mercoledì 29 maggio 2019

Bleed - Più forte del destino (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 06/07/2018 Qui - È curioso come il cinema sportivo sia quasi esclusivamente rappresentato da storie che raccontano il mondo della boxe. Dopo il successo mondiale del capolavoro Rocky (1976), hanno cominciato a proliferare film incentrati sul mondo della pugilistica e ispirati a storie più o meno vere. Da Toro Scatenato (1980) ad Alì (2001), Million Dollar Baby (2004) e Hurricane (1999), fino ad arrivare ai più recenti The Fighter (2010) e Southpaw: L'ultima sfida (2015), non dimenticando Creed: Nato per combattere, sempre nel 2015, tutti film che raccontano la boxe come metafora della vita e della difficoltà di farsi strada in un mondo competitivo e incentrato sul mito dell'immagine. Un filone fiorente e appassionate a cui ora (personalmente s'intende), si aggiunge Bleed: Più forte del destino, film del 2016 diretto da Ben Younger, regista di 1 km da Wall Strett, e prodotto da Martin Scorsese. Un film per questo, l'ennesima storia di caduta e resurrezione, tipica della boxe, "nobile arte" e sport appunto più cinematografico di sempre, che ha forse la "colpa" di arrivare da buon ultimo in questo sterminato (ho citato solo una parte dei film che formano un vero e proprio sottogenere) elenco, racconta infatti eventi che, sia per il fatto di essere tratti da una storia vera sia per il fatto di seguire uno "schema prestabilito" (che rientra nei canoni di tali film), si intuiscono subito dove vanno a parare, ma colpisce per il realismo, adottato dal regista, con cui vengono narrati gli incontri di boxe, dove per fortuna sono evitati gli eccessi, mostrando invece lo sport per quello che è. Uno sport di uomini duri ma soprattutto tenaci, come il protagonista, un uomo caparbio e deciso, che ha letteralmente cambiato il corso della propria vita, quasi come un eroe, anche se nella vita reale, costui Vinny Paz, non è stato un eroe, anzi si è presentato agli onori della cronaca anche per alcuni deplorevoli episodi di violenza domestica. Il film però non guarda all'aspetto negativo di Paz, pur non esaltandolo mai nemmeno come un eroe. Paz è un uomo e come tale dimostra pregi e difetti, ma un qualche cosa di eroico la possiede: quella grande forza di volontà, mista anche una dose di sana incoscienza, che l'ha reso un esempio per chi, come lui, potrebbe veder sfumare in un attimo i propri sogni e le ambizioni. E Bleed: Più forte del destino, che dedica alla sua rinascita il racconto di quello che è considerato uno dei più incredibili ritorni nella storia dello sport, comunica con efficacia questo concetto.
Il film infatti, racconta della più grande sfida vinta da Vincenzo Edward Pazienza, pugile di origini italoamericane, che non è stata vinta sul ring, ma in un letto d'ospedale dove, nonostante il collo rotto, ha deciso di non arrendersi e di sfidare il verdetto sentenziato dai medici, ovvero di non poter mai più combattere e, forse, di poter a malapena camminare. Siamo a cavallo fra gli anni '80 e i '90: Vinny Paz è un giovane pugile, dotato ma poco disciplinato e molto arrogante. Dopo aver perso un importante incontro per il titolo, il suo manager lo costringe a ritirarsi, perché convinto che il ragazzo non sfonderà mai per colpa del suo carattere. Viste le insistenti richieste di Vinny e di suo padre, però, lo manda ad allenarsi da Kevin Rooney, il quale in passato aveva lavorato con Mike Tyson. Rooney convince Vinny a salire di categorie e la cosa si rivela vincente, quando il pugile vince il titolo di Campione del Mondo dei Pesi Super Leggeri. Purtroppo, dopo pochissimo tempo Vinny rimane coinvolto in un incidente automobilistico, che gli causerà la rottura del collo. I referti medici sono pessimi, le speranze di camminare minime, quelle di tornare sul ring praticamente nulle. E da questo momento la volontà dell'uomo prenderà il sopravvento sul destino, perché il Diavolo Pazmaniano (il suo nome da combattente) non è ancora pronto a gettare la spugna. Così, con un grosso collare metallico a sostenergli la testa e quattro viti d'acciaio conficcate nel cranio, inizia ad allenarsi per riprendersi quanto gli spetta e incredibilmente ci riuscirà. Bleed: Più forte del destino è quindi una splendida storia di riscatto umano e sociale che se da un lato presenta le classiche caratteristiche del format della pellicola sportiva, dall'altra rinuncia ad alcuni dei cliché del genere, quali ad esempio l'utilizzo di una colonna sonora incalzante, e nonostante ciò riesce ad appassionare lo spettatore ad una vicenda umana e sportiva straordinaria. Giacché nonostante sia una storia realmente avvenuta e si possa già sapere come andrà a finire, essa rapisce grazie alla tenacia del protagonista e alle sensazioni del dolore provato, sia nel periodo di recupero dopo l'incidente, sia sul ring. Una pellicola per questo bella, che è in grado anche di essere letta a molti livelli compreso quello della giustizia sociale.
