venerdì 31 maggio 2019

Desconocido: Resa dei conti (2015)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 31/07/2018 Qui - Opera prima del regista spagnolo Dani de la TorreDesconocido: Resa dei conti (El desconocido), film del 2015 interpretato dai premi Goya Luis Tosar (Ma ma: Tutto andrà bene), Javier Gutiérrez Álvarez (La Isla Minima) e Goya Toledo, che ha conteso a Truman la gran parte dei riconoscimenti ai Premi Goya 2016, aggiudicandosi però solo un paio di vittorie nelle categorie tecniche, premi tuttavia significativi come il miglior sonoro e il miglior montaggio, e in effetti il montaggio è frenetico e adrenalinico in questo film (che mescola thriller, azione e dramma) angosciante e ben fatto (che ricorda film americani come Speed o In linea con l'assassino, ma anche il personalmente deludente Locke), che prende lo spettatore dall'inizio in una spirale senza apparente via di uscita, è un film che fa della suspense il suo punto di forza, fedele ai canoni del genere. Per questo il thriller, che racconta di un dirigente di banca deciso e spregiudicato che si ritrova in una situazione altamente letale in compagnia dei suoi due figli, ovvero quando un interlocutore sconosciuto (appunto Desconocido) che per ricatto dice che sull'auto c'è una bomba (cosa che se vera o bluff porterà comunque il protagonista su una strada pericolosa), un film che si ispira al caso spagnolo della vendita delle "Participaciones Preferentes", un prodotto finanziario ad alto rischio venduto da alcune banche spagnole ai propri clienti senza dar loro alcuna informazione, è un thriller adrenalinico e coinvolgente che riesce a coniugare intrattenimento e critica sociale, con una feroce analisi della spregiudicatezza del sistema bancario e delle drammatiche conseguenze umane che ne sono derivate.

Perfect Sense (2011)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 31/07/2018 Qui - Non è certamente il film che ti aspetti, Perfect Sense, film del 2011 diretto da David Mackenzie. Perché di solito quando si pensa ad un film apocalittico, viene da pensare a tutt'altro, ma la pellicola (presentata in anteprima al Sundance Film Festival nel 2011), che è comunque un film apocalittico, fantascientifico, è però ben altro, molto di più. Si tratta infatti di una raffinatissima riflessione sull'amore e la condizione umana, fatta con un budget ridotto, regia minimalista, dialoghi essenziali, poche parole ma incisive. Difatti come in Melancholia di Lars Von Trier, l'elemento fantascientifico è soltanto un pretesto, sfruttato dal regista con uno scopo ben preciso: parlare di amore, in un modo (approccio) insolito (inusuale e spiazzante), mai tentato prima. Un'approccio molto minimalista che si differenzia da altre pellicole di genere e che in un certo senso gli dona una certa originalità. E' innanzitutto, infatti, un film romantico, ricco di intimismo, che si da l'obiettivo di scrutare l'animo umano, analizzarlo nelle sue più recondite particolarità, sezionarlo in modo quasi scientifico, metterne a luce le contraddizioni (ma anche le infinite possibilità di quella che è una macchina sensazionale, il nostro corpo, la nostra mente). Non a caso il film (semisconosciuto in Italia, dove non è nemmeno arrivato nelle sale, ed arrivato qui da noi solo 7 anni dopo grazie a Sky), è un inno alle cose essenziale della vita, in una nera metafora sul consumismo, i rapporti di coppia, la crisi economica e il materialismo dilagante nella società odierna. In tal senso non bisogna perciò cercare la razionalità della trama, assurda ed irrealistica, quella di un mondo invaso da una strana epidemia (priva di fondamenti scientifici), che non si riesce bene ad identificare, che fa perdere alle persone l'uso dei sensi, a partire dall'olfatto, ma vivere il film a mente libera come un esperienza sensoriale. Ben presto ci si rende conto che tutti i sensi, prima o poi se ne andranno. L'esito finale dell'epidemia appare ineluttabile, intuiamo la paura, riflettiamo su ciò che abbiamo e che diamo per scontato, ne avvertiamo la grandezza. Lo avvertono soprattutto i due protagonisti (mentre attorno a loro esplode la follia), interpretati da un bravissimo Ewan McGregor e da una straordinaria e sontuosa (di meno non si può dire perché è praticamente una Dea) Eva Green (con un feeling eccezionale tra i due), rispettivamente un affermato chef di Glasgow ed una epidemiologa che sta studiando la malattia, che s'incontrano, si compensano, si amano.

Glory: Non c'è tempo per gli onesti (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 31/07/2018 Qui - Vincitore di numerosi premi tra cui quello per la migliore sceneggiatura al Dublin Film Festival (e selezionato dalla Bulgaria per la corsa all'Oscar al miglior film in lingua straniera), Glory: Non c'è tempo per gli onesti (Slava), film drammatico del 2016, narra una storia semplice e potente, di dilaniante forza emotiva che conquista con semplici ma fondamentali mezzi espressivi tra cui una solida sceneggiatura, un significativo ancoraggio al presente e autentiche interpretazioni. Un film (duro e purtroppo quanto mai realistico per ciò che concerne la sua storia) che rappresenta la contrapposizione di due mondi agli antipodi, le due anime della Bulgaria di oggi, il mondo onesto e semplice di un uomo qualunque e quello paludato della attualità politica bulgara fatto di opportunismi, corruzione e giochi di potere. Una parabola universale sulle terribili conseguenze che può avere l'arrogante superficialità con cui i potenti del mondo trattano coloro che sono più indifesi. Scritto e diretto da Kristina Grozeva e Petar ValchanovGlory: Non c'è tempo per gli onesti infatti, che racconta di un'operaio delle ferrovie che trova un'ingente somma di denaro sui binari e che decide di portare tutti i soldi alla polizia, e che grazie a quest'azione riceve in cambio un orologio da polso che però presto smette di funzionare, e che nella confusione di una conferenza stampa "pilotata" dal capo della sezione PR del Ministero dei Trasporti smarrisce l'orologio di famiglia (e la dignità) e che quindi per questo non si darà pace per recuperarlo, riprende un tema evidentemente a loro molto caro: quello dell'onestà e dei compromessi collegati. Questi erano infatti argomenti presenti anche nel loro precedente lungometraggio, il bel ed interessante (comunque non proprio sufficiente) The Lesson: Scuola di vita, qui la nota è più ironicamente amara e grottesca (che parte come commedia ma che prende toni drammatici soprattutto sul finale, alla sua personale odissea e alle sue insistenze per riavere l'orologio), anche grazie alle goffaggini caratteristiche del protagonista (interpretato da Stefan Denolyubov), che si trova suo malgrado stritolato in situazioni beffarde e quasi kafkiane.

La verità negata (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 31/07/2018 Qui - È plausibile che una stimata storica, professoressa universitaria, sia costretta a dimostrare in tribunale che le accuse mosse a un negazionista di aver distorto volutamente i fatti storici, non rappresentino diffamazione? È possibile che, per farlo, debba addirittura portare davanti a un giudice le prove che dimostrino l'effettiva esistenza dell'Olocausto? In Inghilterra, dove non esiste la presunzione d'innocenza, sì. È quello che è successo realmente (negli anni novanta) a Deborah Lipstadt (Rachel Weisz), professoressa di studi ebraici moderni e dell'Olocausto all'Emory University di Atlanta, quando il sedicente storico David Irving (Timothy Spall) l'ha citata in giudizio al tribunale di Londra, dando così vita a uno dei processi più paradossali e significativi degli ultimi decenni. Per quanto assurdo che sembri, La verità negata (Denial), film del 2016 diretto da Mick Jackson, tratto dal libro History on Trial: My Day in Court with a Holocaust Denier di Deborah Lipstadt, racconta quindi come non sia così semplice provare l'ovvio, soprattutto quando a rimetterci potrebbe essere la storia stessa e milioni di morti senza colpa. Ma qui si tratta della storia, e perdere potrebbe distruggere una delle verità sui fatti più atroci che l'essere umano abbia mai commesso. Nel duello tra Irving (che ha deciso di difendersi da solo) e la Lipstadt, a prendere il sopravvento è invece l'avvocato Richard Rampton (un come sempre grandissimo Tom Wilkinson), perché con la sua strategia deve difendere le sorti dell'umanità intera e la sua verità storica. Perché cosa si può rispondere a chi sostiene che ad Auschwitz non ci siano state camere a gas? Le parole potrebbero non bastare, proprio perché in questo caso servono le prove, scientifiche e provate, anche se i fatti sono oggettivi, testimoniati dai sopravvissuti e comprovati dalla storia stessa. Eppure il processo va avanti, ed è incredibile come le persone coinvolte, e non solo, si trovino davanti l'evidenza negata. Processo che prende buona parte della pellicola, dopotutto La verità negata, è un vero thriller giudiziario (cosiddetto legal drama), che racconta meticolosamente la battaglia legale intrapresa dall'autrice (ma anche le parti più intime delle persone coinvolte), un genere che si fonda sull'attesa delle udienze con tutto ciò che comporta (causa del contenzioso, turbamento dell'imputato, mestiere investigativo, confronti preliminari) e su un'esatta sintesi tra intrattenimento e coinvolgimento, che qui riesce ad essere ben inserito nell'architettura del processo inglese, del quale vengono spiegati alla protagonista americana (e a noi spettatori) i meccanismi, le regole, i ruoli, i pericoli.

