Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 31/01/2019 Qui - Quella raccontata dal regista islandese Dagur Kàri è una storia di solitudine ed emarginazione, la storia di un uomo che vorrebbe uscire dal proprio guscio ma che invece si lascia trascinare dagli eventi. Virgin Mountain (Fúsi), film islandese del 2015 infatti, racconta la storia di un uomo timido e taciturno di 43 anni che vive con sua madre e lavora in aeroporto, dove è vittima di bullismo da parte dei suoi colleghi. Egli ama ascoltare la musica hard rock e passa il suo tempo libero a rievocare battaglie con i soldatini (il nostro protagonista difatti ha uno speciale interesse per la Seconda Guerra mondiale e addirittura possiede un modello in miniatura della battaglia di El Alamein con cui, occasionalmente, gioca con il suo migliore amico Mordur), ma il giorno del suo compleanno, egli riceve in dono dal compagno della madre l'iscrizione a un corso di Country Dance, e sarà qui che conoscerà Sjöfn, una donna triste e sola che aiuterà ad essere felice, e sarà da quel momento che qualcosa nella sua vita definitivamente (anche senza volerlo veramente) cambierà. Virgin Mountain è quindi una favola intima, ma anche una pellicola cruda e delicata allo stesso tempo, ispirata da un personaggio imponente e fragile che incontrerà una persona a lui affine, una persona che come lui ha paura del mondo esterno, così poco indulgente e frivolo. Una pellicola che per questo offre due bellissimi ritratti e lancia un bel messaggio di speranza con la sua narrazione lontana da ogni cliché, che scava con lucidità l'umanità di ogni giorno, un lavoro commovente, che fotografa come la felicità viva attraverso le piccole cose. Una pellicola impreziosita da un umorismo sottile, leggero che accompagna dolcemente il dramma che abita il film e il protagonista, costretto a dover vivere una vita così poco attinente alla sua persona. Una pellicola insomma davvero bella ed interessante, che evita ogni sorta di sentimentalismo e riesce a sorprendere anche con un finale dolce amaro.
Fusi infatti (che non abbraccia il proprio cambiamento ma tenta di crescere, di affrontare la propria alterità senza dimenticare il candore che gli appartiene, quel centrino di pizzo bianco così poco comune agli adulti ma affine solo ad un bambino), una volta varcata la soglia della conquista sociale, finirà per provare cocenti amarezze che in qualche modo danno ragione al suo originale ed istintivo annullarsi tra le mura della propria intimità familiare. Questa è la vera forza e sorpresa del film: ammettere ed ufficializzare che le amarezze e le delusioni sono sempre in agguato, in grado forse di rafforzarci e di farci adattare spronandoci a venire allo scoperto, ma lasciandoci quasi sempre disillusi e feriti, anche se in qualche modo più padroni del nostro avvenire, e più cittadini del mondo esteriore fino a poco prima rifuggito o ignorato. Perché certo, l'impianto sgraziato e poetico appare fin troppo ricalcato su luoghi ricorrenti e ambientazioni standardizzate del cinema scandinavo, ma la scarsa originalità e il ricorso a un registro surreale non certo inedito e spiazzante non impediscono al film di Kàri di colpire al cuore con la forza di un one shot secco e ruvido attraverso traiettorie non intuibili e poco rassicuranti. E l'Islanda, più che un silente e distante involucro geografico, è quasi un personaggio aggiunto, oltre che uno stato d'animo in questa pellicola toccante e sincera al punto giusto. Una pellicola in cui ottimi e necessari sono i due protagonisti, Gunnar Jonsson (la mancanza di autonomia e la paura dell'ignoto del protagonista sono veicolate da lui infatti in modo brillante ed efficace, grazie soprattutto alla sua voce stanca e il suo aspetto esteriore, che trasmette sia il suo tormento interiore che la purezza del cuore) e la imperscrutabile Ilmur Kristjandottir, perfetti a rendere le sfaccettature di personalità rispettivamente sole per volontà o forza maggiore, impegnate ognuno a suo modo a guarire da una malattia solo apparentemente fittizia e psicologica che li rende dei diversi davanti alla società classista e crudele, degli emarginati, degli ipotetici "mostri" da tenere alla lontana da bambini o altri esseri indifesi ed innocenti. Una pellicola forse troppo lenta, ma che riesce, come capita spesso nel cinema del nord Europa, a raccontare nonostante questa insita flemma narrativa storie drammatiche in maniera lineare, semplice e senza eccessi, mantenendo quel basso profilo che lo rende interessante e curioso. Virgin Mountain è appunto un esponente di questo genere: interessante, semplice ma particolareggiato, meritevole della visione. Voto: 6,5