martedì 18 giugno 2019

Il bambino che scoprì il mondo (2013)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 21/11/2018 Qui - Con Il bambino che scoprì il mondo (O Menino e o Mundo), film brasiliano diretto da Alê Abreu, ci troviamo davanti a una vera opera d'arte, non è un caso infatti che il film, che ha vinto una serie di premi internazionali, abbia ricevuto la candidatura all'Oscar al miglior film d'animazione nell'ambito dei Premi Oscar 2016 e per produrlo il regista ci abbia impiegato ben cinque anni. In questo film d'animazione siamo difatti lontani anni luce dalle patinate immagini 3D a cui negli ultimi anni la cinematografia di genere ci ha abituato, soprattutto quella americana. I disegni sono la parte migliore del coraggioso film brasiliano, realizzati con inesauribile fantasia, pastelli e colori a cera, che creano nella loro elementarissima struttura delle immagini davvero suggestive ed evocative. Il tratto prevalente è quello del disegno di un bambino, il protagonista stesso (il bambino per l'appunto) è stupefacente, nella sua maglietta fatta di quattro strisce rosse orizzontali, gli occhi lunghi come finestre e somigliante vagamente ad una lampadina. Questo bambino dagli occhi a fessura che insegue il padre, diventando a sua volta grande, ci racconta del nostro pianeta spianato, arato dalla mediocrità della tecnica e dalla corruzione, in cui la fantasia, l'originalità, resistono solo se protette dentro un barattolo povero piantato nel terreno proprio come un seme. Ne Il bambino che scoprì il mondo infatti, una favola avvolgente giocata sull'assenza di parole (si parla una lingua inventata e dunque incomprensibile) e sulla strabordante presenza di colori e suoni, dove ciò che conta sono le sinapsi affettive attivate da precisi meccanismi drammatici oltre alla vivacità delle invenzioni animate: carri armati a forma di elefante, bande che suonano armi da fuoco invece che ottoni e la suprema sublimazione dello spirito del popolo brasiliano in un uccello del paradiso iridescente che protegge l'innocenza di un'intera generazione, forte è la critica ad un mondo (il nostro) nel complesso marcio e industrializzato al limite dell'umana comprensione.
O Menino, ossia il bambino come è nel titolo originale, vive in campagna con la madre e il padre, in un perfetto stato di natura. Come un dio Pan il padre suona il flauto e il figlio anche da lontano può seguirlo, catturare le sue note come fossero petali di fiori. Poi, un giorno, il papà deve salire su un treno e andare in città a cercare lavoro. Il paradiso originario è perduto, non c'è niente che possa riportare il piccolo allo stato di felicità iniziale. I ricordi gli si parano davanti agli occhi come scene reali del padre che lo abbraccia, che suona il suo strumento, ma sono solo illusioni che svaniscono proprio quanto sembrano materializzarsi. Il Menino va, parte anche lui, sul carretto di un vecchio raccoglitore di cotone, alla ricerca del padre, alla scoperta do mundo. È la scoperta dell'inferno dell'agricoltura industrializzata prima, delle fabbriche e delle grandi metropoli poi. In sintesi, il film presenta quindi spunti di altissimo livello poetico ed è realizzato in maniera eccellente, purtuttavia, nella durata non indifferente di un'ora e mezzo, lascia sul campo vistosi segni di stanchezza che si manifestano in chiari movimenti delle palpebre verso una lenta chiusura (il ritmo narrativo difatti, seppur incalzante e poetico, è parecchio lento). Perché certo, si rimane stupiti per la semplicità, la vertiginosa bellezza, poesia e drammaticità dei disegni e del racconto, il regista riesce infatti con pochi tratti di matita e guazze di colore a esprimere sentimenti umani profondissimi, universali, senza età, la colonna sonora, poi (intesa come musica e rumori delle cose che scorrono sullo schermo), è un piccolo capolavoro a parte, come detto non ci sono dialoghi (solo, ogni tanto, suono di parole indistinguibili, tanto per accennare al fatto che due o più persone parlino), ma nessun'emozione è arrivata da immagini comunque efficaci. Sarà per questo che l'Oscar non sia poi arrivato? Personalmente sì, perché anche se questo circo di colori trascinante e apocalittico, tra carta e CGI, collage surrealista e documentario, esplosivo nell'invenzione figurativa, raffinato per come tesse una trama ardita e non facilmente leggibile, è comunque emotivamente comprensibile a tutti, lascia un po' storditi e non del tutto contenti del risultato. Voto: 7