Dopotutto c'è poco da fare, la boxe sa effettivamente raccontare le storie meglio di qualsiasi altro sport e sa renderle appassionanti perché combattere sul ring è innanzitutto una sfida contro sé stessi e le convenzioni che la società ci impone. Vinny Paz l'ha capito bene e, malgrado i dottori e tutte le persone che lo circondavano gli ripetessero di continuo che non avrebbe mai più potuto combattere, lui ha continuato imperterrito verso la sua strada, riuscendo a superare quell'ostacolo che era rappresentato dai preconcetti degli altri. Il film punta molto su questo aspetto, la stessa voce narrante di Paz lo sottolinea nella bellissima chiusura del film, dimostrando come qualsiasi cosa può essere impossibile se si smette di combattere. E insomma, quello che poteva essere il solito film sulla boxe, e che a un primo sguardo in effetti sembrerebbe, si rivela in realtà un'opera molto più profonda e originale e l'idea vincente di Bleed risiede proprio la marginalità con cui affronta il ring per concentrarsi sulla convalescenza del protagonista. Viviamo la debolezza di chi, al contrario, dovrebbe essere l'emblema della forza, un ragazzo che comunque non si lascia mai abbattere, caparbio e positivo in qualsiasi circostanza. A dargli corpo, con un atteggiamento sfacciato e goliardico ma allo stesso tempo da vero combattente, è il bravissimo Miles Teller (trasformato fisicamente, l'attore infatti si sarà allenato senza riposo pur di rendere al meglio il fisico e le tecniche di un vero pugile, e qui probabilmente alla sua prima prova matura), che non dimenticheremo mai in Whiplash e che si sta dimostrando uno dei migliori professionisti della sua generazione (segnando un nuovo punto di svolta nella sua carriera da sempre caratterizzata principalmente da pellicole di sicuro appiglio commerciale ma di spessore nettamente inferiore, Divergent per esempio), qui spalleggiato da un Aaron Eckhart stempiato ed irriconoscibile pronto a dargli forza, supportando la sua titanica impresa di risalire sul ring. Proprio quest'ultimo, che rinuncia alla mise di belloccio hollywoodiano per indossare quelle del "classico" allenatore disilluso che trova nell'atleta sull'orlo del baratro la sua ennesima ragione per continuare a vivere, dimostra (nonostante il mediocre Incarnate) di essere un attore, certamente sottovalutato (nonostante il suo curriculum), ma di tutto rispetto.
