martedì 25 giugno 2019

Chiamami col tuo nome (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 21/01/2019 Qui - Non è facile dare un giudizio obiettivo su quest'ultima opera di Luca Guadagnino. Sicuramente bella ed efficace la rappresentazione dei luoghi nei quali si svolge la vicenda, con un'ottima fotografia e con una raffinata capacità evocativa dei luoghi rappresentati, purtroppo però la sceneggiatura non riesce a scandagliare a fondo nel carattere dei personaggi, restando solo alla superficie delle loro problematiche esistenziali e i dialoghi risultano di una elegantemente sontuosa banalità e qualche citazione colta sparsa qua e là non riesce mai a dare loro spessore. La ricostruzione degli ambienti poi, seppur convincente, appare comunque imprecisa e superficiale. Attenzione però, non è un brutto film, è soltanto anonimo, scialbo, uno sbadiglio dietro l'altro. Non mi ha emozionato per niente (e non c'entra niente l'orientamento sessuale). Il problema personalmente è nella piattezza delle recitazioni (a parte forse il giovane protagonista) e (come già accennato pocanzi) della sceneggiatura. Ancora non riesco a capire come abbia fatto a ricevere persino un Oscar, anzi, forse si, perché l'avevo intuito ed alla fine è stato proprio così, la furba carta vincente è stata mettere una "storia omosessuale" aggiungere celebri Hit degli anni '80, ambientarlo in quel decennio cavalcando l'onda della nostalgia che ormai è di moda tempo e frullare tutto. Mi è parsa quindi solo una furbissima operazione. Dopo aver visto infatti Chiamami col tuo nome (Call Me by Your Name), film del 2017 diretto da regista italiano ormai americano per adozione, la sensazione che si prova è simile a quella di chi, dopo aver acquistato un gioiello presso una oreficeria referenziata, si accorge in seguito di aver comprato una misera patacca, magari ben fatta e pure luccicante come oro zecchino, ma pur sempre una patacca. Una sensazione mista di rabbia per l'imbroglio subito e di ammirazione per l'abilità del falsario.
Perché certo, non che ci sia nulla di male in tutto quello che ha qui fatto (per l'appunto creare un prodotto ad hoc per il pubblico di intellettuali a stelle e strisce: ricco, illuminato, politically correct, etc.etc.), ovvio, anzi, che un italiano emerga in un mercato così difficile come quello americano è cosa rara ed encomiabile, detto ciò però, Chiamami con il tuo nome, premiatissimo film che ha guadagnato quattro prestigiose nomination agli Oscar 2018 (miglior film, sceneggiatura non originale, attore protagonista e canzone originale) ed è stato applaudito a vari festival (uno su tutti Berlino), tratto dal romanzo omonimo del 2008 di André Aciman, un romanzo di culto della letteratura omosessuale, il cui adattamento era inizialmente affidato al regista e sceneggiatore James Ivory (Camera con vista, Quel che resta del giorno) e poi al regista italiano, sembra più un sofisticato esercizio di stile che una travolgente e appassionata storia d'amore. Non è un caso infatti che Guadagnino abbia sempre dato prova di un grande talento formale, anzi, in questo film dimostra addirittura un'eleganza nello stile che ricorda i grandi maestri del nostro cinema. L'organizzazione geometrico-architettonica dello spazio ricorda una certa finezza e invece ricorda qualcun altro l'appassionata sensualità dei luoghi, degli oggetti, della natura e dei corpi. Immersi in una delicata fotografia e musicalità, ogni oggetto, luogo, persona, ogni cosa diventa desiderabile: le statue greche (richiamate anche dai titoli di testa), la natura, i frutti, i corpi dei ragazzi e delle ragazze, l'acqua, tutto diventa oggetto del desiderio. In quest'ottica il film di Guadagnino ha la sua forza, descrive perfettamente il desiderio, la tensione (innanzitutto sessuale), la scoperta della sessualità, anche la crescita, ma rischia di essere un po' patinato e superficiale nel descrivere il rapporto tra i due amanti.
E difatti nel film, film che ambientato nel 1983 ci racconta del diciassettenne Elio, un ragazzo più colto e più intelligente della maggior parte dei suoi coetanei, che trascorre l'estate nella villa nella campagna di Crema assieme ai genitori (il padre è un professore universitario e come ogni anno ospita in casa uno studente a lavorare alla tesi di post dottorato, il ventiquattrenne Oliver) che passando le sue giornate tra la musica, i libri, i bagni al fiume, le serate con gli amici e il nascente affetto con l'amica Marzia, inizia tuttavia a sviluppare con Oliver un rapporto amoroso, il regista non riesce a raccontarlo fino in fondo, a raccontare la profondità dei due personaggi e il loro rapporto, scivolando in cadute di stile, banalità e lungaggini che appesantiscono il film e lo rendono a tratti decisamente noioso. Dopo circa un'ora dall'inizio del film smette di succedere qualcosa, e inizia solo un susseguirsi di amplessi sessuali (sia omosessuali che eterosessuali), sempre mostrati in modo pudico ma sempre più elaborati fino a scadere nel ridicolo involontario in più di un momento (Elio che si masturba con una pesca ricorda American Pie). Ridicoli sono anche alcuni passaggi di descrizione di un'Italia vista con gli occhi di un turista americano, stereotipi a non finire in una campagna cremasca da Mulino Bianco. Difatti, se la ricostruzione dell'Italia degli anni '80 è, almeno formalmente, perfetta (location, abiti, automobili, canzoni alla radio, ogni cosa sta dove ci ricordiamo che stesse), non appena però si prova, molto maldestramente, a contestualizzare il tutto secondo altri canoni (la politica, ad esempio), lo script naufraga in una oceano di banalità. L'excursus "craxiano", ad esempio, già di difficile decodifica per il pubblico nostrano, visto che son passati 30 anni, agli occhi di uno straniero non aggiunge nulla alla narrazione e resta lì, sospeso, alla ricerca di una motivazione plausibile per la sua presenza. Anche i rapporti intercorrenti tra tutti i personaggi, esclusi i due protagonisti, potrebbero essere eliminati di colpo.
