche con un finale dolce amaro.

mercoledì 26 giugno 2019

Una spia e mezzo (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/01/2019 Qui - Una spia e mezzo (Commedia, Azione, Usa 2016): La commedia in salsa action basata sulla chimica tra i due protagonisti, una versione aggiornata della humpsy-bumpsy (piccolo e impacciato uno, grosso e manesco l'altro) di Rawson Marshall Thurber (Come ti spaccio la famigliaPalle al balzo) presenta svariati requisiti negativi: le scene d'azione sono mosce, il discorso sugli effetti del bullismo è quanto mai rozzo e inefficace, lo schema narrativo (con il protagonista che non sa su chi riporre la propria fiducia) non usato al meglio e comunque vecchiotto. Il feeling tra il ciarliero Kevin Hart e il possente Dwayne Johnson dona qualche istante ridanciano (soprattutto per merito del primo, comico di razza normalmente male impiegato, ma anche del secondo, che non smetto comunque di amare dopo questa prova leggermente deludente), ma il copione di David Stassen e Ike Barinholtz, cui ha messo le mani anche il regista, è sovente semplicistico e mai esaltante (Jason Bateman è un sadico impiegato che afferma di essere membro di Scientology, abbastanza inutile). La regia è visibilmente volenterosa, ma il citazionismo è scriteriato (che c'entrano Un compleanno da ricordareTwilight e Jason Bourne?), e la chiusa, con The Rock che si svela in costume adamitico davanti alla folla dei suoi ex compagni di liceo (tra cui c'è persino Melissa McCarthy), è irrealistica e imbarazzante. Vale comunque uno sguardo per l'immagine iniziale, ottenuta in digitale, di The Rock in divertente versione obesa. E comunque di positivo c'è anche la colonna sonora, dal groove rilevante, anch'essa fin troppo poco presente, e i bloopers dopo i titoli di coda. Quest'ultimi fanno molto ridere, tanto da farvi riflettere sul film stesso. Un film (un buddy movie) non orribile né inguardabile, ma irrimediabilmente conformista. Un film leggermente migliore di Poliziotto in prova e Un poliziotto ancora in prova con Kevin Hart protagonista, che può comunque divertire, ma a cui non si può dare la sufficienza cinematograficamente parlando. Voto: 5+

L'accabadora (2015)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/01/2019 Qui - L'accabadora (Film drammatico, Italia 2015): La storia delle ''accabadora'', donne della Sardegna rurale che secondo alcuni (è ancora aperto il dibattito antropologico infatti sulla loro esistenza, alcuni sostengono siano leggende, altri che siano realmente esistite) negli anni della guerra praticavano una sorta di eutanasia ai malati in fin di vita, può anche essere interessante ed utile è girare un film su un tale argomento (come è stato riconosciuto dallo stesso ministero dei beni culturali), ma sarebbe stato più efficace (e forse meno noioso) girare un documentario, perché questo film ha tutte le caratteristiche di un polpettone soporifero, imbarazzante per certi versi, non in grado di trasmettere alcuna tensione emotiva. La mancanza di dialoghi è forse il difetto principale (e quelli che ci sono neanche eccezionali, anzi, attori con accenti e lingue diverse in una storia che si svolge in una terra in cui al tempo la maggior parte degli abitanti erano analfabeti o parlavano soltanto il dialetto, non aiutano), una sceneggiatura pensata ed organizzata male, con pochi colpi di scena, un andamento piatto in cui fin da subito è facile intuire la conclusione. Proprio perché i silenzi ripetuti hanno sì un ruolo importante nel film di Enrico Pau, ma spesso risultano (per non dire sempre) poco comunicativi all'interno di una narrazione appunto già scarna. Donatella Finocchiaro interpreta bene, anzi, proprio la prova dell'attrice catanese è una delle cose migliori del film (che come detto soffre di una certa lentezza narrativa e, cosa più importante, di un montaggio a tratti poco incisivo, dato che il racconto a ritroso provoca un po' di incertezza e confusione), un'Annetta su cui grava costantemente il peso del compito che deve svolgere: profondamente triste e dolente, appare talvolta spettrale proprio come la città in cui si muove (una Cagliari che emerge come una città fantasma, affascinante ma anche portatrice di profondi lutti, giacché il film è ambientato all'inizio degli anni '40, quando la Guerra inizia a distruggere la città). Sembra però mancare anche a lei la tridimensionalità di un personaggio che non è solo il ruolo che deve svolgere, ma anche un essere umano. Anche gli altri ruoli femminili sono poco convincenti (tra questi quello di Sara Serraiocco e Carolina Crescentini), in un lavoro che forse si è concentrato più sul testo che sull'azione. Il rigoroso lavoro dedicato alla fotografia, alla scenografia, ai costumi poteva quindi raccontare di più. Emerge comunque efficacemente come il terzo film di Enrico Pau non abbia la pretesa di raccontare tanto dell'eutanasia praticata dall'accabadora, quanto il lutto, inteso come il vuoto che esso lascia. Peccato che per farlo la pellicola si trascini per un tempo breve che sembra però interminabile. E insomma ricostruzione scadente di una leggenda affascinante è questa. Voto: 5