Nerve (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 31/07/2018 Qui - Dopo il documentario sulle insidie del web Catfish e la regia di Paranormal Activity 3 e 4Henry Joost e Ariel Schulman si divertono (e divertono) con Nerve, teen-thriller sulla falsa riga di Black Mirror che, nonostante le tantissime influenze, può vantare un'anima propria. Il film del 2016 è infatti un bel thriller giovanile molto originale (accattivante e intelligente) sulla potenza (e pericolosità) delle app al giorno d'oggi, la cui trama ti porta inevitabilmente a pensare al fenomeno (o presunto tale) Blue Whale, anche se il thriller è decisamente meno allarmistico riguardo al tema dei giovani manipolati dalla Rete. Tuttavia nonostante non ci siano dei legami effettivi tra questo "gioco" e Nerve, le loro regole sono piuttosto simili: persone anonime impongono ai giocatori delle sfide che devono essere superate ad ogni costo. Simile è anche il risultato, giacché in questa realtà, dove ogni proposta, anche la più pericolosa, deve essere accettata, i giovani vengono sopraffatti da un gioco (un pericoloso gioco molto inquietante perché potrebbe veramente succedere) apparentemente innocuo ma che finisce per essere letale. Ed è a questo gioco online, illecito e malato, chiamato appunto Nerve, che Vee (Emma Roberts), studentessa e figlia modello, decide di iscriversi come giocatore per dimostrare all'amica Sydney di essere pronta a correre dei rischi. Questo social game, che si svolge in una New York patinata e discretamente fotografata, la porrà di fronte a sfide con premi in denaro che la porteranno prima a baciare Ian (Dave Franco), un altro giocatore affascinante e spericolato, e poi a diventare la sua compagna nelle prove successive. La profonda complicità che nasce da subito tra i due, spingerà Vee ad accettare sfide sempre più estreme e spericolate risucchiandola in qualcosa di oscuro che non avrebbe mai nemmeno immaginato (e in tal senso l'ansia non manca anche nello spettatore, e non solo nello svolgersi, e degenerarsi, della situazione). Ma quando finalmente si renderà conto del guaio in cui è capitata, cercherà di tirarsene fuori avvertendo la polizia. La verità ha però un prezzo e la prima regola di Nerve è proprio non parlare di Nerve (Fight Club docet). E quindi solo rischiando la propria vita potrà fermare questo stupido gioco, ci riuscirà?

Guida tascabile per la felicità (2013)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 31/07/2018 Qui - Non esiste una guida tascabile per la felicità in generale, men che meno se si è adolescenti con un presente drammatico e tragico per la scomparsa di un genitore. Il film Guida tascabile per la felicità (A Birder's Guide to Everything), film indipendente del 2013 diretto da Rob Meyer, cerca di far coincidere il racconto del passaggio di un periodo cruciale nella vita di ogni persona e l'elaborazione del lutto che porta alla formazione e alla maturazione dei sentimenti, tentando la via della commedia per certi versi leggera ma delicata, senza calcare la mano né eccedere in un senso o nell'altro. Ne esce fuori un film per ragazzi che sa comunque parlare con una certa maturità, nonostante temi e dinamica già viste e usate nel cinema, gradevole e simpatico in alcuni momenti e più riflessivo in altri, ben interpretato e diretto senza sbavature, dotato di una sobrietà di fondo che coinvolge pur nel suo essere ordinario e privo di grandi acuti. Il film infatti, una commedia (praticamente un romanzo di formazione) dai toni allegri e divertenti rivolta ai ragazzi, tratta con toni delicati diversi temi universali dai rapporti familiari, all'amicizia, alla morte fino ai primi amori, in sostanza parla dei sentimenti, ma senza banalità grazie anche alle capacità dei suoi attori in particolare del protagonista, Kodi Smit-McPhee. Quest'ultimo interpreta David, un adolescente appassionato di birdwatching (hobby che riguarda l'osservazione e studio degli uccelli in natura e prevede la capacità di osservazione e di ascolto per il riconoscimento dei diversi canti degli uccelli), rimasto da poco orfano della madre che, in difficoltà nei rapporti con il padre che sta per risposarsi e che dopo aver intravisto un'anatra del Labrador, data per estinta a fine '800, compie un viaggio (proprio nel weekend del fatidico matrimonio) insieme agli amici Peter e Timmy e ad una ragazza, abile nella fotografia, su cui David ha timidamente messo gli occhi, per ritrovarla. Ma se ci riuscirà non è lecito sapere qui e adesso, di sicuro però la "caccia" fotografica si trasformerà in una lezione di vita per questi giovani e a trionfare saranno come sempre i buoni sentimenti.

Black Mass: L'ultimo Gangster (2015)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/07/2018 Qui - Black Mass: L'ultimo Gangster (Azione, Usa 2015): Ennesima pellicola sulla vita criminale di un gangster, Black Mass racconta appunto la biografia (tratta dall'omonimo libro scritto nel 2001 da Dick Lehr e Gerard O'Neill) di Whitey Bulger, un criminale di Boston che attraverso un accordo con la Fbi ed alle coperture che gli fornisce il suo amico John Connolly diventa un boss spietato e crudele. Ma proprio per il semplice fatto che di film simili (tratti da una storia vera o meno) ne abbiamo visto a centinaia, che la pellicola finisce per diventare ridondante e noiosa a prescindere. Se poi si aggiunge l'ennesima maschera di Johnny Depp (make up pesante, calvizie, lenti a contatto azzurro ghiaccio), l'effetto globale è più che mai risaputo, già visto e distante. Il problema è che, un po' The Departed, un po' Quei bravi ragazzi, un po' I Soprano, il regista Scott Cooper arraffa il più possibile, ma sembra non trovare la strada giusta per rendere davvero drammatico e coinvolgente questo piccolo pezzo di Storia americana. Il film infatti si sgretola fin da subito sotto il peso delle sue banalità (prevedibile e stereotipato), e come già nel precedente Il fuoco della vendetta, il regista (con una regia diligente, ma scolastica e priva di guizzi) fa il suo compitino senza mai entusiasmare. Difatti si fa fatica a trovare una inquadratura o una singola scena che resti realmente impressa. E quindi è di certo questo un prodotto confezionato e realizzato con didascalico mestiere, è qualcosa, ma non basta. Perché la sceneggiatura è un copia e incolla di tanti cult di genere del passato, senza sprazzi di originalità né scarti in avanti. Così passi due ore di buon intrattenimento, senza mai sorprenderti ma neanche annoiarti, ma in attesa di qualcosa di più che però non arriva. E se la sceneggiatura, scialba e noiosa, manca di azione, colpi di scena o dialoghi memorabili, altrettanto sprecati appaiono i validi attori prescelti per interpretare i protagonisti delle vicende. Il numeroso cast di attori scelti ed ivi impiegati, come Joel EdgertonPeter Sarsgaard,  Benedict CumberbatchKevin BaconDakota JohnsonJuno TempleCorey Stoll e David Harbour infatti, non riesce a sollevare il film dalla pura e semplice testimonianza diretta e lineare di un'esistenza criminale, non riuscendo ad approfondire, per esempio, la psicologia dei personaggi e le varie motivazioni. Pertanto Black Mass risulta una lunga serie di efferati crimini tesi a dimostrare solo la crudeltà insita del protagonista, protagonista interpretato da Johnny Depp tuttavia abbastanza efficacemente, ma non in modo del tutto convincente e tale da valorizzare tutto il lavoro (un lavoro senza anima, in cui manca una reale idea cinematografica)Scott Cooper dunque costruisce un'opera che risulta discreto dal punto di vista registico ma, a mio parere, senza alcun mordente e con qualche lungaggine di troppo. Giacché la coralità del racconto si perde ed ogni velleità politica viene riposta, e ciò che rimane è soltanto un'altra storia di criminali in una delle tante città statunitensi. Una storia, forzata e dimenticabile, in una pellicola che diventa un'occasione sprecata. Voto: 5,5

