Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 15/06/2018 Qui - Sarò sincero, avevo il fucile puntato quando ho saputo del sequel di Blade Runner (d'altronde i sequel di certi capolavori come lo fu quello di Ridley Scott, non vengono visti di buon occhio). In seguito, alla notizia che Denis Villeneuve (soprattutto dopo aver, l'anno scorso, l'anno precedente e in questo, visto alcuni dei suoi straordinari lavori) avrebbe diretto il film, il dito sul grilletto si è allentato. Villeneuve è un regista con i fiocchi e la recente escursione fantascientifica di Arrival me lo ha confermato. Certamente mi sono detto, chi glielo fa fare ad impelagarsi in un film del genere, entrato nell'immaginario mitico della settima arte. Ha molto da perdere e poco da guadagnare. Una sfida coraggiosa piena di insidie e rischi, tuttavia ben ripagata (anche se sotto certi aspetti si poteva addirittura fare di meglio, e questo è veramente un peccato, vista la qualità generale e l'impegno profuso alla regia). Blade Runner 2049, film del 2017 diretto dal regista canadese classe '67, è infatti un valido e degno sequel dell'originale. Soprattutto perché la scelta di affidare appunto all'ottimo Denis Villeneuve la regia, che è stata sicuramente accorta da parte di Ridley Scott (che in questa operazione per fortuna si è ritagliato un ruolo da produttore, che da qualche tempo a questa parte sembra adattarsi meglio alle sue ambizioni, specialmente quando riesce a tenersi lontano dalla cinepresa, come visto nel deludente Alien: Covenant) si è rivelata azzeccata. Dopotutto lui è tra i registi migliori della sua generazione, è solo lui poteva garantire fedeltà (per quanto possibile) alla materia originale, e solo lui poteva al tempo stesso, con il suo sguardo originale e personale, non farsi schiacciare dal peso del confronto. Perché sì, con Blade Runner 2049, un bellissimo film, teso e pieno di spunti, egli regge, nonostante in verità non riesca a toccare quelle vette di visionarietà e di profondità esistenziale dell'originale (e dopotutto era impossibile per chiunque riuscirci), il confronto, non sfigurando quindi quasi per niente.
Poiché il regista (grazie anche al suo tocco, si vedono chiaramente infatti i suoi temi cari dei primissimi film, la nascita e l'infanzia) non solo riesce a realizzare una pellicola in grado di soddisfare tutte le esigenze dello spettatore, a partire dal livello emozionale e fino a raggiungere quello visivo, dove l'impatto con la straordinaria estetica è potente e non accenna ad attestarsi per tutta la durata del film (quindi inquadrature ed effetti speciali che non deludono affatto, ma anzi mostrano un gioco di luci, colori e suoni che difficilmente verrà dimenticato nell'immediato), ma, seppur ripartendo (non può fare altrimenti) dal Blade Runner del 1982 (dopotutto il film si svolge esattamente trent'anni dopo gli eventi del primo film, eventi che vedono al centro della trama l'agente K della Polizia di Los Angeles che, a caccia di vecchi replicanti e dopo la scoperta di un segreto pericoloso, finirà alla ricerca di Rick Deckard) egli non rimane invischiato (d'altronde fa piacere che a parte lo scontro finale un po' telefonato e risaputo il film non sia caduto nella trappola da blockbuster revivalista) dalle trappole nostalgiche o dall'eccessivo citazionismo. Blade Runner 2049 è infatti la naturale evoluzione dell'originale, evoluzione realistica, anche se può sembrare un termine paradossale, quando si parla di fantascienza. Perché seppur simile ma diverso dalla pellicola di Scott, la cui forza emozionale, profondità e carattere innovativo restano ineguagliabili e insuperabili, il film (che non tradisce le idee del film originale, giacché continua l'indagine sulla coscienza delle "macchine") si mostra organico, con una propria identità, ricco e potente (soprattutto a livello tecnico e visivo) e complementare al predecessore. Forse è stato un po' esagerato parlare di capolavoro, ma Blade Runner 2049, film davvero ambizioso, affascinante (visivamente perfetto, in alcuni punti rarefatto in modo quasi sperimentale, e con una forza scenica da pelle d'oca), attraversato com'è da una sottile, malinconica solitudine esistenziale, generata dalla consapevolezza dell'impossibilità di poter esprimere tutto ciò che si vorrebbe, a prescindere dai dettami della propria natura, umana o replicante che sia, un omaggio e una dichiarazione d'amore al capolavoro di Scott, perché del suo universo vi riprende l'essenza, anzi lo espande e lo approfondisce ulteriormente, è un film eccezionale.