Altamira (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/01/2019 Qui - Altamira (Dramma, Spagna, Francia, 2016): Il merito maggiore di questo film (Finding Altamira) diretto da Hugh Hudson è quello di mettere in evidenza un fatto storico come la scoperta delle antiche pitture nella grotta di Altamira. Scoperta che suscitò sia interesse che grande contrarietà, Marcelino Sanz de Sautuola infatti, si trovò a dover persuadere scettici e increduli, tra cui uomini di scienza e uomini di chiesa, che avanzarono formalmente forti dubbi sia sulla datazione dei dipinti che sulla loro effettiva validità. Accettare l'autenticità di quelle pitture rupestri, non solo avrebbe significato un capovolgimento delle credenze sui Paleolotici, ma avrebbe turbato e cambiato in modo determinante anche la percezione dell'uomo secondo la chiesa, che considerò fin da subito quei graffiti un attacco alla verità della Bibbia. In tal senso è intrigante ed avvincente osservare come il protagonista si troverà al centro di due fuochi, accusato di calunnia e di eresia, ma se dal punto di vista prettamente storico la trama riesce a suscitare interesse nello spettatore, dal punto di vista narrativo ed espositivo Altamira non eccelle e né riesce a rendere omaggio ai protagonisti di una vicenda così singolare. Ciò che manca in una pellicola come questa è un intreccio febbrile, muscolare, pronto a reggere un'avvenimento storico di tale portata con tutte le sue conseguenze, sia inconfutabili che oppugnabili. Infatti nonostante l'input della scoperta, del contrasto tra scienza e religione, tra matrimonio e voglia di conoscenza, niente riesce ad emozionare lo spettatore, giacché tutto viene raccontato in maniera schematica, senza grande verve e con pochi acuti. Antonio Banderas porta avanti una performance strutturata, spesso austera, ma godibile, che nulla può però davanti al resto delle caratterizzazioni ed interpretazioni, per niente compatte o allineate (troppo tipicizzate) con la storia e assolutamente fuori parte (su tutti Rupert Everett, bene invece Golshifteh Farahani e Clement Sibony). Per quanto Altamira sia aiutata da una buona fotografia, la sua trama fin troppo semplicistica ci porta a dover asserire quanto le sue tematiche pungenti ed edificanti siano messe in scena senza alcun approfondimento, a partire dall'oscurantismo clericale e antiscientifico sino ad arrivare ai dogmatismi antropologici. Non c'è espressività o impegno nella costruzione narrativa, la sceneggiatura non scalfisce nemmeno la superficie delle ostilità che vive il personaggio, sempre diviso tra chiesa e scienza, credenze e dottrine. Un film che, in ultima analisi, non riesce a rendere giustizia né ai personaggi realmente esistiti, né agli interpreti e né alle delicate tematiche che tenta drammaticamente di raccontare. Perché è scontato il valore didattico della pellicola, ma, nonostante tutto, stenta ad appassionare totalmente chi guarda (alcuni passaggi "animati" poi sono davvero ridicoli). Non è un caso che il film non sia passato dalle sale cinematografiche italiane, ma direttamente in DVD. Voto: 5

Insidious - L'ultima chiave (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/01/2019 Qui - Insidious - L'ultima chiave (Horror, Usa 2018): Dopo un terzo capitolo prequel assolutamente non all'altezza (almeno personalmente parlando, qui), questo quarto (e in teoria ultimo) capitolo del franchise Insidious (il secondo senza James Wan alla regia, che cronologicamente rappresenta il secondo capitolo della serie, precedente agli avvenimenti dei primi due film) ha qualche guizzo interessante, pur affogando nella mediocrità in cui cadono vittima tutti gli horror degli ultimi anni. Continuano quindi le avventure della sensitiva Elise (Lin Shaye), in eventi antecedenti al primo Insidious per ovvi motivi di trama. In questo capitolo lei (un personaggio che ho comunque odiato dal primo momento) e la sua squadra personale di "acchiappafantasmi" dovranno tornare nella dimora d'infanzia di lei, infestata da uno spirito maligno che turba le notti dei nuovi inquilini. Nulla di nuovo sotto il sole e nell'Altrove. Solite regole, soliti cliché standard della narrativa horror e poco più. L'abbandono di Wan, dopo che ha firmato la regia dei primi due capitoli, da molti non vista come la vera forza del franchise, dimostra proprio l'opposto: senza un regista talentuoso (Adam Robitel proprio sembrerebbe non esserlo), Insidious ormai è alla mercé di Leigh Whannell, creatore e sceneggiatore di tutta la saga, che testa e sperimenta nuovi modi per allargare ipotetiche potenzialità ormai sfruttate in tutti i modi possibili. Insidious - L'ultima chiave è quindi un distributore di climax senza sorprese, che eroga dosati e oscuri Jumpscare in momenti perlopiù prevedibili. Certo, il film si lascia guardare con un minimo di gusto, grazie a una sceneggiatura che cerca (seppur forzatamente) di ricollegarsi al primo capitolo e a un pizzico di sana autoironia, utile nel compiacere il pubblico pagante. A questi due aspetti si aggiunge un reminiscente evento retroattivo che approfondisce il legame di Elise con l'oscuro, a supporto tanto della storia quanto dell'evoluzione della stessa protagonista. Va un po' meglio, invece, se guardiamo alla sola creatura demoniaca di turno: questa ha un background e un design interessante, ed è l'unico elemento che giustifichi la continua evoluzione de l'Altrove, le cui potenzialità, film dopo film, appaiono da un lato notevoli, ma dall'altro palesano evidenti limiti narrativi, che intralciano soventemente la concretezza finale dell'opera. A discapito quindi della qualità, questo capitolo di Insidious (non proprio migliore del terzo) cerca di compiacere gli appassionati del genere. Ai fan della saga viene fornito un finale utile a rileggere gli altri capitoli da un punto di vista nuovo, certo non necessario, ma comunque utile per continuare con altri film in futuro. Nonostante questi buoni presupposti, purtroppo il film si limita a fare il compitino: è un film godibile, più thriller che horror, ma privo di qualsiasi acuto. Voto: 5

