Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 01/02/2019 Qui - E' uno di quei registi verso cui è difficile provare disaffezione, una volta che hai iniziato ad amarlo, e quel regista è Guillermo del Toro, lui che, nel corso della sua carriera raramente ha perso qualche colpo (anche come produttore), e pur quando ha dato vita a pellicole che non hanno riscontrato un favore totalizzante, come nel caso del suo film più recente, Crimson Peak, si è sempre trattato di ottime produzioni che non hanno minimamente scalfito l'affetto e l'adorazione dei fan. Questo perché il regista messicano è uno che crede fortemente in quello che realizza, e ciò rende autoriali tutti i suoi lavori, tratteggiando una linea comune che è in grado di unire opere anche molto diverse tra loro. L'ultimo incredibile suo lavoro è La forma dell'acqua (The Shape of Water), film del 2017 ovviamente da lui diretto, un racconto fantastico ambientato nell'America degli anni '60. Siamo nel 1962, e l'America è in piena Guerra Fredda con l'Unione Sovietica. In un laboratorio scientifico di Baltimora arriva una misteriosa creatura, catturata dal temibile colonnello Strickland (Michael Shannon). Elisa Esposito (Sally Hawkins) è una donna delle pulizie che lavora all'interno della struttura e casualmente nota questo particolare essere marino, dalle sembianze quasi umanoidi, che lo rendono un perfetto mix tra un uomo e un pesce. La donna purtroppo è muta, ed incuriosita da questa creatura, per la quale prova anche compassione per via del fatto che viene tenuta in cattività, inizia ad entrare di nascosto nella sala in cui risiede questo strano essere, riuscendo incredibilmente a comunicare con lui. Di un racconto quindi di fantasia più sfrenata ci parla il film, eppure, anche se questo film per questo non riflette assolutamente una storia possibile nel mondo reale (anzi, questa storia è delicata e toccante da emozionare nel profondo lo spettatore), tutto quello che troviamo nella pellicola (e con tutto intendo ogni singolo dettaglio) è semplicemente perfetto. Una pellicola che vale la pena vedere (e rivedere) per tanti motivi, ma che tenta comunque di nascondere anche qualche difetto (essi ci sono e fanno perdere sicuramente mezzo voto). Innanzi tutto, è bene dire che l'idea su cui si fonda il film non è affatto originale, fermo restando che il regista riesce comunque ad intrattenere lo spettatore con una regia particolarmente incisiva. Si può notare infatti un palese richiamo al film d'animazione Disney "La Bella e la Bestia" (ma anche a qualcun altro prodotto simile), anche se il contesto è molto differente. Lei, una donna di bell'aspetto, lui, un essere che di umano ha poco e niente. Eppure, potrebbe sorprendere quanto la creatura possa risultare più umana di quanto si possa pensare.
