A dirla così sembra un mix astruso e potenzialmente moralistico, ma il piccolo miracolo della pellicola di Villeneuve (che centra in pieno il filone della "fantascienza esistenziale", un genere che consiste nel contaminare un filone, quello dell'incontro con l'alieno, il diverso, con una vicenda profondamente personale che coinvolge lo spirito umano, e in questo senso la pellicola non fa eccezione) è di trasmettere tutto questo in un modo insieme rispettoso dell'intelligenza del pubblico e straordinariamente avvincente, usando gli stilemi di un genere, la fantascienza, da sempre appassionato, nelle sue incarnazioni migliori (da Spielberg, a Nolan arrivando anche a Star Trek, Zemeckis e perché no, Kubrick), alle questioni filosofiche. Villeneuve infatti costruisce la tensione con immagini suggestive e inquietanti (quelle delle navi aliene che assomigliano a monoliti levitanti sulla superficie del pianeta), un uso accorto della musica e del suono ma rifuggendo il più possibile l'effetto splatter o la sorpresa fine a se stessa. Ci sono gli alieni tentacolari (ma mai particolarmente spaventosi), ci sono i governi e i militari paranoici, la minaccia nucleare, la tensione internazionale, ma non sono quelli il cuore della storia. Per comunicare con gli alieni gli americani, inviano difatti una squadra capitanata da una linguista, Louise Banks (Amy Adams), e da un fisico, Ian Donnelly (Jeremy Renner). Entrambi contattati dal colonnello Weber (Forest Whitaker), quando sulla Terra compaiono dodici gigantesche astronavi, chiamate "gusci", in varie parti del mondo, avranno il compito di riuscire a capire il motivo dell'arrivo degli alieni e stabilire (anche se è tutt'altro che facile farlo) un contatto con la strana e misteriosa razza aliena. Gli sforzi dei protagonisti producono così piano piano delle risposte, ma con il mondo nel caos, e varie nazioni pronte ad attaccare gli alieni, il tempo stringe e c'è bisogno quanto prima di riuscire a trovare le risposte che servono.
Fin qui, direi tutto o quasi "tradizionale", ma poi, come è già capitato in altre opere di Villeneuve, la situazione si evolve in un modo del tutto inaspettato, anche piuttosto lontano dai canoni della fantascienza classica, ma alla fine tutto funziona bene. La trama infatti, che ruota tutta attorno al tempo, alla nostra percezione di esso e al dono tutto umano di riordinarlo in storia, con la lingua, come strumento di comunicazione, di espressione ma anche come potente e ambiguo strumento per descrivere e plasmare la realtà, funziona alla grandissima. Certo, il paradosso scientifico è dietro l'angolo ma Arrival se lo gioca in un modo più esistenziale e meno metafisico di altri, con un risultato intellettualmente ed emotivamente molto riuscito. Alla fin fine la salvezza dell'umanità si gioca più nei termini di rapporti tra individui (occhio al concetto di "gioco a somma zero") che di forze planetarie, e in una temperie dove la mancanza di conoscenza significa spesso ostilità Arrival è un ostinato quanto ragionevole inno alla capacità umana di tendere cuore, mani e cervello verso l'altro in una prospettiva di reciproca accoglienza. Dopotutto la protagonista, incarnata con convinzione ed energia da Amy Adams, crede profondamente nella possibilità (e nel dovere) della comunicazione ed è la sua tensione verso l'altro (e forse anche l'Altro in assoluto) il vero motore della storia. Il succo della storia sta infatti tutto nei tentativi di comunicazione fra umani e alieni, e in questo il film riesce perfettamente, poiché tutte le sequenze riguardanti i tentativi di traduzione della brava Amy Adams sono fantastiche, di grande potenza e intensità.
Qui difatti, e grazie a Jeremy Renner che presta il suo carisma e la sua bravura alla parte minore (ma perno nella trama) dello scienziato affiancato a Louise nella missione di creare un ponte con gli alieni, per una volta si riesce ad andare oltre una trita e semplicistica contrapposizione scienza/fede, per esplorare le differenze e le complementarietà dei metodi, ma anche degli approcci maschile e femminile, tanto che è proprio il rapporto tra i due a nascondere la chiave di tutta la vicenda. Anche perché in questo approccio teorico e nelle sfumature psicologiche ed emotive soprattutto del personaggio protagonista, il film trova le sue migliori motivazioni, oltre ad annoverare una musica ottimamente funzionale alla suspense e un accorto uso delle anacronie narrative, la cui apparente banalità (un intreccio tra passato, presente e futuro che potrebbe confondere, dato che fino a pochi minuti prima dell'intenso finale è difficile capire cosa si è verificato prima e cosa, invece, non potrebbe non essere ancora avvenuto) trova una spiegazione sorprendente nel finale. Interessante è anche l'uso continuo di quelli che all'apparenza sembrano flashback (sarà davvero così? posso solo dirvi che tutti vedono la presenza di una bambina), espediente che solitamente disturba il pubblico, ma che in questo caso permette di avere una visione più completa di tutta la storia e aiuta lo spettatore a farsi un'idea più precisa su quanto realmente sta accadendo. La storia infatti è molto più complessa di quanto sembri, e solo nel finale avrete risposta a tutte le domande che vi si presenteranno in testa durante la proiezione.