Fortunata (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/01/2019 Qui - Fortunata (Dramma, Italia 2017): Per il suo sesto lungometraggio da regista, Sergio Castellitto torna a lavorare sia con la moglie Margaret Mazzantini, che questa volta firma una sceneggiatura originale, sia con Jasmine Trinca, dopo il deludente Nessuno si salva da solo. Purtroppo, Fortunata è l'ennesimo passo falso dietro la macchina da presa del regista romano, prigioniero di un racconto che si sforza in tutti i modi di apparire anticonvenzionale, risultando invece pieno zeppo di cliché (dai cinesi super integrati e "bravissimi coi soldi", fino agli islamici preganti sulle rive del Tevere, il film inanella una serie infinita di banalità da cui nemmeno dei bravi interpreti come Stefano Accorsi e Alessandro Borghi riescono a uscirne). La storia infatti non regge la durata di un film, e la regia, che sembra mettercela tutta per intrattenere il suo pubblico ma non ci riesce. In una Roma calda e vuota scorrono le vicende di vita di Fortunata (un personaggio molto forte e ben definito, oltre ad essere ben interpretato dalla Trinca), le sue paure, i suoi problemi economici e sentimentali (donna vitale che vive alla giornata, a volte sopravvive in un contesto, povero di certezze e denso difficoltà, specialmente se si vuole coltivare un sogno). Forse si intravede una vena neorealista, quella rosa del romanzo d'appendice, quella sociale, addirittura anche politica, fatto sta che c'è troppa carne al fuoco e non si riesce a capire dove si voglia andare a parare. Noioso e scontato si aspetta sempre una svolta promessa che non arriva mai. Peccato perché Castellitto dirige non malissimo questo film e gli attori, tutti sono efficaci nell'interpretazione dei ruoli assegnati: brava Jasmine Trinca (non a caso vincitrice di un premio a Cannes, dove il film è stato presentato ed anche un David di Donatello), di più la piccola Nicole Centanni nell'interpretare il ruolo della piccola Barbara (non dimenticando un Edoardo Pesce davvero credibile nel ruolo del padre/marito prevedibilmente violento). Una prima parte che convince, una seconda che perde di misura e diventa quasi isterico e sopra le righe. Vuole mettere sul piatto molte cose, ma ne porta avanti meno di quanto voluto. La storia insomma non funziona, il momento migliore del film è "Vivere" di Vasco, canzone che chiude un film che, nonostante la critica acclamante, non mi ha convinto. Voto: 5+

Gli sdraiati (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/01/2019 Qui - Gli sdraiati (Dramma, Italia 2017): Con questo film, Francesca Archibugi e Francesco Piccolo si imbarcano nella difficile impresa d'analizzare il mondo giovanile da due punti di vista, ovviamente opposti: quello del padre e quello del figlio. Ma non solo: il film si propone di mettere in scena anche l'analisi della difficile vita di un bambino e di un adolescente, figli di genitori separati. Liberamente tratto dall'omonimo romanzo di Michele SerraGli Sdraiati promette uno spaccato nella vita di una famiglia divisa, analizzando le mille difficoltà che, da ambo i lati, si devono affrontare per ottenere una pacifica convivenza. Si propone di farlo con leggerezza, con un doppio sguardo a seguire in modo molto intimo le vite dei due protagonisti, nel loro cammino verso la ricongiunzione. Ma non è tutto oro ciò che luccica. Nonostante i più che nobili intenti, Gli Sdraiati soffre di grandi pecche, prevalentemente nella sceneggiatura, che rendono il film debole e incapace tanto d'approfondire la tematica, quanto di portare a compimento almeno una delle trame presentate. Vive di superficialità nel senso più stretto del termine: rimane a galla, senza mai sondare davvero alcuna tematica. Ogni sotto-trama resta ferma all'introduzione: veniamo a conoscenza della radice dei problemi comportamentali di Tito, ma non ci è fornita una soluzione, conosciamo i problemi relazionali di Giorgio, ma questo non ci permette di vedere un finale, lieto o tetro che sia. Una trama a metà, spezzata, che sottolinea i problemi ma non è in grado d'essere propositiva. Ma il problema non si pone solamente nell'assenza di una proposta risolutiva, che pure potrebbe mancare. Gli Sdraiati si caratterizza per una totale tendenza all'unilateralità, all'incapacità di vedere concretamente il mondo con gli occhi di un giovane e, soprattutto, nel saperlo dipingere. Ogni comportamento dei ragazzi è una sequela di facili stereotipi, tutti raggruppati a formare un mostro tentacolato, nessuna delle azioni e reazioni, da ambo le parti, riesce a godere della benché minima credibilità. Infatti il ritratto generazionale non funziona perché ogni elemento portato in scena è spinto al parossismo finendo per privare il pubblico del piacere della condivisione di sensazioni con i personaggi, figurine monodimensionali prive di umanità e che stancano dopo pochi minuti. A proposito dei personaggi (oltre ad una sprecata ed abbastanza inutile Donatella Finocchiaro, così come Barbara Ronchi, una barista della RAI purtroppo estremamente sacrificata dall'evolversi degli eventi), un gigantesco punto interrogativo riguarda Antonia Truppo, costantemente sopra le righe nell'interpretare una domestica trapiantata al nord che riveste un ruolo fondamentale nell'economia dello sviluppo narrativo del film. Un film in cui parzialmente a salvarsi è Claudio Bisio, ma non appunto la pellicola che scorre via, mentre si va altrove con la testa. Voto: 5