La pellicola difatti, caratterizzata da un ritmo narrativo abbastanza lento ma sostenuto dall'inizio alla fine, insegna che l'amore è universale e può essere provato in diversi modi e tra esseri di genere differente. Non si parla però dell'amore provato nei confronti degli animali perché in questo caso il sentimento assume dei risvolti inaspettati. Si tratta di un sentimento che nasce nel momento in cui due esseri simili si incontrano e si rendono conto che i loro difetti sono niente in confronto alle emozioni che li legano l'uno all'altra. Simili perché soli e incompleti, ma soprattutto in perfetta sintonia. Una comunicazione che non lascia spazio alla parola. Eppure entrambi riescono a capirsi, senza bisogno di comunicare a voce, ma adottando un approccio più intimo, fatto di sguardi, piccoli gesti e forte espressività. Non manca inoltre un tocco di fantasy, un fantasy che non annoia (e non potrebbe annoiare) il pubblico indisposto verso questo genere cinematografico, perché al centro di tutto c'è una storia d'amore intensa, capace di travolgere lo spettatore, tanto da arrivare a colpire nel punto più profondo della sua anima. Una sceneggiatura diretta, chiara e affascinante in termini di linguaggio caratterizza The Shape of Water, il cui punto di forza sono i lunghi silenzi tra Elisa e la creatura squamosa senza nome. Silenzi sotto i quali, tra l'altro, non vi è alcuna colonna sonora. Perché il regista è consapevole della loro immensa potenza individuale (anche se la musica è presente, soprattutto nei momenti più drammatici, e che musica poi, bellissima). Da citare è inoltre l'ironia di cui fa largo uso il personaggio interpretato da Octavia Spencer, battute che suscitano non poche risate nello spettatore e che aiutano a mantenere l'attenzione anche quando la vicenda si fa via via sempre più drammatica. Una vicenda che è quindi una favola adulta sul razzismo, sulla solitudine e sul sentirsi diversi dagli altri: è un film divertente, coinvolgente, con ottimi momenti di tensione, squisitamente romantico, velatamente erotico (troppo velatamente, forse, c'è molta concretezza ma spesso e volentieri accade fuori campo) e visivamente appagante. E' anche (e soprattutto) un film di mostri, dove i mostri (come spesso accade con Del Toro) non hanno né squame né branchie, ma una casa, una famiglia, un completo giacca e cravatta e un lavoro ben pagato.
Ancora una volta infatti, il regista usa il mostro per raccontare e inscenare sentimenti forti, interrogandosi su chi (nella quotidianità) sia il vero "orco". Quella del film è dunque una critica verso una società malsana, che gode nel sottomettere il diverso, esattamente come Strickland prova piacere nel picchiare una creatura indifesa o intimidire una donna muta, nonostante egli stesso sia una pedina sacrificabile dell'esercito americano. E così, tra forme divine, oniriche e sostanze terrene e mortali, inframezzate dal corposo elemento del fantastico, prende vita questa fiaba in cui c'è tanta acqua da inondare tutto, ma in cui i personaggi respirano senza fatica alcuna. Una fiaba che prende la sua mirabile forma anche grazie alla bella fotografia, che dalle prime sequenze ci catapulta in una realtà terrena che al tempo stesso riesce a comunicare la forte componente fantastica dell'opera, in un modo che solo la supervisione di del Toro poteva garantire. Qui la comunicazione diventa l'elemento fondante attraverso cui si snodano poi i molteplici aspetti che il film va a toccare, e non si può non sottolineare quanto sia fiabesco e romantico l'avvicinamento e la conseguente evoluzione del rapporto tra Elisa e la creatura, totalmente differenti all'occhio umano ma incredibilmente simili per via dell'impossibilità, per entrambi, di parlare. La creatura emette dei suoni, Elisa nemmeno quelli, per colpa di un trauma subito da piccola e del quale porta ancora i segni sul collo. La necessità di essere capiti, ascoltati, trovare qualcuno simile a noi è un concetto senza dubbio non nuovo nel mondo del cinema, ma la maniera in cui sceglie di trattarlo il regista lo fa sembrare di una originalità disarmante. Ma ciò non sarebbe successo se non impeccabili fossero state le interpretazioni dei protagonisti, Sally Hawkins e il "mostro" (il sempre straordinario Doug Jones), ma anche Richard Jenkins e (la sempre brillante) Octavia Spencer, tutti credibili e mai fuori luogo. Ma a colpire totalmente nel segno è la Hawkins, sensuale, sola, ma con un animo puro, invidiabile nel film, un carattere che esprime con particolare chiarezza sin dall'inizio, non solo per la sua intensa espressività, ma anche per il suo aspetto innocente e sensibile. Sally Hakwins (giustamente candidata all'Oscar) ci fa letteralmente innamorare di lei, del suo corpo dolce, sinuoso, leggiadro, che si muove sulla scena a passi di danza, delle sue debolezze e del modo in cui le affronta, generando nello spettatore tenerezza e passione, sentimenti che per altro uniscono Elisa alla creatura, che al di là della sua indole selvaggia si dimostra (come detto) più umana di molti dei personaggi del racconto di Del Toro.
