giovedì 21 febbraio 2019

Dark Places: Nei luoghi oscuri (2015)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 19/01/2017 Qui - Dark Places: Nei luoghi oscuri (Dark Places), film del 2015 diretto da Gilles Paquet-Brenner, un thriller cupo e dai toni horror che faceva ben sperare, e invece molto cose non funzionano e poco rimane impresso. A partire dalla storia, quella di Libby Day, trentenne che non ha mai lavorato in vita sua, visto che è vissuta di rendita sulla tragedia che ha devastato la sua famiglia, quando aveva solo sette anni infatti sua madre e le sue due sorelle sono state uccise. Della strage è stato considerato responsabile suo fratello Ben, che da allora è rinchiuso in carcere. Ora i soldi che Libby ha messo via (provenienti dagli assegni inviati da tutta l'America, commossa dal suo caso, e dai proventi del libro sulla strage che Libby ha accettato di far pubblicare) stanno finendo. Quindi la ragazza, che ha contribuito a far andare in galera il fratello con la sua testimonianza, accetta di partecipare alle indagini di un fan club appassionato di omicidi di cronaca che vuole scagionare Ben, molti infatti sono convinti che in galera non ci sia il vero colpevole, ma solo un capro espiatorio, e che quindi non sia mai stata fatta vera luce sulla strage della famiglia Day. Dall'omonimo romanzo di Gillian Flynn e sceneggiato dallo stesso autore, Dark Places, family-thriller del rimosso e del senso di colpa, non brilla certo per l'originalità del solito plot sui torbidi inganni di una provincia rurale di anime semplici e turpi delitti né tantomeno per l'appeal di personaggi scialbi e contraddittori le cui motivazioni e dinamiche psicologiche sfuggono persino alla sinossi del più aggiornato manuale di psichiatria forense, a partire dalla protagonista. Anzi, proprio per colpa della protagonista (alienata e straniante) e nonostante una mediocre regia, un buon uso (anche se eccessivo) di flashback, una narrazione fluida e scorrevole, con un cast fa quello che può, tutto è meno che coerente o credibile, a partire dai personaggi che compongono l'improbabile banda di appassionati ossessivi di cronaca nera, che si dimostra una poco credibile sequela di personaggi impresentabili e decisamente poco credibili, tutti eccentricità e movenze isteriche che diventano già da subito insopportabile se non addirittura inaccettabili.
Poiché proprio quest'ultimo fatto, conseguente di molte incongruenze, il film di conseguenza, lascia presto ogni sua parvenza horror o da incubo per svilirsi in una furba e scontata sequenza di colpi di scena che naufragano (più che far decollare) una pellicola che guarda al blockbuster, ma inciampa nella noia e nel ridicolo involontario. Tutto poi sembra già visto, come pure l'originale incipit, non poi così tanto originale, perché se è vero che l'America continua ad interrogarsi sulle sperequazioni economiche alla base dei processi delittuosi sin dagli anni '60, il Kansas e le sue immense distese agricole sono ancora una volta lo scenario per un massacro familiare in cui è più facile vedere pretestuose motivazioni esoteriche piuttosto che il realismo di una disperazione sociale che affonda le sue radici nello strozzinaggio del sistema creditizio e nelle incertezze di un'economia di sussistenza basata sui raccolti e le intemperanze del clima. Detto così il soggetto non sarebbe stato neanche tanto male e farebbe volentieri sorvolare sull'abusato cliché della strage familiare tanto in voga tra gli sceneggiatori del thriller di provincia, come pure sui pretesti di una detection story dove il privato sopperisce alle inadempienze del pubblico, ma quello che veramente rende indigesto questo polpettone di 100 e più minuti è una struttura del racconto in cui l'insopportabile flusso di pensieri in voice over della protagonista fa da contrappunto ad una confusa dialettica dei piani temporali nel loro continuo andirivieni da un passato di peccati originali (il satanismo, la violenza domestica, l'abuso pedofilo, la truffa assicurativa, i dissapori familiari) ed un presente di connivenze e omertà in cui riesce veramente difficile capire chi ha fatto cosa e soprattutto perché. La spiegazione ovviamente arriva sempre fuori tempo massimo quando, esaurite tutte le possibili ramificazioni del plot, la situazione precipita irragionevolmente verso un finale inverosimile quanto scontato, segnando la revisione di un processo fatta nel tempo di un lancio d'agenzia e la riabilitazione di un reo che pure qualche colpa dovrebbe avere. Insomma il festival delle incongruenze narrative e dei personaggi di cartapesta solo per dirci che ristabilendo la verità si ritorna a nuova vita, sia uscendo dalla prigione del proprio passato che da quella più angusta di un carcere federale ed arruolando allo scopo il caschetto biondo (mortificato da un logoro berretto sportivo) di una dimessa Charlize Theron ed il teutonico e tatuatissimo Corey Stoll, ancora invischiato dagli orrori metropolitani firmati Guillermo del Toro (The Strain). Praticamente niente di veramente eccezionale, ma dimesso come il montaggio, la fotografia, la sceneggiatura, imperniata o troppo su una rivelazione non proprio sconvolgente. Peccato, si poteva fare meglio. Voto: 5,5