La rivoluzione di Charlie (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/01/2019 Qui - La rivoluzione di Charlie (Commedia, Usa 2016): Commedia sentimentale noiosa e incolore. Giovane single, impegnato in un lavoro monotono e ripetitivo, vive ancora con la madre e il patrigno. Si prende una cotta per una ragazza già impegnata e in più si ritrova  tra i piedi il padre (Christopher Meloni in abiti sordidi) cialtrone e lestofante (in un rapporto curiosamente che è l'unica cosa autentica e percepibile all'interno del film, un valido e credibile legame figlio di una antica amarezza e di un profondo risentimento). Non prende iniziative, si lascia vivere passivamente e subisce questo sentimento, anche quando le cose potrebbero prendere una piega a lui favorevole, non sembra prendere in mano la faccenda. La rivoluzione di Charlie (Almost Friends) è un film che vede affiancarsi i due ex bambini prodigio Freddie Highmore e Haley Joel Osment (non dimenticando Odeya Rush), un teen drama che tocca tematiche piuttosto serie, come la disfunzione genitoriale, la gravidanza e i traumi emotivi. Il dramma diretto da Jake Goldberger è inizialmente delicato e divertente ma, con il proseguire della storia, non riesce ad avere una forma e risulta privo di personalità. Ciò che non convince è l'impatto della narrazione, le scelte che compie Charlie sono poco ispirate e sembrano non veicolare alcuna vera urgenza, alcuna intensità. La performance di Highmore non arresta il declino della pellicola, che è evidentemente piatta, piena di cliché, un esitante manierismo: l'attore non riesce a mettere a fuoco il suo personaggio, che ha una personalità maldestra, profonda nel suo dolore ed auto-ironica. Perché se La rivoluzione di Charlie da un lato coglie l'afflizione e il distacco che c'è tra Charlie e il padre, dall'altro sembra non possedere altri momenti intensi o che conferiscano alla trama una vera drammaticità memorabile. Il film non riesce a culminare e a portare la storia ad un climax, la sceneggiatura di questo coming-of-age è dispersiva, logorante e sperpera ogni attenzione drammatica ponendo al centro di tutto l'amore infelice che Charlie prova per Ambra, il cui esito appare tristemente prevedibile già dalle prime scene, invece di focalizzarsi sulla rinascita, sulla rivoluzione emotiva ed esistenziale di un ragazzo evidentemente in crisi, bloccato in un'impasse. E insomma commedia sentimentale senza identità, come il suo protagonista, non diverte e non offre nemmeno spunti di riflessione. Voto: 5

Beata ignoranza (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/01/2019 Qui - Beata ignoranza (Commedia, Italia 2017): Massimiliano Bruno dopo l'ambizioso e drammatico Gli ultimi saranno gli ultimi fa un passo indietro e torna a dirigere una commedia dai toni farseschi, una commedia che cavalca l'onda (furba) di un nuovo trend inaugurato da precedenti modelli come Perfetti Sconosciuti: commedie in grado di partire da un forte legame con la realtà e l'attualità, per poi strutturare un'amara e cinica riflessione sui nostri usi, consumi e debolezze stemperandole tra gag e battute agrodolci, ma se nel "capostipite" firmato da Paolo Genovese l'equilibrio raggiungeva il proprio zenit nella commistione tra risate e amarezza, in Beata Ignoranza la scrittura a tre mani (tra questi lo stesso regista), non è dotata della stessa abile lungimiranza dal taglio chirurgico, anzi, il regista si lascia prendere dalla frenesia di raccontare e trattare troppi argomenti, senza riuscire ad amalgamare in maniera scorrevole, divertente e compiuta i tanti ingredienti cui attinge. Comicità e sentimento, riflessione e risata, critica e satira, hanno un sapore poco autentico e immediato, quando non addirittura insipido e stantio. A risentire della scarsa attinenza al reale sono specialmente le caratterizzazioni davvero evanescenti dei personaggi femminili interpretati da Carolina CrescentiniTeresa Romagnoli e Valeria Bilello, vittime di una scrittura confusa e disorganica, incerta e incompleta, come se fossero lette attraverso un occhio annoiato gettato sulla realtà stessa. Il prodotto finale finisce così per risultare confuso e disorganico, afflitto da uno schizoide bipolarismo tra cattiveria arguta e buonismo da prime time televisivo, e solo l'alchimia comica tra Marco Giallini e Alessandro Gassmann salva il film da una rovinosa caduta nel baratro dell'oblio, grazie al loro talento navigato da esperti comedienne. E quei messaggi positivi di indipendenza, libertà, determinazione e autosufficienza purtroppo non passano dopo la visione di Beata Ignoranza (nel complesso si sorride davvero poco e non arriva mai quella riflessione intelligente, spiazzante e inaspettata che ti faccia rivalutare la visione, anche perché anche la classica storia di paternità e famiglia viene sommersa dai troppi elementi messi sul fuoco con poca armonia). E lo stesso triste destino spetta al cuore del film (un film che se ancora non l'avete capito parla di due professori che per una scommessa, uno detesta la Rete, l'altro vive connesso ai social, devono scambiarsi i ruoli), quella polemica (social sì, social no) che non trova una risposta definitiva, finendo per rimanere del tutto soffocata e inespressa. Insomma un film che si regge sui due attori principali, che in quanto essere umani non possono far miracoli in una commedia che scivola però nell'anonimato più puro. L'impressione è che si potesse fare molto meglio. Voto: 5+

Aspettando il Re (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/01/2019 Qui - Aspettando il Re (Commedia, Film drammatico, Usa 2016): Dall'omonimo romanzo di Dave Eggers (lo stesso autore che fu alla base del mediocre The Circle), un film che parla di seconde possibilità: dopo aver fallito in America, il protagonista prova a dare una svolta alla sua esistenza, umana e professionale, andando in Medio Oriente, la burocrazia araba, però, si rivela un ostacolo piuttosto ostico e il re continua a rimandare l'incontro. Un film che si caratterizza per un buon ritmo, per una scrittura originale e una regia vivace. Le tragicomiche e surreali avventure di Alan Clay si seguono volentieri e sono piuttosto coinvolgenti. Questa sorta di Aspettando Godot diventa il punto centrale del film, occasionalmente variato dalle bevute clandestine di superalcolici in un paese dove è ufficialmente vietato, da un'addetta commerciale danese in vena di avventure sessuali, da visite alla casa avita dell'autista passando per La Mecca, ma soprattutto dall'incontro con una dottoressa che sembra comprendere il povero Clay meglio di tanti altri. Tuttavia l'opera di Tom Tykwer (Lola correProfumoThe International) appare troppo discontinua e frammentata (come il suo protagonista gira a vuoto in azioni senza senso che lasciano lo spettatore senza appigli), e imperdonabilmente superficiale nell'affrontare le complesse tematiche di confronto religioso e politico tra due civiltà così profondamente diverse. E la storia d'amore tra Alan e la bella dottoressa araba, un po' alla tutti vissero felici e contenti con tanto di suggello alla loro passione mediante immersione della coppia (con lei addirittura a seno nudo) nelle cristalline acque del Mar Rosso appare alquanto improbabile se non improponibile. E così mentre Tom Hanks fa il suo ma non è certamente al meglio, il regista non riesce affatto a fare del suo meglio, anzi, anche il finale, finale che in questa pellicola vorrebbe parlare dell'odierna crisi economica, ma che si limita a mettere in fila una serie di sequenze sfilacciate e mai pungenti, è deludente. E quindi Aspettando il Re, una pellicola che appunto ci parla della "solita storia" in cui un uomo lontano da casa finirà per fare un bilancio della sua vita, è un'occasione sprecata. Voto: 5