Jukai: La foresta dei suicidi (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/07/2018 Qui - Jukai: La foresta dei suicidi (Horror, Usa 2016): Ispirato alla leggenda della foresta di Aokigahara, luogo macabro e maledetto già al centro de La foresta dei sogni di Gus Van Sant, in cui la gente vi si reca per porre termine alla propria esistenza, The Forest, titolo stranamente peggio di quello originale, non è un film completamente da buttare ma piuttosto brutto, che ha i soliti difetti dei film horror di serie B (personaggi idioti, storia molto poco originale, sceneggiatura approssimativa). Il film infatti, che racconta del viaggio di una giovane americana alla ricerca della gemella scomparsa in circostanze misteriose nella suddetta foresta, e diretto da Jason Zada, celebre soprattutto negli States per qualche videoclip musicale e varie sceneggiature televisive, rimane un prodotto piuttosto scialbo e inconcludente che non convince nell'insieme. Qualcosa di buono c'è ma deboli collegamenti e mancati approfondimenti oltre a qualche banalità ne disperdono il valore intrinseco strada facendo. Parte bene grazie ad una prima parte che cerca di introdurre personaggi e fatti in modo approfondito, ma una volta nel bosco i cliché cominciano a farla da padrone e tutto si incasella su binari già esplorati e abbastanza triti. Certo, il regista ci regala comunque qualche genuino momento all'insegna del terrore, è vero (anche se sfruttando i soliti Jumpscare, qui poi non tanto efficaci), ma questo non basta per sollevare il film dalla mediocrità che lo contraddistingue lungo tutto il percorso. Colpa soprattutto di una sceneggiatura deludente, sconclusionata e priva di mordente. E non basta il finale (addirittura banale, troncato, affrettato e superficiale) a risollevare le sorti del lavoro, un lavoro registicamente anonimo (girato con gusto, ma privo di grazia e coesione) che non sfrutta e non rende giustizia alla suggestiva ambientazione, sfruttata abbastanza bene nel film con Naomi Watts, ma qui invece solo marginalmente. Non aiutano neanche gli attori a rendere interessante il tutto, in special modo Taylor Kinney (Chicago Fire) che sembra quasi scocciato di essere lì, e propone una recitazione monoespressiva, non aiutata nemmeno dal doppiaggio. Un po' meglio Natalie Dormer (Game of Thrones), ma niente che possa salvare il valore complessivo della pellicola. Una pellicola tuttavia non inguardabile e non da snobbare completamente, ma che non presenta nulla di eccezionale. Giacché troppo scontato e posticcio per strappare una sufficienza anche minima, finisce per essere un ibrido fra un horror americano e uno giapponese amalgamato male. Un ibrido che non riesce a sfruttare il suo potenziale e di cui era lecito aspettarsi di più. Voto: 4,5

Codice Unlocked (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/07/2018 Qui - Codice Unlocked (Thriller, Gran Bretagna, 2017): Nasceva forse con l'intento di sorprendere, di andare oltre, invece questo è l'ennesimo spy-thriller convenzionale, un film fuori tempo massimo perché ormai il tema del terrorismo islamico e delle agenzie governative colluse è ormai stantio. Il film infatti (una spy story molto intrigata e intricata, dove nessuno è quello che sembra), che ha dalla sua solo il fatto di avere la novità di una donna protagonista (la Noomi Rapace soprattutto nota al pubblico per i titoli della serie Uomini che odiano le donne), tra doppiogiochisti e voltagabbana, tra diabolici burattinai e pedine inconsapevoli, procede come da classico script. Script che qui fa fatica a nascondere la banalità del tutto e non brilla certo per dialoghi o caratterizzazione. Perché tra buchi narrativi e situazioni poco credibili, il film, che ricorda molto da vicino diversi altri prodotti dello stesso genere (la saga di Jason Bourne, in primis) ma con risultati diametralmente opposti, che pur riconosce "mestiere" al regista (alcune interessanti scene d'azione ci sono, il ritmo non è messo in discussione, la durata contenuta e lo scenario sono giusti) non riesce ad elevarsi dai soliti cliché, non concedendo molte emozioni e i pochi colpi di scena sono piuttosto telefonati. Prevedibile e banalotto, il film di Michael Apted difatti (che dalla sua ha la direzione di un Bond, 007 Il mondo non basta), fatica a coinvolgere, i ragionamenti sul tema del terrorismo sono superficiali, debole è la scrittura dei personaggi (quella dei "cattivi" soprattutto) e sconta alcune piattezze nel corso della storia. Una storia così tanto ordinaria che proprio non si capisce (dura da comprendere) come abbia fatto una produzione come Codice Unlocked a mettere insieme un simile cast. Cast che comprendente John Malkovich e Toni Collette (entrambi poco e mal sfruttati), Michael Douglas e Noomi Rapace (entrambi parecchio imbambolati), non dimenticando un inutile Orlando Bloom, non fa comunque molto per migliorare la situazione di un film possibilmente da dimenticare. Voto: 5

Fahrenheit 451 (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/07/2018 Qui - Fahrenheit 451 (Fantascienza, Usa 2018): Non ho visto il film originale (del 1966 diretto da François Truffaut), nientemeno ho letto il romanzo omonimo da cui questo remake è il suo adattamento (del 1953 di Ray Bradbury), per cui ho visto il film per quello che è, un action fantascientifico interessante ma non proprio convincente. Perché il film, un film per la televisione del 2018 scritto e diretto da Ramin Bahrani, anche se non fosse un remake, pone delle tematiche tali che attraverso un aggiornamento contestualizzato all'epoca contemporanea, sempre attuali ed eterne, sono parecchio interessanti. Giacché l'idea di voler modernizzare la trama principale (un mondo distopico in cui i pompieri invece che spegnere gli incendi li appiccano, e vengono usati dal governo per bruciare i libri) aggiungendo tanti dettagli che la avvicinassero all'epoca in cui viviamo (dove i libri stanno effettivamente scomparendo in favore di apparati digitali e dove il conformismo ha raggiunto livelli estremi) è, non solo condivisibile ma anche molto apprezzabile. Tuttavia se i presupposti sono più che discreti, sono rimasto abbastanza perplesso sui suoi sviluppi. Poiché in questo caso, seppur la denuncia sui rischi che stiamo correndo è chiara, la sua esposizione è labile e fallimentare. Dalla descrizione di un mondo futuro coerente allo sviluppo di una trama sulla carta appassionante e coinvolgente, ma che messa in scena sembra incedere a fatica, quasi svogliatamente. In pratica quando i personaggi e il contesto in cui agiscono vengono presentati, quando iniziamo ad affezionarci a loro e vogliamo scoprire come si andrà avanti, il film si perde in una nuvola di fumo e si trascina così fino alla fine (palesemente ricalcata da Blade Runner, da cui riprende i grattacieli futuristici). E quindi sfortunatamente, l'affidabile Ramin Bahrani non solo non riconferma le doti di osservazione intraviste (seppur parzialmente) nei suoi precedenti A qualsiasi prezzo e 99 Homes, ma forse non è stata la scelta giusta, perché sperpera in tutto e per tutto un patrimonio attoriale di altissimo livello (c'è anche Sofia Boutella insieme ad un carismatico, ma noioso e monocorde, Michael Shannon e Michael B. Jordan, il giovane eroe con tanto di classico ravvedimento in corso d'opera) e più in generale non riesce ad elevarsi ad un livello qualitativo sufficiente. Tutto per un film che è pure in grado di stimolare una riflessione ma che, in fondo, è sostanzialmente innocuo, colpendo l'attenzione solo di chi non conserva il ricordo dell'originale e che può tornare utile esclusivamente per (ri)prenderlo in mano. Volendo anche dignitoso, ma in buona sostanza esangue. Così tanto che se abitassi nel mondo del film e fossi nei panni del protagonista, non mi farei tanti scrupoli a darlo alle fiamme. E se succedesse nel nostro, nessuno ne sentirebbe la mancanza. Voto: 5,5