E tuttavia, oltre a Sally Hawkins (attrice che dopo esperienze solo discrete, in Paddington per esempio, finalmente ha potuto esprimere tutto il suo talento), il personaggio più spiazzante, e interessante, è lo scienziato russo (interpretato dall'eclettico Michael Stuhlbarg, ultimamente richiestissimo) che segue più le ragioni della scienza che della sua "parte". Mentre Michael Shannon riveste (bene, come sempre) il classico ruolo del cattivo della storia su cui si attirano astio e sarcasmo del narratore. Il ritmo cala leggermente nella seconda parte, ma questo è un elemento concreto e consapevole della sceneggiatura, dacché il film non richiede ulteriori sfumature interpretative: ci sono i buoni, i cattivi e i personaggi di contorno, ci sono l'intrigo, l'amore e la redenzione. L'incredibile sforzo di Del Toro, premiato prima con il Leone d'Oro a Venezia, poi con il Golden Globe ed infine con il Premio Oscar, è stato proprio creare un prodotto accessibile ai più e leggero nei modi narrativi ed espressivi, che però si mantiene sempre suggestivo, avvalendosi anche di una magnifica colonna sonora (Alexandre Desplat sempre straordinario). L'opera di Del Toro è non a caso un racconto bellissimo da vivere tutto d'un fiato, e che sa ricordarci, tramite questa sorta di propria visione de La Bella e la Bestia, dove la comunicazione e l'amore divengono i punti cardine attraverso cui poi si snodano i numerosi aspetti abbracciati da questa bellissima favola, che a volte i mostri non sono quelli che la società ci indica. Però, si c'è un però. Perché forse non del tutto questo film ha meritato il caldo elogio di critica e pubblico all'unanimità, poiché anche se risulta veramente difficile non restare rapiti dalla magia di questo film, al quale non servono budget spropositati per regalarci un apparato visivo spettacolare, per creare una storia d'amore intensa, questa storia assurda e assurdamente semplice (forse troppo) non sempre convince. Certo, la narrazione è realizzata in maniera così raffinata e capillare che finisce per assumere comunque un tocco di originalità e novità, ma alcune scelte, alcune situazioni fanno storcere il naso, soprattutto spiazza la troppa "visibilità" di certe scene. In tal senso chi sostiene che La forma dell'acqua sia un capolavoro, probabilmente esagera, ma si è sicuramente davanti ad un film che ha meritato (più o meno in verità) i premi ricevuti. Si è aggiudicato infatti quattro Premi Oscar, su tredici candidature ricevute, vincendo il premio per il miglior film (diciamo però che Tre Manifesti a Ebbing, Missouri è un pelino meglio), il miglior regista (giustamente e finalmente io direi), la migliore scenografia (non credevo ma è davvero efficiente e suggestiva) e la migliore colonna sonora (quest'ultimo indubbiamente). Il film difatti e nonostante tutto, nella sua semplice complessità lascia quasi ogni spettatore felice a fine visione, vittima di un comparto tecnico di assoluto valore che riesce a dare una forma solida alla liquida potenza dell'amore. Voto: 8--
La pellicola difatti, caratterizzata da un ritmo narrativo abbastanza lento ma sostenuto dall'inizio alla fine, insegna che l'amore è universale e può essere provato in diversi modi e tra esseri di genere differente. Non si parla però dell'amore provato nei confronti degli animali perché in questo caso il sentimento assume dei risvolti inaspettati. Si tratta di un sentimento che nasce nel momento in cui due esseri simili si incontrano e si rendono conto che i loro difetti sono niente in confronto alle emozioni che li legano l'uno all'altra. Simili perché soli e incompleti, ma soprattutto in perfetta sintonia. Una comunicazione che non lascia spazio alla parola. Eppure entrambi riescono a capirsi, senza bisogno di comunicare a voce, ma adottando un approccio più intimo, fatto di sguardi, piccoli gesti e forte espressività. Non manca inoltre un tocco di fantasy, un fantasy che non annoia (e non potrebbe annoiare) il pubblico indisposto verso questo genere cinematografico, perché al centro di tutto c'è una storia d'amore