Berlin Syndrome (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/01/2019 Qui - Berlin Syndrome (Thriller, Australia, 2017): Un dramma psicologico dove i momenti thrilling sono pochi e telefonati. La durata di quasi due ore presupponeva una storia densa di emozioni e di momenti importanti, invece il regista (una certa Cate Shortland) si perde in lungaggini inutili e scene poco credibili, mostrando poca inventiva e scarsa propensione a colpire in maniera significativa. Il finale raffazzonato è la prova di uno script eccessivamente prolisso che al dunque si perde per strada e non soddisfa pienamente. Il film infatti, che racconta, com'è ovvio, di una fotoreporter australiana che dopo una notte di passione con uno sconosciuto viene segregata in casa da quest'ultimo, che non alcuna intenzione di lasciarla andare via e che ha poche possibilità di liberarsi (più o meno), non convince. Bene ma non benissimo il cast, dove è sicuramente da notare la presenza di Teresa Palmer, anzi, del suo corpo nudo e sensuale (forse l'unica cosa buona su cui concentrare la visione, in tal senso di primo acchito sembra di trovarsi nelle atmosfere torbide di Ultimo tango a Parigi, con i due protagonisti preda delle proprie pulsioni erotiche, le cui identità restano mascherate e che sembrano non svelarsi mai), ma Berlin Syndrome (che vorrebbe associare il titolo ad una specie di sindrome di Stoccolma, ma senza i giusti presupposti) ha altri difetti che non gli permettono di raggiungere, a mio avviso, la sufficienza, peccato, perché le potenzialità le aveva. Perché certo, questo psico-thriller ha dinamiche inquietanti ed interessanti, ma il film, basato sul romanzo omonimo di Melanie Joosten, perde presto tensione e attrattiva, diventa prevedibile e troppo esteso, barcollando verso una conclusione problematica e insignificante. Voto: 5

40 sono i nuovi 20 (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/01/2019 Qui - 40 sono i nuovi 20 (Commedia, Usa 2017): Figlia di due registi di commedie di successo come Charles Shyer (Il padre della sposa) e Nancy Meyers (Tutto può succedereL'amore non va in vacanza), l'esordiente Hallie Meyers-Shyer cerca di rifarsi allo stile materno con una pellicola godibile e inerente ai rapporti uomo-donna. In questo caso si gioca, e il titolo italiano lo sa bene, sulla fascinazione che i ragazzi ventenni provano per le donne quarantenni, ma al di là di questo spunto, che comunque di per sé non basta a generare situazioni divertenti, non ci sono altre idee degne di nota in una sceneggiatura (mai concreta, mai credibile) che procede col pilota automatico, tra svolte narrative prevedibili (il ritorno dell'ex marito di lei) e gag forzate (e fastidiose estremizzazioni di buonismo ed ottimismo, oltre ad un semplicismo narrativo). La messinscena della neo-regista non è mai vibrante (la fotografia è eccessivamente artificiosa) e si adagia sui bassi standard delle tante pellicole hollywoodiane fatte con lo stampino dello stesso genere (anche la colonna sonora, curata dal candidato all'Oscar John Debney, si riduce ad un semplice ensemble di tracce senza spessore, che potrebbero spazientire più che intrattenere). Il lungometraggio pecca poi nella caratterizzazione dei protagonisti, estremamente monocordi e bidimensionali. La figura della protagonista appare anzitutto vuota, incapace di rispecchiare le sfaccettature emotive e personali di una persona neo-separata. Reese Witherspoon, che da sempre oscilla tra ottime interpretazioni (Quando l'amore brucia l'animaCome l'acqua per gli elefantiMud) e scelte opinabili (WildFuga in tacchi a spillo), risulta inoltre eccessivamente artefatta, soprattutto nei frangenti di felicità. Ottimi sono invece i co-protagonisti Pico AlexanderNat Wolff e Michael Sheen, che devono tuttavia confrontarsi con personaggi ugualmente inconsistenti. E quindi, per colpa di una regista inadatta e di una sceneggiatura leziosa, 40 sono i nuovi 20 è perciò un lungometraggio impersonale e forzato, incapace di coinvolgere veramente. Un film debole nello spunto iniziale e mal costruito. Voto: 5