Fottute! (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/07/2018 Qui - Fottute! (Commedia, Usa 2017): Mollata dal fidanzato, la giovane Emily non sa più con chi partire per una vacanza in Sud America, opterà per sua madre Linda, inizialmente poco convinta dell'idea ma che finirà per accompagnarla, e che finirà per vivere un'avventura pericolosa. Sciocca commedia con al centro un rapporto madre-figlia ben poco credibile, Fottute! (complimenti alla Fox per il gran bel titolo italiano) è un prodotto volgarotto e grossolano, che punta sulla vena comica della scatenata (ma ben poco espressiva) Amy Schumer (che già non mi aveva convinto in Un disastro di ragazza) e su una serie di disavventure esotiche che capitano alle due donne durante il viaggio (il "solito" rapimento). Peccato che la base narrativa sia solo un pretesto per dare vita a gag stantie, tanto per le dinamiche su cui si creano quanto per i superficiali dialoghi, scritti senza alcuna attenzione e con pessimi tempi comici. Snatched infatti, diretto da Jonathan Levine, tra doppi sensi e smorfie esagerate, che ricalca troppo sfacciatamente altre pellicole e quindi di originale non ha assolutamente nulla, e che tuttavia non è particolarmente brutto né tantomeno noioso (alcune gag divertenti ci sono), è una commedia (che di cinematografico non ha praticamente nulla, se non una messa in scena comunque curata sia nelle scelte scenografiche, sia nell'abbondanza di risorse tecniche a disposizione) talmente esile che, nonostante il minutaggio contenuto entro i novanta minuti, ha bisogno di due storie praticamente separate per poter arrivare a definirsi un lungometraggio. E nessuna delle due convince, anche perché la sceneggiatura, che penalizza molto il personaggio di Goldie Hawn (che risulta spaesata e completamente fuori parte) a vantaggio di quello della Amy Schumer (inutilmente esuberante e sopra le righe) ha alcuni passaggi fin troppo stupidi. Così tanto che quest'operazione (possibilmente da dimenticare e certamente da non consigliare) conferma l'involuzione del regista, che dopo il bel 50 e 50, dimostra di essere solo un onesto mestierante e nulla più. Voto: 4,5

Codice criminale (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/07/2018 Qui - Codice criminale (Dramma, Usa 2016): Nonostante sia basato su un soggetto interessante, anche se non molto originale (uno spaccato di vita familiare, di una famiglia di criminali analfabeti e ignoranti, che pascola tra le campagne inglesi e si accampa in roulotte e il cui prepotente patriarca è convinto che il mondo sia piatto), il film di Adam Smith (Don't ThinkSkins e Doctor Who) lascia un po' perplessi, forse anche più. Il film infatti, che si propone di descrivere l'impossibilità di sfuggire al proprio destino ma finisce soltanto per curarsi del folklore che gli sta intorno dimenticandosi delle motivazioni, che poggia sulle performance di Michael Fassbender e Brendan Gleeson, gira a vuoto, non diventa mai narrativamente accattivante. La vita senza regole della famiglia, gli scontri continui con la polizia, gli inseguimenti mozzafiato e il sistema che li rigetta sono alla fine difatti soverchiati da una sceneggiatura, seppur onesta, monotona e scontata. Se le psicologie dei personaggi sono discretamente descritte (anche se velleitario e privo di mordente è il rapporto padre-figlio), quello che tradisce sono le loro azioni: derubare auto per il gusto di guidarle e farsi beffe di una polizia impreparata, un padre-padrone che vuole mantenere il suo controllo sul clan (non senza qualche assurdità) e un finale che, invece di virare sul tragico, perde l'orientamento fino a sconfinare nel posticcio sono mosse che rendono evidenti i grossolani errori logici della pellicola. Una pellicola con un regia non certo efficace e ordinaria, una pellicola che non dice nulla e non va da nessuna parte, una pellicola in cui non si ha l'ardore e la voglia di immedesimarsi nel contesto e tantomeno in individui poco costruiti e isolati, una pellicola in cui le intenzioni (da cogliere qua e la) rimangono statuarie, crude e salomonicamente spente, una pellicola senza alcun motivo di interesse, nemmeno dal punto di vista socio-antropologico (superficiale e appena abbozzato qualsiasi tentativo di scandagliamento) ed emozionale. Si ha la sensazione infatti a fine visione di aver visto poco e raccontato non bene con incongruenze paesaggi-attori. Un vero peccato, perché il regista ha dalla sua le grandi interpretazioni di Fassbender e Gleeson (pur sprecando Sean Harris), dotate di quelle venature shakespeariane che avrebbero però richiesto uno script più attento e rigoroso. Così, Codice criminale (molto più efficace il titolo originale, Trespass Against Us) diventa un film onesto ma che sarà dimenticato in tutta fretta. Voto: 5+

giovedì 30 maggio 2019

Manchester by the Sea (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 27/07/2018 Qui - Con la stagione cinematografica 2016 (non discosta tanto anche quella successiva) ebbi già l'intuizione che poteva essere una di quelle da non dimenticare, basti solo vedere i film candidati agli Oscar 2017 per accorgersene, perché a parte alcune piccole delusioni, tanti sono i film che mi sono piaciuti tanto, e tra questi, tra i candidati e poi vincitori di almeno un premio, fa la sua comparsa, e meritatamente dopo averlo visto, anche il bellissimo Manchester by the Sea, film del 2016 scritto e diretto da Kenneth Lonergan. Il film infatti, un film semplice ma unico nel suo genere, che riesce a scavarsi una via di emozioni e sentimenti nella pelle degli spettatori, catturandoli al suo interno, convincendoli ed emozionandoli del dramma umano che si consuma sullo schermo, è una perla di rara fattura e sensibilità. Difatti questo racconto pieno di tensione che evita abilmente il mero sentimentalismo per concentrarsi su una assai penetrante intuizione emotiva e per analizzare profondamente le relazioni umane, riesce elegantemente a farsi largo tra prodotti simili. Poiché il regista affronta una realtà drammatica in maniera assolutamente originale e in alcuni momenti riesce abilmente a venarla di umorismo. Tanto che risulta quanto mai evidente l'intenzione di spazzare via qualunque scontato e semplicistico patetismo in favore di un approccio autentico e a tratti persino crudo. Non a caso il film di Kenneth Lonegarn (conosciuto più come sceneggiatore che regista, qui alla terza regia dopo gli abbastanza anonimi Conta su di me e Margaret, infatti ha scritto ottimi film come Gangs of New York di Martin Scorsese e i divertentissimi Terapia e Pallottole e Un Boss Sotto Stress) ci mette di fronte al senso di solitudine di un uomo sconfitto dalla vita attraverso un linguaggio filmico scarno, fatto di pochi e brevi dialoghi, intensi primi piani ed una fotografia che privilegia i colori freddi. Questo perché Manchester by the Sea (in cui è bello rivedere, anche solo per 5 minuti, attori cult come Matthew Broderick) non è la classica storia hollywoodiana di un eroico riscatto: è una storia che parla della reale inadeguatezza umana di fronte alle sfide insormontabili che a volte, in modo crudelmente improvviso e incomprensibile, la vita presenta. Piccoli uomini con piccole ambizioni e piccole risorse rispondono a queste sfide come possono.

Antichrist (2009)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 25/07/2018 Qui - Non mi aspettavo dopo aver visto Madre! (ma purtroppo non potevo più sottrarmi alla visione, dato che il suddetto fa parte delle mie promesse cinematografiche di quest'anno) di trovarmi nuovamente di fronte ad un film "strano" e difficile da commentare e giudicare (anche se si tratta di un'opera d'autore). Certo, avevo letto in giro qualcosa e in parte avevo già capito di cosa il film volesse parlare, ma lo stesso mi ha lasciato smarrito e anche un po' sconvolto. Antichrist infatti, film psicologico del 2009 scritto e diretto da Lars von Trier, che racconta il dramma di una coppia sconvolta dalla morte dell'unico figlio (durante un rapporto sessuale), di una coppia (storica del Medioevo lei, Charlotte Gainsbourg, psicoterapeuta lui, Willem Dafoe) che nel tentativo di superare il dolore e ricominciare a vivere si trasferiscono in una capanna in mezzo ai boschi, chiamata Eden (nomen omen), luogo di paure ancestrali che si rivelerà un inferno che farà affiorare ogni malvagità (giacché fra eventi inspiegabili, tragedie e rivelazioni le cose finiranno, stranamente, per precipitare), è un film davvero disturbante. Disturbante (non solo nel senso di visione) come può esserlo quella di sbirciare per un istante nel cervello di un malato di mente, nella rappresentazione davvero disturbante del male, che entra sottopelle, che si appiccica addosso e sporca lo spettatore. Qui siamo di fronte difatti a un'operazione cinematografica che, a tratti, stilisticamente, è sublime, per inquadrature, uso della macchina da presa, colori e suoni, con due attori magnifici, ma che rappresenta solo un delirio, gli incubi personali di un individuo che conferma se stesso soprattutto nella ricerca piuttosto gratuita dello stupore e dello scandalo (e in tal senso certamente non è un film per tutti e non può essere preso alla leggera). Antichrist insomma vuole essere la trasposizione di un malessere interiore del regista e la simbologia che regna per tutta la pellicola potrebbe anche essere interessante se tutto non fosse estremamente esagerato al limite pugnalando lo spettatore con scene macabre e, a volte, al limite del disgusto. Insomma, una sorta di autoanalisi che si trasforma in un delirio dove lo spettatore si ritrova (esattamente come nel film di Darren Aronofsky) impotente a guardare. Solo che, se in Madre! bastava un elemento per capire tutto (a patto di riconoscerlo) e per fargli assumere valore o senso, qui non c'è, date le metafore a mio avviso poco fruibili, un qualcosa che può disvelare accuratamente il suo recondito significato (e anche se ci fosse, e sicuramente c'è, il risultato non cambierebbe, mediocre è questo film, mediocre rimane).

