Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 27/01/2017 Qui - Come l'anno scorso e anche tanti anni prima, da quando andavo a scuola, ogni anno ho sempre visto un film sull'Olocausto, argomento delicato e non sempre facile da esporre, in quanto è innegabile che quello che i nazisti hanno fatto nei campi di concentramento è qualcosa di inumano, anzi, disumano, orrendo e scandaloso, che raccontarlo in un film è sempre una sfida. La sfida di raccontare una storia così angosciante senza inevitabilmente provocare nello spettatore disgusto e vergogna nell'assistere impotenti a qualcosa di tremendamente irreale da essere prepotentemente vero. Perché purtroppo è successo ma dobbiamo ricordare, proprio tramite questa Giornata della Memoria, non solo che quello che è successo, è successo davvero, ma che ciò la Storia ricorderà come il momento più nero dell'umanità non ricapiti più, mai più. Comunque se l'anno scorso il film scelto fu una storia di speranza di un ragazzo in fuga dalla guerra, Corri Ragazzo corri, quest'anno è invece capitato una storia che di speranza non ne ha quasi nessuna, cupo, grigio e profondamente crudele, Il figlio di Saul (Saul fia), film del 2015 diretto da László Nemes, film che ha partecipato in concorso al Festival di Cannes 2015, dove ha vinto il Grand Prix Speciale della Giuria e che nel 2016 ha vinto Golden Globe e Premio Oscar come miglior film straniero (Ungheria) e anche il David di Donatello come miglior film dell'Unione Europea. Tutto ovviamente non per caso, perché il film, opera prima di Nemes, è terrorizzante, caotico, sconvolgente, e lascia nello spettatore un senso di sgomento di fronte alla 'fabbrica della morte'. Fabbrica dove 'lavora' Saul Ausländer, membro ungherese del Sonderkommando, un gruppo di prigionieri ebrei isolati dal campo e costretti ad assistere i nazisti nella loro opera di sterminio. Ma mentre sgombera e pulisce una delle camere a gas, Saul vede uccidere dai medici nazisti un ragazzo inspiegabilmente sopravvissuto alla gassificazione. L'uomo, che sostiene che il ragazzo morto sia suo figlio, vuole evitargli la cremazione per offrirgli una degna sepoltura, a questo scopo si mette alla ricerca (affannosa e incessante, forse anche troppa) di un rabbino.
La figura del Sonderkommando, non è mica la prima volta che viene mostrata in una pellicola, ma mai come in questo caso ne diventa principale elemento. Figura di 'transizione' infatti già emersa dalle testimonianze dei sopravvissuti nel documentario di Lanzmann 'Shoah', ma qui questa esplode in tutta la sua durezza, dato che pone le basi per mettere il pubblico in una scomoda posizione, poiché se anche Saul è indubbiamente una vittima, la macchina da presa costringe a guardare con i suoi occhi la realtà deforme circoscrivendola alla sua condizione particolare tesa unicamente alla sopravvivenza del momento ed escludendo quella ritualizzazione della tragedia umana dal punto di vista visivo e sottraendone i passaggi 'spettacolari' più canonici. Forse però tenere l'inquadratura su Saul e sfocare tutto il resto, in maniera che esecuzioni, camere a gas, forni crematori e fosse comuni possano essere solo intuiti, è l'unico modo di parlare della Shoah con un minimo di rispetto. Perché sbatterli in faccia allo spettatore puzzerebbe di ricatto o riderci su e buttare tutto in burla moralmente esecrabile. Ne consegue un registro claustrofobico e opprimente in cui il caos è invisibile ma molto vicino a chi guarda, lo si avverte dai rumori e dalle sfocature dell'immagine, dal disagio interiore che la presenza ansimante e disperata di Saul trasmette, eliminando di colpo tutte le cautele descrittive che altri film hanno prodotto in precedenza adoperando registri diversi, per cercare di rendere più spiegabile ciò che successe. E per fare ciò Nemes mostra quello che nessuno aveva mai mostrato senza neanche farlo vedere, e questo è un merito straordinario del film. Il regista Laszlo Nemes infatti sembra voler dire che l'orrore è irrappresentabile. Poiché in fin dei conti si tratta solo di una fabbrica insensata, quasi come a volte si rivela quella dell'industria capitalistica, perché la morte non finisce mai e allo stesso modo la produzione industriale si inceppa con la saturazione del mercato. Comunque a volte questa tecnica, come i sottotitoli e le voci che non si capisce da dove vengano e chi le dica stonano un po', tutto è caotico, confuso e convulso, anche se tremendamente angosciante, come lo schermo a 4:3.
Angosciante come anche l'apparentemente indifferente volto (attonito, stolido) di Saul (Geza Rohrig) che riempie lo schermo per metà film, dato che la tecnica di ripresa è in close-up sul viso, sulla fronte, sulla nuca di Saul. Saul che fa parte del Sonderkommand ed è costretto a fare la mano d'opera per gli eccidi dei nazisti, illude i prigionieri, li richiude nelle camere a gas, ritira i cadaveri, pulisce. Obbedisce alle urla, si inchina alla minaccia del fucile. Un becchino che dopo quattro mesi di questo infame lavoro non può che perdere ogni tratto di umanità. E invece Saul proprio quando sta per vedere scadere il suo tempo ('siamo tutti morti') compie un gesto simbolico, l'unico possibile di fronte alla follia dello sterminio nazista. Seppellire il cadavere di un figlio che forse non ha mai avuto e che adotta come gesto di protesta di fronte alla pazzia di carnefici e vittime, un gesto che è un pugno chiuso sovversivo buttato in faccia non solo ai tenenti e ai capitani delle SS ma anche un rifiuto a collaborare e di essere complici di una pulizia etnica che ha causato milioni di morti. Di fronte a questi numeri catastrofici, il singolo uomo si oppone con il rispetto del cadavere di un bambino e la sua sepoltura con la preghiera del rabbino. Non importa se il rabbino è farlocco o se il cadavere si perde nel fiume, Saul riacquista quella dignità di essere umano che aveva perso nella vergogna del collaborazionismo. E non importa se l'immagine del biondo bambino è una sua proiezione o una talpa inviata dai tedeschi, Saul finalmente può mettere a fuoco l'ambiente e vederci finalmente chiaro, alla fine della vita quel che conta è avere amato. In lui c'è ancora una scintilla di sentimento umano, che smorza in parte, solo in parte, l'amarezza della vicenda. La vicenda di un uomo, di un padre, che fa di tutto, proprio tutto, anche la scelta moralmente sbagliata di proteggere i morti a discapito dei vivi, fatto che rende un po' tutto assurdo, anche se la ricerca della sepoltura è il velo, è la metafora dell'umanità, della dignità umana che viene preservata, ossessivamente mantenuta fino alla fine. All'uomo potete togliere tutto, anche la vita, ma non l'essenza. Insomma qualcosa di agghiacciante, sconfortante e crudele che riesce nel suo obbiettivo di scuotere ancor di più le coscienze, e anche se avrei preferito vedere un film del tutto diverso, non so puntare sulla rivolta degli internati o espletare la sua funzione di denuncia, Il figlio di Saul è un film che vi consiglio di vedere, per scoprire ancor di più in profondità l'eccidio nazista e le sue folli idee rivoluzionarie. In definitiva pellicola interessante, forte, potente e intensa, ma non eccezionale. Voto: 7