Nemesi (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/01/2019 Qui - Nemesi (Thriller, Usa 2016): Cosa succede quando uccidi il fratello di una delle più abili chirurghe del pianeta? Che lei ti fa rapire e ti cambia sesso. Questo è quello che accade nei primi venti minuti dell'ultima fatica del regista Walter Hill, vecchia conoscenza del cinema anni '80. Infatti, quando il killer per contratto Frank Kitchen uccide il dissoluto Sebastian Jane, che deve dei soldi alla mala, la sorella della vittima, la Dott.ssa Rachel Jane, chirurgo plastico geniale e body artist, radiata dall'ordine dei medici, medita una vendetta veramente atroce e pedagogica, nelle sue intenzioni, ma Frank non ci pensa proprio a ripartire, non cerca redenzione ma solo vendetta. Dicevo le intenzioni, se quelle di Michelle Rodriguez (con tanto di ridicoli protesi al naso e barbetta finta) tutto sommato riescono, quelle del regista si infrangono immediatamente, anche perché ci vuole una bella dose di sospensione dell'incredulità per star dietro al racconto, che sembra carente proprio in quelli che dovrebbero essere i suoi punti di forza. Difatti, nonostante uno spunto interessante, che viene oltretutto e sostanzialmente ignorato, il film non funziona. Giacché un paio di nudi integrali della protagonista non possono aprire riflessione alcuna sull'impatto emotivo dovuto al cambiamento di sesso, al massimo accennano ad un idea di carnalità che però rimane in superficie, fine a se stessa, un film sulla vendetta, ci tiene il regista a sottolineare questo aspetto, guardandosi bene dal fornire spiegazioni sul cambio di sesso imposto come una punizione. Ed allora, così epurato, il film diventa un banale film sulla vendetta, abbastanza volgare ed inutilmente violento, girato senza un filo di ironia (bel difetto per un "B movie"), una brutta copia di "Jimmy Bobo", tanto per citare un recente lavoro del regista. C'è ben poca azione in Nemesi, i personaggi parlano troppo e spesso a sproposito, il racconto avanza in modo farraginoso e artefatto. Non fosse per Michelle Rodriguez (che concede più corpo, sempre se era il suo davvero, che anima al personaggio, ma con risultati alterni) e per Sigourney Weaver (lei sempre ottima, che vince a mani basse il duello fra star, dimostrando che la classe non è acqua), si sarebbe tentati di mollare il film al suo destino dopo soli 5 minuti. Non lo si fa, ma alla fine i 95 minuti o giù di lì di visione finiscono nel vuoto cosmico. Voto: 4

martedì 25 giugno 2019

Il film della Memoria: La signora dello zoo di Varsavia (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 28/01/2019 Qui - Si è sempre detto, anzi, è sempre stato così, che la guerra non risparmia niente e nessuno, né i bambini, né i vecchi, né i più deboli in generale, ora si scopre anche che, a soffrire dai crimini perpetrati dai nazisti (in tempo di guerra) ci son stati gli animali, oltre ovviamente a milioni di ebrei. Non a caso, tratto da una storia vera, La Signora dello Zoo di Varsavia (The Zookeeper's Wife), film del 2017 diretto da Niki Caro, racconta uno dei tanti episodi avvenuti nel corso della Seconda Guerra Mondiale legati alla persecuzione del popolo ebreo, solo che insieme a loro il film ci rende partecipi di una storia (sicuramente romanzata ma comunque molto interessante ai fini storici perché innanzitutto, fa conoscere una delle pagine terribili ed ancora poco conosciute del conflitto mondiale) che è un racconto di eroismo civile in tempo di guerra, e insieme una dichiarazione d'amore per la natura e gli animali. Il film infatti, un film che, pur aderendo alle principali caratteristiche dei numerosi lungometraggi sull'Olocausto ebreo, veicola un messaggio di speranza per la redenzione dell'umanità, che diventa possibile anche nelle situazioni più estreme, un film ispirato alla storia vera di Antonina Żabińska e di suo marito e soprattutto al romanzo Gli ebrei dello zoo di Varsavia di Diane Ackerman (che ha svelato al mondo il coraggio di questa coppia, inserita a ragione nel giardino dei Giusti dello Yad Vashem di Gerusalemme), si concentra sulle atrocità compiute dai nazisti e sul coraggio della protagonista e della sua famiglia di ribellarsi, mettendo in pericolo la loro stessa vita, per salvare non solo il loro piccolo Zoo ma anche centinaia di ebrei. I due difatti, proprietari dello zoo di Varsavia vedono le loro vite e la loro attività cambiare drasticamente durante l'invasione nazista. Lo zoo viene distrutto, la maggior parte dei bellissimi animali viene ucciso e successivamente anche i pochi superstiti abbattuti. La famiglia inoltre vede quel luogo verde e accogliente diventare una postazione per i militari tedeschi e allora decidono di escogitare un piano per aiutare le famiglie ebraiche che da lì a poco inizieranno ad essere brutalmente perseguitate. In pieno spirito di solidarietà i due decidono di adibire la parte sotterranea dello zoo a rifugio per alcune famiglie ebraiche, riuscendo così a salvarli dal ghetto e dalla persecuzione. Inizialmente solo poche decine di persone, amici di famiglia ma poi intere famiglie, spesso con bambini piccoli, riuscirono a salvarsi dalla furia nazista trovando rifugio nello zoo.

Avengers: Infinity War (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 25/01/2019 Qui - Era il 2008 quando il mondo conobbe il primo film del Marvel Cinematic Universe: Iron Man. E fu subito amore a prima vista, come quello che si vede nei film in bianco e nero, un amore incondizionato e trasparente da parte mia e degli spettatori (tutti) verso il capostipite di uno sterminato universo cinematografico che non sembra essere minimamente vicino all'oblio o ad annoiare il pubblico. Ora, dopo dieci anni (ora 11), ecco arrivare lo scontro finale, la summa di un percorso produttivo ed artistico che ha cambiato per sempre il cinema, il modo di concepirlo e soprattutto il rapporto di quest'ultimo con un pubblico sempre più interattivo e interconnesso: Avengers: Infinity War. Quest'ultimo è infatti cinema allo stato puro, è spettacolo incalzante che incolla allo schermo, stupisce, diverte, fa piangere, spaventa, crea sconforto ma non dimentica mai di dare continua speranza. Diretto da fratelli Anthony e Joe Russo (quelli di Captain America: Winter Soldier, Civil War e di Ant-Man per intenderci), questo diciannovesimo film del MCU difatti, che si basa su una complicata, sfaccettata e curatissima sceneggiatura di Christopher Markus e Stephen McFeely (i cui script hanno interessato tutte le precedenti avventure di Captain America), di cui si continua ancora a parlare a distanza di mesi, che è forse il miglior cinecomic Marvel di sempre (personalmente però dopo i due Guardiani della Galassia e Deadpool), è un film davvero eccezionale. Sì, perché Avengers: Infinity War, un film che i fan dei supereroi aspettavano da tanti anni (ed anche di tutti gli estimatori de La Casa delle Idee), è davvero una gemma cinematografica, apice e scintillante apogeo (per ora) dell'Universo Cinematografico Marvel, di un percorso iniziato con un Tony Stark "spaccone" e presuntuoso che allargando le braccia sembrava volesse dirci: "Sto per offrirvi il più grande spettacolo del mondo!". Ecco, questo film del 2018 dei fratelli Russo è lo splendido risultato di un decennio di cinecomic Marvel, una pellicola epica e spettacolare che porta con sé il corredo genetico di tutto quello che l'ha preceduta, esaltandolo in un film d'insieme che nell'unione di cuori e di spiriti, piuttosto che in quella fisica, regala ai fan uno show che è quanto di più fumettoso si possa immaginare: un gruppo di valorosi, generosi ed impavidi supereroi contro una minaccia spietata e crudele dai poteri inimmaginabili, desiderosa di distruggere l'Universo e sacrificare innumerevoli vite innocenti.