Loving Vincent (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 24/07/2018 Qui - Mentirei se dicessi di aver già visto qualcosa di simile, perché certo, non è una novità assoluta fare un film di animazione nello stile del rotoscoping, ci pensò il maestro Akira Kurosawa in "Sogni" ispirato proprio alla vita di Van Gogh, parecchi anni fa, ma in Loving Vincent, film d'animazione britannico-polacco del 2017, diretto da Dorota Kobiela e Hugh Welchman, questa tecnica, questo insolito seppur non rivoluzionario stile, è applicata brillantemente (con esiti affascinanti, di certo non scontati) per narrare una storia dando realmente vita ai quadri di Van Gogh, più o meno famosi, offrendo così un grande piacere per gli occhi (e non solo, e anche a chi di arte si interessa poco come me, che tuttavia ha trovato bello ed interessante il documentario Raffaello: Il principe delle Arti), anche se dopo i primi minuti estasianti, poi, alla lunga, finito l'effetto "meraviglia", l'interesse (seppur rimanga per questo un buonissimo prodotto) scema un po', anche perché in verità l'effetto piacevole e particolare, dello schermo che si trasforma in un'immensa tela dove vigorose pennellate dalle ruggenti cromie compongono le varie scene, in cui colori e i continui tratti di pennello "vivacizzano" le immagini, essi possono a volte confondere la vista e risultare, alla lunga, stucchevoli. Tuttavia davvero incredibile e sorprendente è questo biopic anticonvenzionale, forse uno dei film più complessi della storia del cinema degli ultimi anni. Loving Vincent (l'espressione con cui Van Gogh terminava le numerose lettere all'amato Fratello Theo, lettere su cui regista e co-regista hanno preso ispirazione per il film, lettere che non a caso sono il motore della trama) è infatti stato girato con attori veri, quindi recitato, poi il montato delle riprese è stato dato ad una troupe di 125 artisti che ha dipinto a olio ognuna delle 65.000 inquadrature nello stile del pittore Vincent Van Gogh. E così ogni attore del cast, composto (tra gli altri) da Aidan TurnerHelen McCrorySaoirse RonanDouglas Booth e Jerome Flynn, è divenuto un vero e proprio modello per questi artisti, costituendo di fatto la base da cui partire per dipingere, in ogni singolo fotogramma, i protagonisti della pellicola tratti dalle tele più note. Un film che per questo, sembra ed è, un'infinita quanto splendida successione di capolavori, un susseguirsi di scene e personaggi che tutti, anche i meno appassionati di storia dell'arte, non possono fare a meno di riconoscere. Dando perciò vita ad un'esperienza visiva incredibile e sorprendente.

Geekoni Film Festival: Labyrinth - Dove tutto è possibile (1986)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 20/07/2018 Qui - Nel 1986 avevo appena un anno, e il cinema non sapevo neanche cosa fosse, negli anni ho visto poi migliaia di film, ma non quest'opera, che ho scelto finalmente di vedere in occasione del Geekoni film festival organizzato tra alcuni amici blogger e finalizzato alla scoperta e/o riscoperta di film per ragazzi (la lista completa dei partecipanti la troverete a fine post con annessi i link di chi ha già partecipato), un'opera davvero strabiliante che seppur dimostra tutti i suoi anni, anche a causa di qualche momento di stanca, sa ancora stupire ed emozionare per buona parte della visione. Così tanto che se l'avessi visto da bambino o ragazzo probabilmente sarebbe diventato per me un cult, sarebbe divenuto un mio capolavoro personale (anche se in parte lo è, seppur non cinematograficamente parlando, comunque per molti). E allora me lo son visto, per la prima volta, a 33 anni suonati. Probabilmente non è l'età giusta per guardare un film, Labyrinth: Dove tutto è possibile (Labyrinth), film fantastico del 1986 diretto da Jim Henson (maggiormente conosciuto per essere l'inventore dei Muppets), che ha ben altro target di pubblico, ma allo stesso tempo alla mia età si vedono meglio i pregi e i difetti di un film che all'epoca avrà certamente entusiasmato, divertito ed emozionato milioni di bambini, ragazzi e probabilmente adulti. Cosa che in parte è successo anche a me, perché Labyrinth, prodotto da George Lucas e scritto da Terry Jones (uno dei fondatori dei Monthy Python), se da un punto di vista puramente visivo è un gioiellino, da un punto vista puramente cinematografico è davvero un bellissimo e fantastico film, dopotutto vedere questo film è come leggere una fiaba dei fratelli Grimm: un film dolce, semplice, ma che fa veramente sognare. Non a caso solo un bambinone mai cresciuto come Jim Henson (i suoi Muppets, tra show e film, sono ormai un cult dell'immaginario collettivo) poteva portare sul grande schermo un film che parla del difficile passaggio dall'adolescenza spensierata all'età adulta piena di responsabilità. Lo fa nel modo più consono, con leggerezza, attingendo a tutta la letteratura che tratta l'argomento, come Il Mago Di Oz e Alice Nel Paese Delle Meraviglie, e ambientandolo proprio nel mondo delle fantasie dei bambini, pieno di magia, pupazzi, creature fantastiche e orribili allo stesso tempo.

Thor: Ragnarok (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 19/07/2018 Qui - Tra tutti i film dedicati ai supereroi Marvel che rientrano nell'universo espanso della suddetta casa cinematografia e fumettistica, quelli di Thor sono, per quanto mi riguarda i meno convincenti, anche se comunque sempre ben fatti, infondo si parla sempre della Marvel. E anche questo terzo capitolo, sebbene sia dal punto di vista visivo nettamente superiore ai primi due, risulta essere sotto tono sul piano narrativo rispetto alla maggior parte degli altri film appartenenti al MCU. Tuttavia è innegabile ormai constatare che i Marvel Studios sono sinonimo di garanzia di ottimo intrattenimento, e anche qui con Thor: Ragnarok, film del 2017 diretto da Taika Waititi, seppur la trama (dove la mitologia nordica si ammanta di scanzonata space opera mantenendo alla base la struttura classica del peplum, da Spartacus a Il Gladiatore, la saga archetipica del legittimo erede al trono ridotto in schiavitù, esiliato dalla madrepatria e costretto a combattere nell'arena mentre l'usurpatore governa con pugno di ferro), oltre ad essere alquanto banale e per alcuni aspetti superficiale, non aggiunga niente di nuovo all'interno dal panorama supereroistico, in particolar modo in quello Marvel (giacché il suo sviluppo risulta ormai quasi canonico e quindi anche prevedibile), l'obbiettivo è raggiunto. Anche se, per quanto il film riesca ad intrattenere e divertire non poco, grazie agli incredibili effetti speciali e alla grande componente artistica che contraddistingue un minimo questo Thor: Ragnarok, manca quella profondità e genialità in più che la Marvel era sempre riuscita a trovare, perché dopo che la controparte DC ha saputo mostrare i muscoli con Wonder Woman, questa mancanza di idee rischia di far sembrare il loro film fin troppo simili l'uno dall'altro e per questo abbastanza dimenticabili se presi singolarmente, e ciò lo dico da grande fan, della suddetta casa produttrice, che negli ultimi loro film ha notato un po' di pigrizia da parte loro di realizzare qualcosa di nuovo e veramente emozionante. Tant'è che qui si va ad imitare, per alcuni aspetti, un precedente loro successo, ovvero Guardiani della Galassia, impossibile infatti non notare la grande somiglianza tra i due film, soprattutto per la nostalgia influenza degli anni '80, qui sottoforma di colori accesi e tipici di quegli anni, inoltre sono presenti anche vari riferimenti ad essi. Però se in GOTG questa influenza è giustificata e contestualizzata è per questo più che godibile, in questo caso è praticamente infondata e quindi, a parere mio un po' fuori luogo.

