lunedì 10 giugno 2019

Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 18/01/2019 Qui - Sorprendente, per certi aspetti anche esilarante, questo è Tre Manifesti a Ebbing, Missouri (Three Billboards Outside Ebbing, Missouri), film del 2017 scritto e diretto da Martin McDonagh, con protagonista assoluta un'eccezionale Frances McDormand, insieme a Woody Harrelson, Sam Rockwell e Peter Dinklage, tra i tanti (di questi la ninfetta Samara Weaving, John Hawkes e il sempre più talentuoso Caleb Landry Jones). Un film, vincitore a sorpresa di ben 4 Golden Globes (tra cui miglior film drammatico) che hanno preceduto nomination e premi agli Oscar 2018 (7 nomination, poi trasformatesi in due statuette), originale e inconsueto a cominciare dal titolo. Un titolo lungo, particolarissimo, apparentemente non accattivante ma tanto da diventarlo (ovviamente anche per la storia e la qualità del film, perché altrimenti...). Con quella cittadina, inventata, citata esplicitamente accanto al nome di uno stato famoso per non aver superato il problema del razzismo. Che non è il cuore ma è una delle chiavi del film, ricco e debordante di temi e di toni (è un dramma, ma ci sono numerosi momenti tragicomici da commedia nera che possono risultare esilaranti o fuori luogo). Un film tosto, duro, difficile da commentare, con una impostazione in fondo teatrale anche se non riconoscibile immediatamente, un film insomma imperdibile se si riesce soprattutto a sopportare un certo tasso di violenza o asprezze di linguaggio (dipende, come sempre, dalla propria sensibilità), ma andiamo con ordine. La pellicola racconta di una madre che vuole giustizia dopo la morte della figlia. Per protestare in modo clamoroso contro l'inerzia della polizia (un piccolo ufficio con poche persone) la protagonista si inventa un bizzarro quanto originale ed efficace (almeno per le conseguenze che produrrà) modo per richiamare l'attenzione degli investigatori locali che a suo giudizio non si starebbero occupando del caso. Ella infatti (una donna dal carattere aggressivo e scorbutico) sulla strada che porta in città, noleggia tre grandi cartelloni pubblicitari sui quali piazza una serie di messaggi polemici e controversi, rivolti al capo della polizia William Willoughby (Woody Harrelson). Quest'ultimo (amato e rispettato, e in effetti è uomo onesto e buono) prova a far ragionare la donna, ma quando viene coinvolto anche il violento e nevrotico vice Dixon (Sam Rockwell), la campagna personale di Mildred (che non ha neanche l'appoggio della comunità) si trasforma in una battaglia senza esclusione di colpi, calci, schiaffi, morsi, insulti e frasi scurrili.
Questa la trama di Tre Manifesti a Ebbing, Missouri, un film di grande rilevanza, che mette a fuoco temi di portata universale in modo egregio. Il regista Martin McDonagh dosa sapientemente umorismo, ironia (che talvolta si trasforma in marcato sarcasmo) e dramma, dando vita a un film dai toni cupi, dove la speranza è sempre pronta a farsi da parte. Primi piani intensi, inquadrature volte a riprendere ogni singola sfumatura, sia dei personaggi, sia delle vicende che li vedono protagonisti. Il punto di forza della pellicola sta nella meravigliosa sceneggiatura, nulla di banale o inutile, battute intelligenti e ricche di ironia, un sense of humor da far venire i brividi al solo sentirlo. Non si tratta unicamente della forza del linguaggio adottato, spesso scurrile ma efficace, no, è proprio il connubio perfetto tra espressività degli interpreti e dialoghi accattivanti a rendere il film un vero gioiello del cinema d'oggi. In tal senso se non lo si è ancora visto impossibile è dire di più su un film che ha anche tratti di giallo, sebbene la ricerca del colpevole rimanga sempre laterale rispetto al cuore di Tre Manifesti a Ebbing, Missouri. Perché Mildred (incarnata alla perfezione, con una durezza arcigna che a tratti commuove, da una fenomenale Frances McDormand: dopo il Golden Globe è arrivato, meritatamente, il secondo Oscar a vent'anni da Fargo) è alla ricerca di giustizia e di verità, e non vuole arrendersi in una guerra in cui lei però non è affatto rappresentata come un'eroina integerrima: presa dal suo (comprensibile) furore, non si trattiene di fronte a nulla, e quando un suo "passo falso" rischia di metterla nei guai non è certo molto gentile con l'uomo, innamorato di lei, che la copre. Come, soprattutto, non lo è con uno sceriffo (un Woody Harrelson in una delle sue prove migliori) che vuole andarsene dalla vita senza pesi sulla coscienza. Ma il pregio maggiore del film, che a tratti davvero può risultare respingente per alcune scene di violenza o per il sarcasmo quasi cinico (ma in realtà disperato) dei personaggi, è di rappresentare uomini e donne non unidimensionali, che vivono una situazione complessa e contraddittoria al meglio delle loro possibilità. Tanto che perfino il violento Dixon (bravissimo anche Sam Rockwell: un Golden Globe e un Oscar anche per lui, anche se l'avrebbe meritato precedentemente), brutale fino ad ammazzare chi gli capita a tiro ma anche oppresso da una madre più disumana di lui, si rivelerà non diverso (rimane quello che è) ma anche altro, "di più" di quello che si poteva pensare.