Free Fire (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 24/01/2019 Qui - Impossibile non pensare a Quentin Tarantino o a Martin Scorsese (che, tra l'altro, qui è produttore) mentre scorrono davanti agli occhi le scene di Free Fire, ultimo film di Ben Wheatley, peccato che questo film del 2016 sia, dopo lo strano e insipido High-Rise (tratto da Il condominio di Ballard), l'ennesima delusione. Un film tutto ripiegato su se stesso, inutilmente claustrofobico, un film dalle atmosfere pulp (giacché la storia è ambientata negli anni '70), inutilmente vintage. Il film e il regista infatti (ovviamente personalmente parlando), non riescono fino in fondo a sfruttare la concentrazione di luogo, tempo e azione. Eppure il film partirebbe bene e sembrerebbe anche svilupparsi piuttosto degnamente, poi ad un certo punto le sparatorie cominciano a diventare ridondanti e il film scivola verso il trash più totale, si vede decisamente la voglia di creare qualcosa di simile alle "Iene" di Tarantino (appunto) con ampio condimento Western di sparatorie che si sprecano, ma è tutto parecchio assurdo, anche a livello di sceneggiatura, perché il buon senso, ad un certo punto, per quanto si abbia a che fare con gente svalvolata, dovrebbe prevalere, e invece la sparatoria, l'oggetto del film, che impegna almeno 70 dei 90 minuti di cui si compone il film, insieme al finale, lascia parecchio a desiderare. L'impostazione Tarantiniana difatti, è probabilmente la maggiore forza ma anche e soprattutto la maggiore debolezza di Free Fire: chi ama il genere si sarà divertito, ma forse non avrà trovato il film sufficientemente estremo e l'avrà giudicato a volte (troppe volte) un po' lento (ma anche altro, tra questi io), mentre per chi non è appassionato di questo stile il gradimento sarà stato presumibilmente pari a zero.

La vedova Winchester (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 22/01/2019 Qui - Un'altra casa, proprio come in Madre! di Darren Aronofsky, diventa l'oggetto del mistero per La vedova Winchester, ghost story dove questa diventa contenitore fisico di un racconto a metà tra il realistico (parecchio realistico e reale) e il paranormale. Le due dimensioni però si sfiorano, senza mai veramente toccarsi, nell'impianto pressoché (quasi) perfetto del film orchestrato con maestria da Michael e Peter Spierig (i due fratelli australiani reduci dal sufficiente Saw Legacy e dal quel piccolo gioiellino che sarà sempre Predestination), a cui poi spetta le benedizione di una protagonista sempre eccezionale che risponde al nome di Helen Mirren. È proprio la grande attrice inglese a prestare il volto alla misteriosa vedova Winchester, solita passeggiare con abiti e veli neri, costantemente addobbata a lutto. Generalmente più avvezza a lungometraggi d'autore o comunque impegnati, l'attrice premio Oscar per The Queen permette alla storia di risultare credibile. Infatti la sua interpretazione misurata, intensa, si incastra perfettamente in un contesto che fa della tradizione il centro di tutto. Non parliamo infatti di un horror classico a tutti gli effetti, ma di una storia che ha radici profonde nella cultura americana e non solo. Da secoli l'uomo percepisce e racconta di presenze sovrannaturali attorno a lui, misteri che mai nessuno è riuscito a spiegare e a dimostrare scientificamente, motivo per cui ogni leggenda legata ai fantasmi conserva ancora oggi un'aura di mistero e fascino. I fratelli Spierig sono partiti proprio dalla più classica tradizione per creare un film ricco di tensione, paura e oscurità, calcando certo un po' la mano e la fantasia per rendere il tutto più avvincente. Un prodotto certamente appassionante, girato con piglio deciso e carattere, pur appigliandosi talvolta ai punti di riferimento più naturali del genere, si pensa agli immancabili Jumpscare e ad altre meccaniche narrative proprie dell'horror che non vi dico. Ogni salto dalla poltrona però è pensato con intelligenza, nulla è gratuito, i registi (anche sceneggiatori) preparano con cura il terreno di ogni sorpresa, confezionando un lavoro di buona fattura.