Eliminati di colpo, senza che la progressione degli eventi ne risenta in alcun modo: i genitori di lui, le ragazze del gruppo, gli amici, i conoscenti, tutti appaiono satelliti piccoli e invisibili, nascosti dall'ombra dei due pianeti attorno al quale ruota la storia. Anche tra i protagonisti però, va fatto un distinguo: mentre Timothée Chalamet è bravissimo a conferire al suo Elio Perlman mille sfaccettature e a rendere visibile e tangibile il flusso di sentimenti contrastanti che tormentano il personaggio, l'altrove valido Armie Hammer si limita a fare atto di presenza (e che presenza, verrebbe da dire) ma risulta fin troppo algido e distratto. Nel finale Guadagnino recupera un po' le file e chiude il percorso del suo protagonista Elio in maniera abbastanza significativa: il ritratto comunque di una bella famiglia, della famiglia come un luogo di gente interessata al desiderio del figlio, una famiglia tollerante (anche ai limiti del credibile). Poi l'epilogo invernale ha una sua forza e una sua leggerezza poetica, fino al primo piano di chiusura sulle note della canzone Visions of Gideon. È un film discontinuo quindi, che alterna passaggi forti e coinvolgenti ad altri sciatti e ridicoli, in una confezione sempre raffinata ma spesso estetizzante e vuota, che nella sua durata può annoiare lo spettatore. Chiamami col tuo nome manca completamente il pathos di pellicole simili e recenti come Carol e Moonlight (che mi è piaciuto decisamente di più). Può darsi che il lavoro di riscrittura operato sulla sceneggiatura di James Ivory abbia depotenziato gli aspetti drammatici della vicenda (e tuttavia ha vinto ugualmente l'Oscar), ma nel raccontare la vicenda di Oliver e Elio c'è troppa attenzione alla forma, impeccabile ma asettica, e poco al sentimento vero e proprio, anche perché Lui (Lui è un americano, bello, alto, biondo, colto e intelligente che "piace a tutti", l'altro è un diciassettenne sensibile e comprensibilmente confuso, proveniente da una famiglia radical chic, intellettuale, liberal, cosmopolitaarriva, si incontrano, si innamorano, poi lui se ne va.
Non c'è tanto di più nell'ultimo film di Luca Guadagnino, nel terzo tassello di quella che Guadagnino stesso ha definito "la trilogia del desiderio", dopo Io sono l'amore e A bigger splash (quest'ultimo gran delusione con risultati quasi simili). Un tassello che è comunque piaciuto a molti, e non gli si può dir niente (altrimenti s'incazzano), ma personalmente preferisco ben altro, qualcosa di più sincero, di protagonisti fittizi di un cinema vero, duro e puro, con bei dialoghi, bei personaggi e script solidi come il granito, invece di questa effimera nuvola di puro edonismo. Perché certo, questa insolita storia d'amore e d'amicizia è sicuramente un'opera interessante, dopotutto l'amore verso chiunque, anche se dello stesso sesso, è sempre amore, ovviamente, anche se coniugato in modo diverso, ma nemmeno poi tanto, in fondo è un concetto universale ed eterno, che può unire chiunque e non risponde a regole, si può praticare in qualsiasi modo, purché si esprima con il rispetto, con l'affetto, con la premura, che caratterizza il più nobile e appagante dei sentimenti, l'amore appunto, ma poco convincente è questo film. Partendo da trama e personaggi, a cominciare da Armie Hammer, che (americano doc) dopo due giorni dal suo arrivo gioca perfino a carte con i paesani del luogo magari parlando in dialetto lumbard, decisamente poco credibile. I genitori del ragazzo (tra questi il padre interpretato dal bravo Michael Stuhlbarg) sembrano vivere in una sorta di limbo da lieta permanente vacanza, nessuna attività lavorativa li vede impegnati, nessuna tensione emotiva nel loro rapporto, nessuna riflessione tra loro in merito alla vicenda del figlio. Sembrano messi lì a fare da sfondo coreografico alla vicenda. Inoltre va evidenziata la incomprensibile ripetuta ostentazione di appartenenza ebraica dei protagonisti. Quale significato hanno i continui simboli ebraici e l'orgoglio di appartenenza ben dichiarato seppure discretamente contenuto? Infine i riferimenti alla situazione politica italiana di quegli anni, poco pertinente e forse di alcun interesse per lo spettatore. La sceneggiatura è troppo scontata, senza pathos, senza intreccio, quasi noiosa (la delicatezza spacciata per insensibilità nei confronti delle ragazze del luogo). E quindi anche forse troppi sono tutti i premi che il film ha racimolato, perché a fronte di buone interpretazioni, ci sono tuttavia troppi tempi morti e il ritmo, soprattutto all'inizio, è decisamente lento. Perciò film non brutto ma decisamente rimandato. Voto: 5