Su questo però non c'erano dubbi, in fin dei conti Denis Villeneuve non ha mai sbagliato un film ed era difficile che compiesse un passo falso con Blade Runner 2049, il progetto più importante, ambizioso e costoso della sua carriera. E infatti il regista canadese, coadiuvato da un cast tecnico da paura (Hans Zimmer alle musiche, Roger Deakins alla fotografia, Dennis Gassner alle scenografie), ha messo in piedi una fantascienza dark e crepuscolare (e per fortuna, in questo suddetto caso, poco action e ancor meno fracassona) di grandissimo impatto visivo. Proprio perché Blade Runner 2049 è prima di tutto una gioia per gli occhi e non tanto per lo scontato corollario metropolitano piovoso, nebbioso, sporco e squallido, ma per la certosina attenzione agli interni, ai giochi di luce e ai riflessi, agli ologrammi, ai volti spesso lacrimevoli dei protagonisti, ai rimandi vintage (sempre ologrammi) e a un mondo che tra radiazioni, ciclopiche statue divorate dalla sabbia e discariche infinite (estremamente evocativi gli scenari), è un bignami di come dovrebbe vedersi oggi la fantascienza post-apocalittica. Nei suoi 148 minuti Blade Runner 2049 regala così all'appassionato un'abbondanza di motivi per riprendere il filo di un discorso che per trentacinque anni non si è mai davvero spezzato. L'insieme fornisce un quadro organico e convincente, ma nelle singole parti la sinergia tra script, montaggio, scene e regia riesce a regalare attimi da brividi. Proprio perché quella di Denis Villenueve è un'opera a tutto tondo, un concept audiovisivo. Come per il suo storico predecessore (dopotutto è difficile dare una valutazione al nuovo film che prescinda da un paragone con il vecchio, tuttavia superato questo difficile scoglio, ci si trova dinanzi a un mare di sperticati elogi per il lavoro, certosino del regista canadese), anche Blade Runner 2049 infatti colpisce per il suo essere tremendamente bello da vedere e ascoltare. Come se fosse un dipinto pregevole e al tempo stesso una composizione d'autore. I punti di forza del primo storico film si riaffermano nel sequel, ambientato trent'anni dopo nella stessa Los Angeles, futuristica, perennemente piovosa e piena di ologrammi pubblicitari 3D giganti. Una città che ammalia per qualità estetica (special effects senza abuso di computer grafica) e scenari mozzafiato (con interni freddi ma curati sin nei minimi dettagli).
Certo, l'opera di Ridley Scott probabilmente non aveva difetti per l'epoca, e forse è per questo che è considerata un capolavoro assoluto del cinema, classico senza tempo capace di marcare una linea netta di demarcazione fra cinema inteso come arte e cinema inteso come intrattenimento. Nella pellicola di Villeneuve, invece, un paio di cose che non vanno ci sono, nulla, però, che faccia cambiare idea a chi la considera per esempio tra le cose più belle uscite nel 2017 e quelle più belle viste in questo 2018 (soprattutto da me). Forse "la Street" è un po' meno curata, nei dettagli, del suo predecessore, è qui che i colori risultano meno variegati e capaci di catturare lo sguardo, tuttavia il risultato finale è in linea con le attese. Certo, a livello di sceneggiatura, non si sono toccati livelli mai visti prima, anzi, la trama è piuttosto semplice, la sua chiave di volta è un espediente narrativo piuttosto abusato (anche se, nella linearità della struttura, esso presenta comunque alcuni colpi di scena non da poco), ma anche solo l'avere sfiorato la bellezza dell'opera originale fa di questo Blade Runner 2049, forse non un cult, ma un film pazzesco per i tempi che corrono. Grasso che cola in mezzo a tanto ciarpame. Perché se Ridley Scott nel 1982 ha riscritto il cinema, Denis Villenueve nel 2017 è stato in grado di omaggiarlo. A tal proposito, della storia non si può dir molto, soprattutto per non privare il pubblico dell'effetto sorpresa per i tanti colpi di scena. Tuttavia qualcosa lo si può dire certamente oltre a quello già accennato prima, ovvero che a distanza esatti di trent'anni dagli eventi, e nello stesso luogo, del primo film, c'è un poliziotto, dalla sigla K (cui Ryan Gosling consegna quell'inquietudine naturale che contraddistingue molti suoi personaggi), che è sia un blade runner che uno dei replicanti di nuova generazione (perfetti e soprattutto obbedienti): il suo compito è dare la caccia a vecchi modelli Nexus ancora in circolazione, che hanno cercato di dissimulare la propria identità e di vivere una impossibile "umanità", arrestandoli o "ritirandoli". Tra questi (nella fantastica intro d'apertura) c'è Sapper Morton (Dave Bautista), che lavora in un impianto per le colture proteiche fuori città e lui esegue il suo compito. Tuttavia un segreto sepolto proprio lì svela subito un colpo di scena che lo riaggancia con forza al primo film e al tempo stesso fa partire l'agente K (e noi con lui) in una frenetica ricerca di indizi e tracce alla ricerca della verità, con il rischio però di imbattersi in false piste e pericoli in quantità.