intensa, capace di travolgere lo spettatore, tanto da arrivare a colpire nel punto più profondo della sua anima. Una sceneggiatura diretta, chiara e affascinante in termini di linguaggio caratterizza The Shape of Water, il cui punto di forza sono i lunghi silenzi tra Elisa e la creatura squamosa senza nome. Silenzi sotto i quali, tra l'altro, non vi è alcuna colonna sonora. Perché il regista è consapevole della loro immensa potenza individuale (anche se la musica è presente, soprattutto nei momenti più drammatici, e che musica poi, bellissima). Da citare è inoltre l'ironia di cui fa largo uso il personaggio interpretato da Octavia Spencer, battute che suscitano non poche risate nello spettatore e che aiutano a mantenere l'attenzione anche quando la vicenda si fa via via sempre più drammatica. Una vicenda che è quindi una favola adulta sul razzismo, sulla solitudine e sul sentirsi diversi dagli altri: è un film divertente, coinvolgente, con ottimi momenti di tensione, squisitamente romantico, velatamente erotico (troppo velatamente, forse, c'è molta concretezza ma spesso e volentieri accade fuori campo) e visivamente appagante. E' anche (e soprattutto) un film di mostri, dove i mostri (come spesso accade con Del Toro) non hanno né squame né branchie, ma una casa, una famiglia, un completo giacca e cravatta e un lavoro ben pagato.
Ancora una volta infatti, il regista usa il mostro per raccontare e inscenare sentimenti forti, interrogandosi su chi (nella quotidianità) sia il vero "orco". Quella del film è dunque una critica verso una società malsana, che gode nel sottomettere il diverso, esattamente come Strickland prova piacere nel picchiare una creatura indifesa o intimidire una donna muta, nonostante egli stesso sia una pedina sacrificabile dell'esercito americano. E così, tra forme divine, oniriche e sostanze terrene e mortali, inframezzate dal corposo elemento del fantastico, prende vita questa fiaba in cui c'è tanta acqua da inondare tutto, ma in cui i personaggi respirano senza fatica alcuna. Una fiaba che prende la sua mirabile forma anche grazie alla bella fotografia, che dalle prime sequenze ci catapulta in una realtà terrena che al tempo stesso riesce a comunicare la forte componente fantastica dell'opera, in un modo che solo la supervisione di del Toro poteva garantire. Qui la comunicazione diventa l'elemento fondante attraverso cui si snodano poi i molteplici aspetti che il film va a toccare, e non si può non sottolineare quanto sia fiabesco e romantico l'avvicinamento e la conseguente evoluzione del rapporto tra Elisa e la creatura, totalmente differenti all'occhio umano ma incredibilmente simili per via dell'impossibilità, per entrambi, di parlare. La creatura emette dei suoni, Elisa nemmeno quelli, per colpa di un trauma subito da piccola e del quale porta ancora i segni sul collo. La necessità di essere capiti, ascoltati, trovare qualcuno simile a noi è un concetto senza dubbio non nuovo nel mondo del cinema, ma la maniera in cui sceglie di trattarlo il regista lo fa sembrare di una originalità disarmante. Ma ciò non sarebbe successo se non impeccabili fossero state le interpretazioni dei protagonisti, Sally Hawkins e il "mostro" (il sempre straordinario Doug Jones), ma anche Richard Jenkins e (la sempre brillante) Octavia Spencer, tutti credibili e mai fuori luogo. Ma a colpire totalmente nel segno è la Hawkins, sensuale, sola, ma con un animo puro, invidiabile nel film, un carattere che esprime con particolare chiarezza sin dall'inizio, non solo per la sua intensa espressività, ma anche per il suo aspetto innocente e sensibile. Sally Hakwins (giustamente candidata all'Oscar) ci fa letteralmente innamorare di lei, del suo corpo dolce, sinuoso, leggiadro, che si muove sulla scena a passi di danza, delle sue debolezze e del modo in cui le affronta, generando nello spettatore tenerezza e passione, sentimenti che per altro uniscono Elisa alla creatura, che al di là della sua indole selvaggia si dimostra (come detto) più umana di molti dei personaggi del racconto di Del Toro.