Martin McDonagh, regista britannico di origini irlandesi con una forte carriera teatrale parallela (e già autore al cinema degli interessanti ma irrisolti In Bruges e Sette psicopatici che giocavano anch'essi, con meno spessore, su un mix di violenza e umorismo nero), trova paradossalmente in un contesto molto da America profonda e conservatrice il contesto ideale per dare un peso a personaggi molto ben "scritti" (la sceneggiatura è stata premiata sia alla Mostra di Venezia che ai Golden Globes) e reali, veri, profondamente umani nelle loro grandezze e bassezze (anche se alcuni personaggi minori non convincono del tutto: l'ex marito della donna, per esempio). Non si fa in tempo a giudicare Mildred, Dixon o Willoughby che la storia ce ne fa vedere un lato diverso, più profondo. E poi subito dopo spiazzarci con una caduta, umanissima (e quanto fa male l'uscita di scena di uno dei personaggi). A scene tenerissime o perfino poetiche fanno seguito altre di estrema violenza o che possono suscitare ribellione. Oppure, consci che a noi essere umani non ci è estraneo nulla di ciò che alberga nel cuore di altri nostri consimili, ci possiamo ritrarre commossi e rispettosi delle altrui sofferenze. Come la sofferenza intima del giovane figlio interpretato da Lucas Hedges. Tra l'altro, a proposito di Hedges, desta curiosità questa sua sovraesposizione, oltretutto in film davvero di spessore, come il premiato Manchester by the sea o un altro che dovrei presto vedere, un film che negli States ha riscosso successo di critica e pubblico, ovvero Lady Bird. La maniera di stare in scena di Hedges, rigida e un po' mono-espressiva mi fa in effetti domandare come mai venga scritturato di continuo, seppur non sempre in ruoli chiave. Ad incidere sulla buona riuscita di Tre Manifesti a Ebbing, Missouri è anche una colonna sonora graffiante, che non mette solo in luce la drammaticità di alcuni momenti, ma è anche in grado di dare emozioni al pubblico. Nulla, infatti, è inserito a caso nel film. Ogni aspetto di esso è studiato con cura, a partire da una regia minuziosa, pronta a cogliere dettagli in primo piano in modo incisivo, senza però tralasciare il contorno, il contesto di ogni singola scena. Eppure qualcosa che non va c'è sempre. In questo caso, infatti, si notano dei momenti inverosimili, lontani anni luce da quello che si può vedere nella nostra quotidianità. Ma l'interpretazione magistrale di Frances McDormand, dura ma comprensiva quando serve, contribuisce non poco ad alzare la qualità del film, già alta anche solo per la sceneggiatura.
Una sceneggiatura che come detto, pur premiata e apprezzabile, altresì ricca anche nell'accompagnamento musicale (che alterna toni da western ad altri da thriller) a un certo punto sembrerebbe perdersi in troppi personaggi di contorno, e soprattutto svolte e sottofinali. Perché anche se quello giusto, quello definitivo, ha il pregio di lasciare uno spazio, uno spiraglio ai superstiti di una guerra sfibrante e dolorosa, che forse troveranno più umano deporre le armi che cercare ancora di farsi da soli una giustizia ingiusta, a proprio uso, a non convincermi appieno è proprio il finale che nonostante sia aperto a numerose interpretazioni, l'ho trovato forse troppo buonista. Mi sarebbe infatti piaciuto visto il ritmo e il tono del film nella prima parte un finale più crudo (o anche più rivelatrice). È un vero peccato poi che sia stato affidato un ruolo minore a Woody Harrelson, lo sceriffo di Ebbing, il quale (nonostante fosse perfettamente in parte) avrebbe potuto dimostrare molto di più. Una cosa è certa: l'attore non delude nemmeno questa volta, ma anzi il suo personaggio ha emozionato molto più di quanto si potesse pensare. È bene menzionare però la presenza di scene piuttosto forti a livello emotivo e visivo, che potrebbero destabilizzare lo spettatore. Nonostante ciò, è bello lasciarsi travolgere dall'intensità delle scene, spesso imprevedibili. Tra i temi trattati, da ricordare è senza dubbio quello del senso di colpa. Banale, sì, ma espresso molto bene dalla protagonista. Ma il più importante è capire quando sarebbe bene fermarsi, perché in fondo la vendetta non serve. Lo capirà o continuerà la sua disperata lotta alla ricerca di un po' di giustizia? Ecco, per questo Tre Manifesti a Ebbing, Missouri rimane senza dubbio un film che ha molto da raccontare e da dire, che riesce a essere incisivo e che nonostante qualche piccola pecca ha davvero lo stile giusto per essere un film che non ci si dimentica e che colpisce. Probabilmente non il capolavoro di cui si parla (ancora e ancora), ma senz'altro un film perfetto, una lezione di ironia e crudezza, di cattiva e profondità: tutto insieme e tutto benissimo, con un sorprendente dosaggio degli ingredienti. Un film originale nella costruzione e professionalissimo nella messinscena che si fa altamente raccomandare come una pellicola da non perdere per nessun motivo. Voto: 8