Una scoperta che attira le attenzioni della Wallace Industries, che attraverso Luv (Sylvia Hoeks), l'implacabile replicante che rappresenta gli interessi del magnate, inizierà una stretta sorveglianza ai danni dell'agente K. E mentre quest'ultimo sprofonda nella spirale della paranoia, e mentre vediamo nuovi personaggi riusciti (uno dei più interessanti è una specie di "ologramma femminile"...), altri più "scritti" che realmente efficaci (quello di Jared Leto su tutti, ed è una pecca di un film pieno di immagini fortissime ma che ogni tanto si incaglia nelle parole), si aprono scenari di riflessione sui desideri di libertà e di umanità di macchine che dovrebbero essere schiavi "senz'anima", e progetti diabolici sulla società e chi la abita da potenti senza scrupoli. Insomma niente di originalissimo, tuttavia molto interessante, perché se anche sull'idea di base vincente lo script rivela la sua pochezza di fondo nel trattamento tematico o nella fragilità di certi dialoghi, il film appassiona sempre più, coinvolge sempre di più e si segue fino alla fine. Giacché seppur c'è meno noir rispetto al modello originale (ma non è detto che sia un difetto), le scene da ricordare abbondano, dalla creatrice dei ricordi all'incontro-scontro con Harrison Ford (perché come tutti sanno, il film si avvale anche della sua presenza, egli confermato nel ruolo di Rick Deckard che offre una performance in linea seppur sottotono), passando per la scena di seduzione "ibrida" e sfasata (una scena davvero incredibile ed ovviamente alquanto intrigante, visto soprattutto le due bellissime protagoniste), e per il finale stringato e toccante al tempo stesso, che rimanda direttamente alla filosofia del "contatto" di Arrival. E in fondo a un film di questa portata (sicuramente il sequel più rischioso di sempre) si perdonano volentieri anche alcune cose meno a fuoco, non solo la (fiacca e stereotipata) figura del guru Wallace che non dice granché con le sue massime poetico-filosofiche (in tal senso il regista, se avesse osato di più, nel costruire il suo personaggio, non eccezionalmente interpretato da Jared Leto, avrebbe ottenuto forse un risultato migliore), ma anche per quanto riguarda la colonna sonora. Da lei infatti mi sarei aspettato qualcosa in più, poiché seppur estremamente in linea con l'atmosfera, essa è priva di motivi "portanti", anche se ciò, ovviamente (dato che è comunque in grado di trasmettere tutta l'essenza drammatica della storia, dei personaggi e delle situazioni che si verificano), non rovina la visione di un seguito che, pur non toccando l'eccellenza ai massimi livelli del predecessore, a me, personalmente, non ha deluso, anzi.