Vi presento Toni Erdmann (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 17/07/2018 Qui - Spesso tendiamo a prendere troppo sul serio la nostra vita, perdendo di vista il lato più bello dell'esistenza: il bisogno di emozioni, leggerezza, di prendersi del tempo per pensare a se stessi e reinventarsi per trovare quella sensazione di cui tutti sono in cerca, la felicità. Come ad esempio emerge dal complicato ma tenero rapporto di una giovane donna manager, dedita solo al successo e alla carriera, con l'eccentrico padre in Vi presento Toni Erdmann (Toni Erdmann), film del 2016 diretto da Maren Ade. Quest'ultimo infatti fa di tutto per farle tornare il senso dell'umorismo e la leggerezza della vita, e recuperare altresì il tempo perduto nel legame affettivo con la figlia. Come? Giocandosi l'unica carta che gli rimane a disposizione, lo sberleffo, impersonando e quindi assumendo l'identità del proprio alter ego Toni Erdmann. Peccato che il finale lasciato alla libera interpretazione, non spiega se padre e figlia abbiano finalmente allacciato un rapporto oppure no. Peccato anche che, il messaggio simpatico e carino del bisogno di prendersi meno sul serio rinunciando talvolta al conformismo, non porti da nessuna parte. Peccato altresì che il film, disseminato di scene dell'assurdo alquanto inutili e sconclusionate, non riesca a coinvolgere appieno nell'intento critico alla disumanizzazione dei rapporti di lavoro all'interno delle multinazionali. Peccato soprattutto che il grottesco padre non sia mai divertente ma solo inutilmente imbarazzante. Non dimenticando che il film, proprio ridere o sorridere tanto non fa e forse non vorrebbe, perché il suddetto, è tutto fumo e niente arrosto. Si ride, è vero, ma le situazioni che lasciano spazio alla comicità sono parecchio diluite all'interno delle due ore e mezza del film, il quale alla fine risulta maggiormente incentrato sugli sguardi e sul non detto. Ma questo accade perché dopotutto non vi è molto da dire: l'ambiente di lavoro di Ines, dedito al maschilismo e alla freddezza dei rapporti umani, non viene mai realmente approfondito, come del resto era nelle intenzioni della stessa regista. Regista che avrebbe forse dovuto girare una pellicola drammatica, perché l'intento del regista di dare largo spazio anche alla commedia, non sempre funziona come previsto, ed è parecchio deludente.

Split (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 16/07/2018 Qui - Dopo The Visit, con il quale aveva impressionato milioni di telespettatori, compreso me, lasciandogli però l'amaro in bocca sul finale (amaro che tornerà prepotentemente anche qui), M. Night Shyamalan, torna a raccontare una storia dai tratti inquietanti, soffermandosi questa volta sul lato psicologico dei personaggi più che sulla vicenda in sé. Spesso, infatti, alcune scelte sono dettate da fatti precedenti, accaduti nel proprio passato, che difficilmente si dimenticano. Ed è anche su questo tema che il regista gioca in Split, film del 2016 diretto dal regista di origini indiane, la vita ci pone davanti a delle situazione che segnano nel profondo l'animo di chi le vive, portando a volte a cambiamenti radicali o a malattie psicologiche che prendono il sopravvento. Non a caso il film, affronta il tema della personalità multipla, un evergreen del genere horror-thriller, matrice di spunti e idee per racconti suggestivi. Così Shyamalan dà vita a un maniaco che rapisce e imprigiona in uno scantinato tre ragazzine: Claire, Marcia e Casey. Le giovani si accorgeranno presto di combattere non uno, bensì 23 rapitori differenti, racchiusi in un unico individuo. Il suo nome è Kevin "Wendell" Crumb ma in lui si dimena un intero condominio di categorie umane: dallo stilista omosessuale Barry, al timido ma educato Dennis, al bambino capriccioso Hedwig, fino alla signora Patricia. Tutti interpretati virtuosamente da James McAvoy, che riesce in scioltezza a coordinare una molteplicità di posture e atteggiamenti. Nel mucchio però, serpeggia una pericolosa 24esima personalità, che gode di un appellativo poco rassicurante: "La Bestia". Riusciranno le ragazze a uscire vive dalla cattività? Mentre la polizia brancola nel buio, la loro unica speranza è riposta in un'anziana psicanalista dalla quale Kevin è in cura e che comincia a temere per gli atteggiamenti del paziente. Ma quando se ne accorge che qualcosa non va, è troppo tardi, e la lotta per non finire nelle sue grinfie diverrà sempre più pericolosa e complicata.

Madre! (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 13/07/2018 Qui - Com'è difficile parlare di questo film, francamente sono spiazzato, su di un piano emotivo l'ho trovato molto disturbante, non vedevo l'ora che finisse, su di un piano più cerebrale, si può giudicare come un'opera molto ambiziosa, che guarda molto in alto, anche se proprio quest'aspirazione, non sembra corrispondere al risultato ottenuto, un risultato tuttavia discreto. Di certo è innegabile che dopo aver assistito a Madre!, film drammatico, horror grottesco o thriller non si sa del 2017, si può tranquillamente affermare che quella concepita da Darren Aronofsky è un'opera come se ne vedono poche (un'opera incredibilmente sopra le righe che non assomiglia a niente altro), che non assomiglia a nulla di quanto realizzato dal regista in precedenza e che probabilmente lo stesso non sarà più in grado di replicare. Darren Aronofsky infatti, che dopo alcuni film tutto sommato quasi convenzionali, regista già affermatissimo e autore di pellicole importanti caratterizzate da un'insolita e caratteristica vena visionaria, che qui non rinuncia allo stile che lo ha reso celebre per questa sua ultima fatica, anzi, Mother! spinge la sua ricerca espressiva ancora più in là (forse questa volta a scapito della narrazione, che soffre di un'eccessiva frammentarietà e ridondanza), si rituffa in un film (un'opera interessantissima, di evidente impostazione psicanalitica arricchita da elementi horror, cui peraltro non manca neanche un sottile, e malato, sense of humour e su cui aleggia un'atmosfera da teatro dell'assurdo) aberrante e stravagante. Perché anche se egli ci aveva già abituati all'esplorazione delle paure e dei desideri inconfessabili che si insinuano nell'animo umano grazie a pellicole come Requiem for a Dream e Il Cigno Nero, con Madre! il regista amplifica la rappresentazione del malessere del singolo individuo e la estende a personalissimo e visionario intreccio di inquietudini e paranoie sul destino del mondo e dell'umanità. Il risultato è quindi un quadro scioccante, a tratti indecifrabile e disturbante, parrebbe sulla follia del nostro tempo, sull'insostenibilità della nostra condizione di esseri umani schiacciati dalle prospettive che gravano sul pianeta e dalle aspettative di chi ruota attorno a noi, e forse anche sulla forza dirompente dell'amore, quello che ci rende vulnerabili, quello che ci terrorizza a morte, ma è difficile capirlo con esattezza.

The Devil's Candy (2015)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 11/07/2018 Qui - Ho letto in giro commenti e giudizi entusiasti, ma dopo aver visto The Devil's Candy, film del 2015 scritto e diretto da Sean Byrne, la mia impressione è che si tratti di un film, un horror, sicuramente sufficiente, minimamente innovativo ma parecchio deludente per come era stato presentato. Ovvero una grandissima pellicola, una piccola rivoluzione, una delle più belle sorprese dello scorso anno, invece, seppur questo The devil's candy è sicuramente un opera godibilissima e parecchio interessante, un ibrido assai preciso tra suggestioni culturali "alte" e "basse", un ibrido di due sottogeneri dell'horror, lo slasher con il pazzo assassino che uccide e squarta vittime e che perseguita una famiglia e il film di possessioni demoniache, dove a perseguitare una famiglia è il demonio, esso è però un'opera confusa e per niente spaventosa, con un finale anche troppo benevole. Perché certo, è realizzato con una certa cura (con uno stile pulito, rigoroso ed essenziale, fotografia e montaggio di livello) e Sean Byrne (alla sua seconda prova da regista dopo The Loved Ones, film che tuttavia non ho visto) non manca di estro visivo alla regia, una marcia in più è sicuramente data dalla colonna sonora metal (sempre che piaccia, e a me sinceramente non tanto) che unita all'arte dark presente nel film lo rende un prodotto che vive di luce propria nonostante soggetto e sceneggiatura siano derivativi da molti thriller-horror, perché certo, c'è tensione, c'è atmosfera e ci sono delle buone prove attoriali, il panico della famiglia, specie della figlia, traspira sino allo spettatore e Pruitt Taylor Vince come villain fa la sua figura, vi è una certa crudeltà, anche se alla fine visivamente non si mostra chissà quanta violenza, ma purtroppo la sceneggiatura è un poco superficiale o forse criptica per quanto riguarda certi argomenti (e penso alla società d'arte per cui lavora il protagonista) ed il finale banale oltre che "caciarone" per quanto concerne la sequenza dell'incendio.