Chiamami col tuo nome (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 21/01/2019 Qui - Non è facile dare un giudizio obiettivo su quest'ultima opera di Luca Guadagnino. Sicuramente bella ed efficace la rappresentazione dei luoghi nei quali si svolge la vicenda, con un'ottima fotografia e con una raffinata capacità evocativa dei luoghi rappresentati, purtroppo però la sceneggiatura non riesce a scandagliare a fondo nel carattere dei personaggi, restando solo alla superficie delle loro problematiche esistenziali e i dialoghi risultano di una elegantemente sontuosa banalità e qualche citazione colta sparsa qua e là non riesce mai a dare loro spessore. La ricostruzione degli ambienti poi, seppur convincente, appare comunque imprecisa e superficiale. Attenzione però, non è un brutto film, è soltanto anonimo, scialbo, uno sbadiglio dietro l'altro. Non mi ha emozionato per niente (e non c'entra niente l'orientamento sessuale). Il problema personalmente è nella piattezza delle recitazioni (a parte forse il giovane protagonista) e (come già accennato pocanzi) della sceneggiatura. Ancora non riesco a capire come abbia fatto a ricevere persino un Oscar, anzi, forse si, perché l'avevo intuito ed alla fine è stato proprio così, la furba carta vincente è stata mettere una "storia omosessuale" aggiungere celebri Hit degli anni '80, ambientarlo in quel decennio cavalcando l'onda della nostalgia che ormai è di moda tempo e frullare tutto. Mi è parsa quindi solo una furbissima operazione. Dopo aver visto infatti Chiamami col tuo nome (Call Me by Your Name), film del 2017 diretto da regista italiano ormai americano per adozione, la sensazione che si prova è simile a quella di chi, dopo aver acquistato un gioiello presso una oreficeria referenziata, si accorge in seguito di aver comprato una misera patacca, magari ben fatta e pure luccicante come oro zecchino, ma pur sempre una patacca. Una sensazione mista di rabbia per l'imbroglio subito e di ammirazione per l'abilità del falsario.

Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 18/01/2019 Qui - Sorprendente, per certi aspetti anche esilarante, questo è Tre Manifesti a Ebbing, Missouri (Three Billboards Outside Ebbing, Missouri), film del 2017 scritto e diretto da Martin McDonagh, con protagonista assoluta un'eccezionale Frances McDormand, insieme a Woody Harrelson, Sam Rockwell e Peter Dinklage, tra i tanti (di questi la ninfetta Samara Weaving, John Hawkes e il sempre più talentuoso Caleb Landry Jones). Un film, vincitore a sorpresa di ben 4 Golden Globes (tra cui miglior film drammatico) che hanno preceduto nomination e premi agli Oscar 2018 (7 nomination, poi trasformatesi in due statuette), originale e inconsueto a cominciare dal titolo. Un titolo lungo, particolarissimo, apparentemente non accattivante ma tanto da diventarlo (ovviamente anche per la storia e la qualità del film, perché altrimenti...). Con quella cittadina, inventata, citata esplicitamente accanto al nome di uno stato famoso per non aver superato il problema del razzismo. Che non è il cuore ma è una delle chiavi del film, ricco e debordante di temi e di toni (è un dramma, ma ci sono numerosi momenti tragicomici da commedia nera che possono risultare esilaranti o fuori luogo). Un film tosto, duro, difficile da commentare, con una impostazione in fondo teatrale anche se non riconoscibile immediatamente, un film insomma imperdibile se si riesce soprattutto a sopportare un certo tasso di violenza o asprezze di linguaggio (dipende, come sempre, dalla propria sensibilità), ma andiamo con ordine. La pellicola racconta di una madre che vuole giustizia dopo la morte della figlia. Per protestare in modo clamoroso contro l'inerzia della polizia (un piccolo ufficio con poche persone) la protagonista si inventa un bizzarro quanto originale ed efficace (almeno per le conseguenze che produrrà) modo per richiamare l'attenzione degli investigatori locali che a suo giudizio non si starebbero occupando del caso. Ella infatti (una donna dal carattere aggressivo e scorbutico) sulla strada che porta in città, noleggia tre grandi cartelloni pubblicitari sui quali piazza una serie di messaggi polemici e controversi, rivolti al capo della polizia William Willoughby (Woody Harrelson). Quest'ultimo (amato e rispettato, e in effetti è uomo onesto e buono) prova a far ragionare la donna, ma quando viene coinvolto anche il violento e nevrotico vice Dixon (Sam Rockwell), la campagna personale di Mildred (che non ha neanche l'appoggio della comunità) si trasforma in una battaglia senza esclusione di colpi, calci, schiaffi, morsi, insulti e frasi scurrili.

La ragazza nella nebbia (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 17/01/2019 Qui - Già dai suoi presupposti, La ragazza nella nebbia, film del 2017 scritto e diretto da Donato Carrisi, presenta una situazione piuttosto anomala: la figura del regista/sceneggiatore coincide pienamente con quella dello scrittore del romanzo, e non capita spesso. In tal senso, era notevole la curiosità nei confronti di un prodotto (basato appunto sull'omonimo romanzo dello stesso Carrisi) in cui immaginario editoriale e filmico dello stesso autore trovano un loro punto di congiunzione. Purtroppo però, il risultato sullo schermo è a dir poco deludente e velleitario. Ed è strano, perché anche se non ho letto il libro, immagino che l'adattamento non abbia stravolto le carte su narrazione e personaggi, o almeno penso che non ci sia stato un tradimento del regista nei confronti dello scrittore, e allora come si spiega tutta questa pochezza? Forse il libro che ha venduto milioni di copie è stato sopravvalutato? Non saprei, sta di certo che il film, pur non essendo un film pessimo (fortunatamente), è personalmente (forse anche oggettivamente) un film mediocre. Un film che si muove su due binari con il regista (che pur avendo a disposizione le Dolomiti fa pochi esterni) che non sceglie su quale andare: il primo è un thriller, il secondo un film di costume riguardante la funzione dei media che creano a loro piacimento colpevoli o innocenti. Come thriller appare confuso, il regista sembra aggrovigliare una vicenda da cui non sa come sbrogliarsi. Nella trama appare all'inizio una misteriosa confraternita che sarebbe una setta che domina il paese e che poi con il dipanarsi della vicenda misteriosamente sparisce. Come thriller non mi pare avvincente e la conclusione finale non così sorprendente. Ma anche come film di costume non appare riuscito: i rappresentanti dei media sono delle "macchiette" come le due giornaliste una d'assalto e l'altra una vecchia saggia ridotta in carrozzella  e comunque il tema dello "sciacallaggio" mediatico non è approfondito con sufficiente credibilità.