D'altronde come in Interstellar la pellicola nasconde un paradosso temporale, nella circolarità di una lingua in cui spazio e soprattutto tempo non assumono la dimensione lineare cui siamo abituati ma vengono continuamente ribaltati muovendo le acque di un genere che trova nell'immagine il suo effetto più affascinante. Una risposta invece alle tante domande, la si trova nel concetto principale alla base di Arrival, ovvero la cosiddetta ipotesi di Sapir-Whorf. Conosciuta anche come "ipotesi della relatività linguistica", afferma che lo sviluppo cognitivo di ciascun essere umano è influenzato dalla lingua che parla. Nella sua forma più estrema sostiene che il modo di esprimersi determina il modo di pensare. Ed in effetti Arrival ne è esempio eccellente. Grazie soprattutto a Denis Villeneuve, che gira con stile e padroneggia l'effetto visivo sul pubblico con grande efficacia. Registicamente le fasi ambientate nella navicella extraterrestre infatti sono pazzesche, una gioia per gli occhi soprattutto per il realismo e la credibilità del tutto. Quelle ambientazioni, quei visitatori cosi strani e quell'atmosfera cosi estranea sembrano invece usciti direttamente dalle pagine di un grande romanzo di genere del passato. Ovviamente, e come detto, Arrival non è solo sci-fi ma ha anche una componente drammatica non banale, che riesce però a coinvolgere malgrado qualche leggera concessione alla lacrima facile. Di grande fattura inoltre il colpo di scena finale, altra sfumatura che darà il via a riflessioni a fine visione (quasi come in Enemy, dove in una sorta di auto-citazionismo, il finale e soprattutto una immagine, inquieta e sconvolge). Metaforica risulta infine la scelta delle inquadrature, azzeccata quella del dialogo difficile tra Loiuse e gli eptodi, interessante è altresì il profondo significato nascosto con i continui rimandi alla maternità sofferta della linguista.
Come se, ci volesse dire Villenueve, quel qualcosa di ignoto proveniente dallo spazio buio, quel diverso di cui non è chiaro lo scopo del suo arrivo, non debba essere per forza inteso come minaccia ma al contrario, possa abbracciare un'ottica di comprensione reciproca e di un profondo significato cristiano, verso una lingua comune e profetica, il vero dono, che si chiama fratellanza e capacità di vedere ben oltre le "apparenze del tempo". Anche perché il regista (con il gusto di giocare anche con i paradossi temporali, e in modo non banale) è riuscito a cogliere l'essenza della fantascienza (matura), a mettere su pellicola i sentimenti di paura e meraviglia verso l'ignoto e un contatto credibile e realistico con una civiltà superiore. Senza dimenticare che tecnicamente il prodotto è curato e accurato, e non ci sono sbavature in nessuno dei reparti tecnici (effetti visivi, regia e una colonna sonora monumentale). Il cast infine (comprendente anche il bravo Michael Stuhlbarg) risponde alla grande nonostante uno script molto impegnativo, i due interpreti nei loro ruoli dopotutto sono impeccabili (soprattutto la sempre più convincente Amy Adams, che qui lavora con un'intensità sconvolgente) e molto credibili, lui infatti si comporta bene in un ruolo di supporto lontano dai suoi soliti personaggi, e quindi possiamo dire che la coppia Adams-Renner pare funzionare benissimo sul grande schermo. Ovviamente non tutto è perfetto, ogni tanto difatti il film abusa un po' troppo di quel clima autoriale che personalmente ho trovato delle volte un po' eccessivo, e mi dispiace che venga preso in giro per questo od altro, semplicemente perché non è "La guerra dei mondi", sembra infatti che si sia perso il gusto dell'arcano, del mistero, del confronto con dei possibili alieni. Perché anche se magari non sempre scorrevolissimo, in alcuni punti anche un po' pretenzioso se vogliamo, ma che volente o dolente mi ha ridato una dose di quella cara e vecchia fantascienza che pare essersi estinta (e che mi manca), Arrival è comunque un maturo e sapiente film di fantascienza. Un'opera intensa ed emozionante che si prende il suo tempo per raccontare una storia intrisa di significato. Una storia di grande fascino, spettacolare e sconvolgente che avrebbe meritato, essendo un piccolo capolavoro, più considerazione agli ultimi Oscar, ma è andata così e va bene lo stesso. Voto: 8