Entrambi tuttavia, sono ben spalleggiati dai genitori di Vinny. I genitori infatti sono interpretati da Ciaràn Hinds (il capo degli uomini liberi oltre la Barriera, Mance Rider della serie tv Game of Thrones), ovvero Angelo, padre-manager e uomo a dir poco stravagante e conosciuto da tutti in città, e da Katey Sagal, la religiosissima mamma che non riesce neanche a guardare il figlio mentre combatte in tv. Anche se in verità, quello che convince meno, è proprio tutta la parte relativa agli affetti famigliari, con rapporti con i genitori e sorelle di origine italiana, sviscerati seguendo una sequela di luoghi comuni, come anticipato prima, con un padre e una madre molto apprensivi com'è nella tradizione, un nugolo di sorelle casiniste e litigiose, mentre è più interessante e vero il rapporto, segnato da alti e bassi, tra il pugile e il suo allenatore ed infine un po' tirato via il tema altrettanto classico degli organizzatori degli incontri, i manager (nello specifico il celebre, per chi segue la boxe, Lou Douva, interpretato da Ted Levine, il serial killer de Il silenzio degli innocenti) dei pugili, visti "stranamente" come delle sanguisughe sfruttatrici dei boxeur. Al contrario perfetta è la scenografia, giacché Bleed: Più forte del destino ci riporta in maniera perfetta agli anni '90 (d'altronde il film è prodotto da Martin Scorsese e senza dubbio si respira l'atmosfera un po' losca alla Quei Bravi Ragazzi) e ogni cosa è riprodotta con cura, fino ai piccoli dettagli: gli oggetti, gli abiti, il modo di fare televisione. Gli stessi protagonisti sono curati in maniera quasi maniacale e quando, durante i titoli di coda, vedrete i video originali dell'epoca, rimarrete stupiti dalla somiglianza, tanto da stentare a credere dell'autenticità degli stessi. In tal senso però non c'era da stupirsi, dopotutto Bleed non è, volutamente, un film epico ma mantiene un tono più basso, più umano. Descrive la vicenda di un pugile che solo gli appassionati di boxe ricordano e che non ha mai avuto grossi titoli a livello internazionale. Il suo mondo è quello della classe media circoscritto alla cronaca locale, con giusto qualche sprazzo più alto.
Ma è questo però quello che lo rende degno di una visione attenta e positiva perché alla fine sono proprio le storie minori, i personaggi di paese e le imprese che riempiono le pagine dei giornali locali che spesso offrono il miglior punto di vista sulle cose. Soprattutto quando si parla di successo, caduta e rinascita, lezioni di cui abbiamo sempre un po' bisogno e questo film ci aiuta a ricordarcene e farne tesoro. Perché è proprio questo a rendere Bleed: Più forte del destino interessante, il ritmo del racconto è asciutto, sempre venato di ironia e disincanto, non eccede nelle ridondanze o nella retorica (sebbene si percepisca in più di un punto l'affetto del film per il suo soggetto), non tenta di trovare una morale della favola a tutti i costi o di spiegare il suo protagonista. Vincent Pazienza viene semplicemente ritratto attraverso i vizi, le virtù, gli eccessi. Tutto nella vita di Vinny appare come un comprimario quasi scenografico nella corsa verso la vittoria: le donne, la famiglia, le motivazioni psicologiche. Solo il quadrato del ring è sempre messo a fuoco e centrale, per diventare subito sfocato e inafferrabile anch'esso, perché il gusto è essere lì e lasciarsi travolgere e inghiottire dalla foga adrenalinica, animalesca, del combattimento. Dal canto suo, Ben Younger (che torna a dirigere un lungometraggio undici anni dopo Prime) mostra una regia quadrata, slanciata per la prima metà abbondante, mentre a seguire ha il sopravvento la sensazione che abbia cercato di contenere il minutaggio, tagliando più velocemente, con periodi che in questo modo non mostrano un'uniformità soddisfacente, invece, rimangono convincenti le riprese sul ring, mani e piedi in alternanza di montaggio, il classico sangue sui volti, in rapida tumefazione. Certo, in verità per questo il film è da vedere più per gli amanti della boxe che del cinema in generale, dopotutto Bleed è un prodotto onesto che non possiede comunque il colpo del KO, ma la pellicola, tuttavia emozionante, anche se non offre sicuramente nulla di nuovo nel panorama dei film di genere, che si lascia guardare anche grazie al sostegno del buon cast, è davvero bella, appassionante e incredibile. Voto: 7