20th Century Women (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 09/07/2018 Qui - Partiamo subito con un appunto importante, il titolo inglese era probabilmente più adeguato e sicuramente più originale (non a caso è quello che ho preferito mettere) di quello scelto dalla distribuzione italiana, ovvero Le donne della mia vita, giacché il film 20th Century Women, film del 2016 scritto e diretto da Mike Mills, seppur è un racconto di formazione adolescenziale (dove le "sue" donne forti e indipendenti lo aiuteranno a crescere in una delle fasi più difficili dell'essere umano ma anche il racconto di una madre e di un figlio, del cambiamento che sta alla base della giovinezza), è soprattutto il racconto di tre donne, di tre età diverse, di tre concezioni della femminilità e dell'essere donna negli anni settanta, un periodo di forti cambiamenti. Un racconto in tal senso però innocuo (senza moralismi), semplice (il film infatti non ha una vera trama, che è come dire la vita stessa) e alquanto originale (insolito e interessante è il modo di raccontare). Giacché questo film di formazione di un quindicenne con madre single di 55 anni che ritiene utile coinvolgere nella sua crescita e maturazioni alcuni personaggi conviventi nella sua casa, tutti ben tratteggiati anche nella loro storia personale e rapportati al periodo storico (a cavallo tra gli anni '70 e '80, che delinea l'inizio di un cambiamento sociologico molto forte che si otterrà solo negli anni '80), è presentato in un modo piuttosto lontano dagli schemi tradizionali di oggi, ricordando in tal senso il periodo, colorato e bizzarro, degli anni '70. La pellicola infatti, una storia nostalgica, ma senza piagnistei, anzi piena di brio, di una singolare maternità, di una famiglia allargata ante litteram, e quindi essenzialmente di una lunga serie di scene aneddotiche, dove il regista mostra le passioni e paure semi sepolte di questi personaggi interessanti (e interpretati egregiamente), che hanno una vita e un passato profondo e complicato, di cui veniamo man mano a conoscenza, che altresì ci porta all'interno di un mondo affascinante e profondo, dove varie storie si intrecciano in una grande casa americana, cela spesso (e sorprendentemente) un sottile senso dell'umorismo che rende tutto molto divertente.

mercoledì 29 maggio 2019

Bleed - Più forte del destino (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 06/07/2018 Qui - È curioso come il cinema sportivo sia quasi esclusivamente rappresentato da storie che raccontano il mondo della boxe. Dopo il successo mondiale del capolavoro Rocky (1976), hanno cominciato a proliferare film incentrati sul mondo della pugilistica e ispirati a storie più o meno vere. Da Toro Scatenato (1980) ad Alì (2001), Million Dollar Baby (2004) e Hurricane (1999), fino ad arrivare ai più recenti The Fighter (2010) e Southpaw: L'ultima sfida (2015), non dimenticando Creed: Nato per combattere, sempre nel 2015, tutti film che raccontano la boxe come metafora della vita e della difficoltà di farsi strada in un mondo competitivo e incentrato sul mito dell'immagine. Un filone fiorente e appassionate a cui ora (personalmente s'intende), si aggiunge Bleed: Più forte del destino, film del 2016 diretto da Ben Younger, regista di 1 km da Wall Strett, e prodotto da Martin Scorsese. Un film per questo, l'ennesima storia di caduta e resurrezione, tipica della boxe, "nobile arte" e sport appunto più cinematografico di sempre, che ha forse la "colpa" di arrivare da buon ultimo in questo sterminato (ho citato solo una parte dei film che formano un vero e proprio sottogenere) elenco, racconta infatti eventi che, sia per il fatto di essere tratti da una storia vera sia per il fatto di seguire uno "schema prestabilito" (che rientra nei canoni di tali film), si intuiscono subito dove vanno a parare, ma colpisce per il realismo, adottato dal regista, con cui vengono narrati gli incontri di boxe, dove per fortuna sono evitati gli eccessi, mostrando invece lo sport per quello che è. Uno sport di uomini duri ma soprattutto tenaci, come il protagonista, un uomo caparbio e deciso, che ha letteralmente cambiato il corso della propria vita, quasi come un eroe, anche se nella vita reale, costui Vinny Paz, non è stato un eroe, anzi si è presentato agli onori della cronaca anche per alcuni deplorevoli episodi di violenza domestica. Il film però non guarda all'aspetto negativo di Paz, pur non esaltandolo mai nemmeno come un eroe. Paz è un uomo e come tale dimostra pregi e difetti, ma un qualche cosa di eroico la possiede: quella grande forza di volontà, mista anche una dose di sana incoscienza, che l'ha reso un esempio per chi, come lui, potrebbe veder sfumare in un attimo i propri sogni e le ambizioni. E Bleed: Più forte del destino, che dedica alla sua rinascita il racconto di quello che è considerato uno dei più incredibili ritorni nella storia dello sport, comunica con efficacia questo concetto.

A United Kingdom: L'amore che ha cambiato la storia (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 04/07/2018 Qui - I politici sono pedine e la politica e il gioco che li muove in giochi di potere che si intrecciano con altre derive come lo sfruttamento del territorio e leggi razziali che tendono a dividere e annullare la democrazia. Tutti sono manovrabili, tutti hanno un prezzo. Fortunatamente ci sono persone che si ribellano a queste ingiustizie e lottano, non senza aspre conseguenze, per la libertà, l'uguaglianza e il rispetto dei popoli. E A United Kingdom: L'amore che ha cambiato la storia (A United Kingdom), film del 2016 diretto da Amma Asante, racconta la (reale e molto interessante) storia di una di queste persone che hanno lottato, e vinto, per i propri diritti e quelli di una intera nazione. E' infatti una storia vera (dopotutto il carattere biografico è molto riconoscibile nel corso del film che ci mostra una serie di avvenimenti che si estendono su un periodo di alcuni anni) quella che la regista mette in scena, raccontando le vicende di Seretse Khama (che non solo diventerà re, ma che sarà anche il primo presidente eletto del Botswana) e di sua moglie Ruth, che al marito e alla popolazione africana consacrerà la sua vita intera. Non a caso il film intreccia vicende politiche a questioni sentimentali, in una cornice forse troppo melò e patinata che rischia di lasciare perplesso lo spettatore (giacché è proprio l'immagine a disturbare l'armonia d'insieme e a prevalere troppo, creando un'allure sofisticata che non era necessaria, perché la storia era già molto importante, forte e ben diretta di suo), spettatore che tuttavia si ritroverà coinvolto in una vicenda appassionante, perché non solo essa tocca argomenti e tematiche sociali di grande impatto, ovvero il razzismo e il colonialismo, ma perché appunto il tema e il cuore della storia (se non ci si fa travolgere dal sentimentalismo in verità un po' troppo strappalacrime) hanno comunque il loro fascino. Una vicenda che in tal senso, può ricordare per certi versi The Help, dove persone dalla pelle bianca e persone dalla pelle nere s'incontrano (si scontrano anche), si confrontano e avviano il percorso verso un cambiamento. D'altronde è il cambiamento a spingere questa coppia interrazziale a non farsi sopraffare dai pregiudizi sociali e politici.

Knight of Cups (2015)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 03/07/2018 Qui - Ho apprezzato, seppur non tantissimo, Terrence Malick nei suoi quattro film prima del suddetto, ma questo Knight of Cups, film del 2015 scritto e diretto dal regista statunitense, l'ho trovato molto difficile da portare a termine. Egli punta sempre in alto, e il più delle volte ci riesce bene e con discreti risultati, ma stavolta gli è sfuggita di mano la situazione. La linea è quella di The Tree of Life e To the Wonder, ma portata all'estremo in una sfida allo spettatore in cui la bellezza di certe immagini della natura solo a tratti compensa la fatica di aderire a un percorso esistenziale enigmatico, dove la voice over commenta ma non chiarisce. Se infatti in To the Wonder, il viaggio tormentato nei meandri della psiche del protagonista Ben Affleck, risultava tutto sommato efficace e abbastanza convincente, qui finisce per essere una stancante sequela di sequenze quasi tutte uguali in cui l'originalità e il fascino del mistero delle pellicole di Malick lasciano spazio ad una spiacevole sensazione di noia e di già visto/percepito. Se infatti in The Tree of Life, la ricostruzione di una vicenda umana si incastrava alla perfezione con quel flusso stordente visivo capace di evocare il conflitto tra umanesimo e spiritualità, qui questo raccordo appare molto più sfilacciato, talvolta pretestuoso, e la voce over ostentata e solenne che predica lungo tutto il film crea un maggiore distacco verso l'immagine che non una riflessione di completamento. Tanto che, peggio che in altre occasioni, la parte più difficile diventa tentare di estrapolare una trama comprensibile ai più. Nel film difatti, si susseguono confusamente le relazioni più o meno durature del protagonista, i personaggi entrano ed escono dalla scena secondo una logica non sempre comprensibile e di tanto in tanto il flusso di parole e immagini è illuminato sì da momenti di sfolgorante bellezza, ma di cui si fa fatica a capirne il senso. Tra la sinossi del film e il suo effettivo risultato c'è infatti una discrepanza enorme, perché impegnato com'è a raccontarci ancora una volta di un maschio bianco in crisi esistenziale che cerca la terra promessa nelle proprie amanti senza trovare risposta, Malick conversa più con se stesso che con lo spettatore.

