mercoledì 8 maggio 2019

El abrazo de la serpiente (2015)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 03/12/2018 Qui - Il cinema ci ha spesso mostrato l'Amazzonia e i suoi abitanti nei loro lato più estremi e brutali, per esempio nel caso dei cannibal movie come Cannibal Holocaust o del più recente The Green Inferno. Il regista Ciro Guerra compie invece un'operazione diversa, perché girando in un ammaliante bianco e nero, egli si prefigge l'obbiettivo di raccontarci una parte di mondo ancora in larga parte inesplorata come l'Amazzonia, mostrandocela però dal punto di vista degli indigeni e concentrandosi sui riti, le credenze e le leggende delle persone che abitano questi posti magnifici e incontaminati, il risultato è un'esperienza visiva e interiore di raro fascino, che non può lasciare indifferenti. El abrazo de la serpiente infatti, film del 2015 diretto dal regista colombiano, film candidato all'Oscar 2016 come miglior film straniero e vincitore del premio Art Cinéma della sezione Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes 2015, è un grande omaggio all'Amazzonia, ai suoi misteri, alle sue popolazioni sterminate in nome della "civilizzazione". Un omaggio rispettoso e approfondito a un luogo, a un popolo e alla loro storia, spesso fatta di sangue, soprusi e sopraffazione. Un film perciò dai ritmi lenti e compassati, sempre in bilico fra realtà e sogno e su più piani temporali, quindi potenzialmente indigesto a molti, ma un film tuttavia tanto interessante e appassionante, molto più del mediocre Civiltà perduta, che può piacere, o è piaciuto, a tanti altri. Il film infatti, che racconta la storia dello sciamano Karamakate (Nilbio Torres e Antonio Bolivar), ultimo discendente della sua tribù, che incontra i due scienziati ed esploratori Theodor Koch-Grunberg e Richard Evans Schultes (sui diari dei quali è basato il film) a distanza di circa 40 anni l'uno dall'altro, instaurando con loro un rapporto profondo e controverso, se all'inizio sembrerebbe il classico viaggio di lavoro dagli scopi prettamente scientifici (i due scienziati difatti, che si recano in Amazzonia in periodi diversi, sono accomunati dallo stesso obbiettivo, ovvero quello di cercare la yakruna, una pianta sacra e dai potentissimi poteri) diventa ben presto l'esplorazione (la brillante esplorazione) di una cultura pressoché sconosciuta e la ricongiunzione (degli scienziati) con la loro essenza più primordiale (dopotutto non è un caso che Karamakate sia lo sciamano che fa da elemento di unione tra le due spedizioni diventando per questo una guida, anche spirituale, in una porzione di mondo incontaminata). E non è tutto, perché inoltre il suddetto propone come tema principale una riflessione su le due culture contrapposte. Quella colonialista e vincente dei bianchi, che si porta dietro un approccio razionale e scientifico ma anche lo sfruttamento e la distruzione della natura a fini meramente economici (deforestazione, industria ed estrazioni minerarie, raccolta del lattice per il caucciù), e quella indios più sensitiva e magica, ma rispettosa dell'ecosistema ambientale.
Ma c'è anche una polemica contro un certo tipo di attività missionaria nelle figure di un prete violento contro i bambini indigeni di una missione e nell'incontro con un santone che si crede la reincarnazione di Gesù, venuto a salvare (un po' ricordando Apocalypse Now) gli Indios locali. E' insomma un film piuttosto duro perché denuncia le follie umane, i soprusi e le violenze perpetuate da uomini su altri uomini. Un film che alla fine quindi cattura emotivamente lo spettatore conducendolo in un'esperienza sensoriale e forse anche esistenziale, tanto che viene da chiedersi se sia stato giusto importare in quei luoghi "civiltà" e religioni così avulse dal territorio, invece di rispettare quella sorta d'incantato "genius loci". Un film in cui buone sono le prove dei due attori professionisti Jan Bijvoet e Brionne Davis, perfettamente calati nella parte di persone spesso dubbiose e incredule verso ciò a cui stanno per assistere, e altrettanto valide quelle degli attori indigeni, che conferiscono credibilità e realismo alla pellicola. Dal punto di vista registico, l'elegante bianco e nero scelto da Ciro Guerra (o chi per lui) è il perfetto accompagnamento per un viaggio senza tempo attraverso la bellezza di questi luoghi, che vengono immortalati da alcune splendide panoramiche (le immagini, per lo più fornite da "National Geographic", sono molto suggestive, evocativa la scena finale in cui si riesce a vedere il territorio dall'alto a volo d'uccello e il rio delle Amazzoni con le sue numerose curve come un "abrazo de la serpiente") ed enfatizzati da delle buone musiche. Non mancano alcuni virtuosismi registici, che trovano una naturale collocazione nelle sequenze oniriche e in uno splendido trip psichedelico nella parte finale della pellicola, che fa tornare alla mente l'analoga e celeberrima sequenza di 2001: Odissea nello spazio. Cercando un difetto, anche se questo contribuisce all'alone di mistero e magia che circonda questa pregevole pellicola, l'intreccio fra i vari piani temporali è a volte un po' caotico e confusionario. L'altro difetto, se così si può dire, sta nel fatto che questo manifesto anti-modernista realizzato con la materia stessa dei sogni, un'opera memorabile e un monumento contro la dimenticanza, un'opera destinata quindi ad un pubblico di nicchia (a chi possiede larghe vedute sia cinematografiche che culturali), non sia per tutti. Peccato poi che questa discreta e incredibile pellicola, abbia dovuto concorrere con il validissimo Il figlio di Saul (meritatamente vincitore), perché l'Oscar poteva anche starci, e tuttavia indubbio è il suo valore finale, di una pellicola interessantissima. Voto: 6,5