E tuttavia, oltre a Sally Hawkins (attrice che dopo esperienze solo discrete, in Paddington per esempio, finalmente ha potuto esprimere tutto il suo talento), il personaggio più spiazzante, e interessante, è lo scienziato russo (interpretato dall'eclettico Michael Stuhlbarg, ultimamente richiestissimo) che segue più le ragioni della scienza che della sua "parte". Mentre Michael Shannon riveste (bene, come sempre) il classico ruolo del cattivo della storia su cui si attirano astio e sarcasmo del narratore. Il ritmo cala leggermente nella seconda parte, ma questo è un elemento concreto e consapevole della sceneggiatura, dacché il film non richiede ulteriori sfumature interpretative: ci sono i buoni, i cattivi e i personaggi di contorno, ci sono l'intrigo, l'amore e la redenzione. L'incredibile sforzo di Del Toro, premiato prima con il Leone d'Oro a Venezia, poi con il Golden Globe ed infine con il Premio Oscar, è stato proprio creare un prodotto accessibile ai più e leggero nei modi narrativi ed espressivi, che però si mantiene sempre suggestivo, avvalendosi anche di una magnifica colonna sonora (Alexandre Desplat sempre straordinario). L'opera di Del Toro è non a caso un racconto bellissimo da vivere tutto d'un fiato, e che sa ricordarci, tramite questa sorta di propria visione de La Bella e la Bestia, dove la comunicazione e l'amore divengono i punti cardine attraverso cui poi si snodano i numerosi aspetti abbracciati da questa bellissima favola, che a volte i mostri non sono quelli che la società ci indica. Però, si c'è un però. Perché forse non del tutto questo film ha meritato il caldo elogio di critica e pubblico all'unanimità, poiché anche se risulta veramente difficile non restare rapiti dalla magia di questo film, al quale non servono budget spropositati per regalarci un apparato visivo spettacolare, per creare una storia d'amore intensa, questa storia assurda e assurdamente semplice (forse troppo) non sempre convince. Certo, la narrazione è realizzata in maniera così raffinata e capillare che finisce per assumere comunque un tocco di originalità e novità, ma alcune scelte, alcune situazioni fanno storcere il naso, soprattutto spiazza la troppa "visibilità" di certe scene. In tal senso chi sostiene che La forma dell'acqua sia un capolavoro, probabilmente esagera, ma si è sicuramente davanti ad un film che ha meritato (più o meno in verità) i premi ricevuti. Si è aggiudicato infatti quattro Premi Oscar, su tredici candidature ricevute, vincendo il premio per il miglior film (diciamo però che Tre Manifesti a Ebbing, Missouri è un pelino meglio), il miglior regista (giustamente e finalmente io direi), la migliore scenografia (non credevo ma è davvero efficiente e suggestiva) e la migliore colonna sonora (quest'ultimo indubbiamente). Il film difatti e nonostante tutto, nella sua semplice complessità lascia quasi ogni spettatore felice a fine visione, vittima di un comparto tecnico di assoluto valore che riesce a dare una forma solida alla liquida potenza dell'amore. Voto: 8--