Power Rangers (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 02/07/2018 Qui - Ci tengo fin da subito a precisare che faccio parte di quella categoria di persone che da bambino era leggermente fissato con i Power Rangers essendo io un 1985, la primissima serie dedicata a loro, quella che è durata dal 1993 al 1995, quelle nuove uscite successivamente non le ho mai viste se non a sprazzi, ormai ero un po' troppo grandicello. Dunque è questa un'altra semplice e misera operazione nostalgia? Sì, ma non del tutto, non solo perché chi non ha mai sentito parlare di questi supereroi grazie a questo film li amerà, soprattutto grazie ai ragazzi protagonisti, simpatici e stravaganti, interpretati da attori poco conosciuti ma decisamente funzionali, ma perché chi appunto li ha visti, sarà forse rimasto come me piacevolmente sorpreso da un riadattamento "reboot" davvero piacevole nel contenuto e nella forma. Perché certo, ci si aspettava in tal senso una pellicola trash (non dimentichiamoci com'era la serie tv), e invece no, non del tutto almeno. Perché questo Power Rangers, film del 2017 diretto da Dean Israelite, si rivela essere un film fedele al materiale originale (mantenendone tuttavia lo spirito trash e volutamente sopra le righe) ma riuscendo comunque nell'impresa di essere più profondo del previsto, prendendosi il più possibile sul serio, pur lasciando spazio ad una velata ironia che è tipica di certe produzioni. Il film del regista sudafricano infatti, restando fedele al suo target di riferimento e a quello contemporaneo, offre una rilettura onesta e godibile della celebre serie tv, con l'occhio rivolto all'adolescenza. Egli difatti confeziona un film perfetto per i teenager ricco di effetti speciali, riflessioni sull'adolescenza e qualche momento horror. Via quindi quelle atmosfere fantastiche e cartoonesche che caratterizzavano il serial (la vena scanzonata a cui eravamo abituati non c'è più), per far posto ad un approccio più concreto e realistico che il cinema di oggi, e di un certo tipo, predilige. Un approccio, nonostante la trama ricalchi grossomodo le orme della serie tv, completamente nuovo.

Father and son (2013)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 29/06/2018 Qui - Melodramma psicologico dai ritmi lenti ma che costringe lo spettatore alla massima attenzione poiché avvince come un thriller tenendoti sul filo del rasoio fino ai titoli di coda, questo è Father and son (Like Father, like Son), film del 2013 scritto e diretto da Hirokazu Kore'eda. Il regista giapponese infatti, mette sul grande schermo una storia familiare intima e delicata, un film per questo toccante, delicato e drammatico che spinge il pubblico ad una riflessione seppur tutto sommato semplice ma profonda. Difatti questa pellicola affronta in maniera dettagliata e profonda il delicato e serio problema della paternità (facendo scaturire in tal senso svariate riflessioni): se questa cioè sia determinata dai legami del sangue oppure da quelli affettivi che si consolidano via via nel tempo tra i vari componenti di una famiglia. Non a caso il film, che racconta di una coppia felicemente sposata e benestante, genitori di un bambino di 6 anni che alle soglie della scuola che conta (corrispettivo italiano delle elementari ovvero scuola primaria) riceve la sconvolgente notizia dall'Ospedale che il figlio è stato scambiato alla nascita (e al contrario del film Il 7 e l'8 da ridere non c'è niente), ci pone di fronte a sconvolgenti ed angoscianti dilemmi, infatti entrambe le coppie a cui è stato sostituito il proprio figlio biologico con quello dell'altra, sono confuse, sconvolte e contrarie all'idea di lasciare e soprattutto sostituire, come se fossero dei semplici oggetti, il figlio creduto loro ed allevato come tale con quello naturale. Insomma, la difficoltà presentata in maniera misurata in questo film è proprio la lotta interna dei sentimenti che non cancella affatto l'affetto e l'amore e la complicità sviluppatesi nel corso degli anni di crescita insieme al figlio allevato come proprio ed il sorgere nel frattempo di sentimenti nuovi nei confronti del bambino biologicamente proprio. E quindi in quasi due ore di analisi psicologica, come la durata dell'intera pellicola, conosceremo le reazioni dei vari personaggi, adulti o meno, che tuttavia non eccedono mai in isterismi come immagino sarebbe accaduto se la vicenda avesse riguardato una famiglia italiana.

La luce sugli oceani (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 29/06/2018 Qui - Il regista Derek Cianfrance non è estraneo al racconto del sentimento, del dolore e della perdita: Blue Valentine, il suo primo lungometraggio, era il racconto di un amore e della sua fine, narrato attraverso un complesso incrocio di piani temporali, mentre Come un tuono era la storia di due padri e due figli, divisi dalla legge e dalla violenza. Per questo suo terzo film adatta il romanzo di M.L. Stedman di qualche anno fa e si immerge in una cornice temporale remota, quella dell'Australia del primo dopoguerra mondiale. Infatti La luce sugli oceani (The Light Between Oceans), film del 2016 scritto e diretto dal regista, sceneggiatore, direttore della fotografia e montatore statunitense, un film indiscutibilmente raffinato, delicato e poetico che racconta di un guardiano del faro e della moglie (interpretati da una coppia altresì "reale" Michael Fassbender e Alicia Vikander) che si ritrovano di fronte a un dilemma morale quando salvano da una barca alla deriva una bambina di pochi mesi, e che decidendo di crescere la piccola come figlia loro, vivranno sulla loro pelle le conseguenze devastanti della scelta, è un film intimista e doloroso. Un film umano insomma, dopotutto Derek Cianfrance è un umanista, e lo è sempre stato. Un umanista estremo, per certi versi, capace di raccontare storie universali attraverso l'individualità, e sempre con tocco autoriale: lo aveva fatto anche in precedenza (e sempre con buoni risultati) e l'ha fatto anche qui, anche se seppur La luce sugli oceani è un'opera complessa sia dal punto di vista emotivo sia tecnico, alcune scelte di regia sono alquanto discutibili. Tanto che il risultato finale di quest'opera cinematografica lascia un amaro e disatteso senso di incompiutezza, come se mancasse sempre qualcosa benché abbia di tutto al suo interno, compresi degli attori di calibro indiscusso e una meravigliosa fotografia naturale, con sequenze suggestive e incantevoli dell'oceano, della brughiera, della natura selvaggia dell'isola australe dov'è ambientato. Sfortunatamente però il soggetto, talmente ricco di spunti di riflessione e argomenti da trattare (dopotutto molti sono i temi trattati nella pellicola, a partire dal dolore per la perdita di un figlio provato da lei per poi arrivare al senso di colpa che diventa sempre più ingombrante nella vita di lui), viene mal gestito e sviluppato, facendo in modo che il tutto resti abbastanza superficiale.

La ragazza del mondo (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 29/06/2018 Qui - L'esordio alla regia di Marco Danieli porta con sé un interessante, bello ed alquanto originale dramma romantico, La ragazza del mondo, film del 2016 diretto dal regista di Tivoli che, grazie a questa pellicola ha vinto il David di Donatello per il miglior regista esordiente. Il film infatti, che non è solo la classica storia d'amore di due giovani "disadattati", che non è un film sul fanatismo religioso (con accenti di forte critica), racconta di una (intensa) crescita (di una giovane ragazza ingabbiata dalle rigide, ferree ed ambigue regole dei figli di Geova) che si concretizza nella conquista della libertà, percorso faticoso e necessario per chi non vuole rinunciare alla propria identità (e all'amore). Non a caso La Ragazza del Mondo non si limita a raccontare una pura e semplice relazione sentimentale travagliata ed ostacolata, ma in particolar modo quanto certi "gruppi" o congregazioni nella società, quale possa essere appunto la comunità dei Testimoni i Geova, condizionino in maniera preponderante ed assurda chi ne fa parte. Ma in questo caso particolare il regista (che non esprime alcun giudizio, lo fa lo spettatore, assistendo a situazioni, meticolosamente descritte, che non possono tuttavia non provocare ripugnanza), più che esprimere una condanna diretta ai Testimoni di Geova, condanna in generale (e descritto registicamente quanto mai egregiamente e chiaramente) un forte e quanto mai castrante condizionamento, nonché addirittura accecamento, da parte di certe dottrine o "sette", dopotutto Geova è solo uno dei possibili despoti, così come lo è la famiglia, così come lo diventa il ragazzo problematico di cui la ragazza si innamora. E la giovane protagonista viene, infatti, presentata come fortemente condizionata e giudicata, per non dire addirittura ostacolata, nel suo modo di pensare ed agire come individuo libero, dalle ferree regole a capo dell'intero assetto religioso di cui fa parte che sempre di più la allontanano dalla realtà quotidiana e dal contatto diretto col mondo esterno, sebbene questo in netta contrapposizione ed addirittura, per il suo ragazzo, "border line".