Di altissimo livello è però tutta la parte tecnica e "di contorno", non solo perché l'atmosfera di abbandono, di deriva della società, di sfacelo del nostro habitat, di freddezza e oppressione, è resa molto bene, ma perché la scenografia è stupefacente, oserei dire meravigliosa (sotto questo aspetto è addirittura superiore all'originale, il quale però poteva contare su una colonna sonora superiore), alcune sequenze sono difatti un vero spettacolo e non a caso si dilungano forse anche più del dovuto. Quanto al cast (che comprende anche Carla Juri, il Lennie James di TWD, il Barkhad Abdi soprattutto di Captain Phillips: Attacco in mare aperto, la Hiam Abbass di The OA, già detto di Dave Bautista, il Drax della saga dei Guardiani della galassia, ed anche di Sean Young, anche se il suo "ritorno" avviene in modalità "artificiale"), Ryan Gosling recita bene la parte del cacciatore di androidi (quella che fu di Ford nell'82), sebbene non si tratti di una delle performance migliori della sua carriera. Al contrario alquanto perfetto (seppur nei limiti) il cast femminile principale. Perché le migliori performance sono di tre donne, in tal senso un po' strano, forse, che tutte e tre interpretino i ruoli di creature artificiali. La meravigliosa, stupenda e "Angelo in terra" Ana de Armas (che da vita a una figura enigmatica, intensa, difficile da impersonare), nel ruolo di Joi, rappresenta un costrutto virtuale commercializzato dalla Wallace (simile a quella di Her, anche nei risultati filosofici ed umani) con cui l'agente K costruisce un vero e proprio legame sentimentale, l'affascinante e bella Mackenzie Davis (apprezzata tantissimo in San Junipero) è invece Mariette, una replicante che sopravvive esercitando per le strade dei bassifondi il mestiere più antico del mondo, e per finire Sylvia Hoeks, nei panni di Luv, l'assistente scrupolosa, efficiente e magnetica del signor Wallace, ma che sa trasformarsi all'occorrenza in una letale macchina da guerra, finendo per rubare (nonostante l'evidente interpretazione sopra le righe del suo personaggio) la scena a ogni apparizione ai ben più navigati ed esperti colleghi. L'unico personaggio femminile in qualche modo sottotono è quello da cui forse ci si aspettava di più, almeno a giudicare da quanto mostrato nei trailer, la Madame, tenente Joshi, poteva essere sviluppato sicuramente meglio ma qui non si stacca dal cliché e di certo non entrerà nel novero delle prove memorabili collezionate dalla grandissima Robin Wright, che comunque è risultata credibile. Difatti la la scrittura del suo personaggio è uno degli unici due nei (già detto di altri piccoli difettucci) che mi sento di individuare in un'operazione per il resto gestita con il massimo della cura.
Infatti, sonoro e montaggio sono in linea ma certamente non da Oscar, gli effetti speciali sono davvero straordinari (vincitori meritatamente dell'Oscar, anche se avrei preferito lo vincesse altre pellicole), stupenda è la scenografia (che meritava anch'essa un Oscar) e pazzesca è la fotografia. A tal proposito seppur ai suoi detrattori Blade Runner 2049 sembrerà più un gran film di fotografia (firmata da Roger Deakins, che per questo ha vinto meritatamente l'Oscar) e ambienti scenografici impressionanti che di narrazione, il ritmo a tratti langue (anche se questo ritmo lento, poco incisivo, è tuttavia colmo di intensità, giacché seppur ciò renda "Blade Runner 2049" decisamente piatto, permette al pubblico di godere di ogni piccola sfumatura della vicenda narrata), non c'è quel pathos legato a una storia semplice ma dai significati radicali (in questo caso però era abbastanza complicato in verità riuscirci), la durata è forse eccessiva e non tutti i colpi di scena in verità sembrerebbero così sorprendenti, ma al netto di un'operazione che, può essere guardata con perplessità fin dall'inizio, e di un confronto impari con l'originale, è un ottimo film (che oltre tutto cresce nel finale, fino a un bell'epilogo) che ha buone possibilità di conquistarsi un posto sia nell'immaginario visivo di una nuova generazione di appassionati di cinema che per le riflessioni che pone sull'uomo, sulla sua origine di creatura, sul suo destino e sulla realtà tutta, con echi religiosi e filosofici che non sembra forzato individuare. Denis Villeneuve (l'unico tra gli autori contemporanei capace di intendere il fantastico, ma non solo, come i grandi del passato) ha insomma portato a casa un risultato encomiabile sporcato qua e là solo da qualche macchia di scrittura e da qualche concessione "di cassetta" al grande pubblico che però si digerisce senza tanti problemi. Giacché Blade Runner 2049, che rappresenta quindi una sorta di omaggio all'originale, perché durante il film vengono riportati alla memoria determinati personaggi e oggetti, ed anche l'atmosfera cupa e l'atteggiamento delle figure lo ricordano, lasciando lo spettatore in una sorta di circolo nostalgico dal quale sarà difficile uscire, è a tutti gli effetti (che vi piaccia o meno il genere) una delle migliori pellicole dello scorso anno cinematografico. Un film insomma (che non mi aspettavo così riuscito), potrebbe fare addirittura da apripista a una serie di seguiti, essendo state messa tanta carne sul fuoco e proponendo un finale apertissimo a tutta una serie di congetture, degno seguito di Blade Runner (già questo è sufficiente), che se anche non raggiunge l'epicità del primo, è davvero bellissimo, praticamente un quasi capolavoro. Voto: 8,5