domenica 7 aprile 2019

Vizio di forma (2014)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 01/12/2017 Qui - La settima fatica (e il suo terzultimo film prima del documentario Junun e del nuovo film in uscita l'anno prossimo in Italia) del quarantasettenne Paul Thomas Anderson è la prima pellicola mai tratta da un libro di Thomas Pynchon, l'omonimo Vizio di forma, ed è un film bello e (o ma?) complesso, pienamente nell'ormai riconoscibile, tanto venerato da alcuni quanto disprezzato da altri, stile del regista statunitense. Egli è infatti famoso per la coralità dei suoi film, e questo non è da meno, la pellicola è colma di personaggi, tutti funzionali alla costruzione del quadro di un'epoca, quella dell'America anni '70, rappresentata con un pizzico di nostalgia e devozione. Ne esce un paese a due facce, da una parte lo Stato che va in Cambogia a controllare il traffico di droga, i suoi funzionari (i poliziotti) intolleranti e ottusi e la borghesia bene (i dentisti) con i suoi vizi privati e pubbliche virtù, dall'altra quei ragazzi che non si riconoscevano in quel tipo di paese, gli hippy appunto, che per evadere sperimentavano droghe e che predicavano l'amore. Le prime tre categorie sono rimaste, la quarta no, e con questo il regista vuole avanzare anche una riflessione sull'America di oggi, un paese che "ha perso la sua innocenza" e lo ha fatto proprio a cavallo di quegli anni, quando Charles Manson (deceduto pochi giorni fa) commettendo i suoi delitti ha svegliato gli Stati Uniti dal quel sogno che erano stati gli anni '60. Assistiamo perciò, attraverso il personaggio principale, a questo ristagno generazionale, e seguiamo quindi una trama sotto i fumi della "maria", un (strano, quasi incomprensibile) viaggio psichedelico con visioni di un futuro prossimo aberrante ma vestito in doppiopetto. Anche perché Vizio di forma come The Master è un'opera estremamente complessa e stratificata, fin appunto dalla storia stessa ascrivibile ad un vero e proprio trip.
Un trip che grazie allo stile del regista, spiazza, diverte e intriga, anche se seppur le indagini di Larry "Doc" Sportello, un investigatore privato che si vede chiedere aiuto da una sua ex, Shasta (la bella Katherine Waterston), che vuole evitare che l'uomo con cui ha una relazione, il miliardiario Mickey Wolfmann (un funzionale Eric Roberts), sposato con un'altra donna, venga internato dalla moglie e dall'amante di quest'ultima (e che accetta non sapendo però di intraprendere a sua insaputa un cammino che lo porta ad incontrare una serie di stravaganti personaggi e vivere bizzarre situazioni), seguano un filo logico durante tutto il film, sono tutte le piccolezze e le informazioni in più a rendere il film un vero "casino", in tutti i sensi, tanto che a volte non sono riuscito a seguire certe scene. Vizio di Forma infatti (visto su Infinity), titolo originale Inherent Vice, certamente piacevole e ben fatto, ironico e ben interpretato, molte (forse troppe) volte è francamente incomprensibile. Più di una volta il regista difatti, prova a mettere KO lo spettatore con trovate assolutamente incredibili, degli scatti (di idee e di camera) che hanno dello psichedelico. E non si capisce mai davvero, mai cosa sia reale e cosa no. Se le voci che sentiamo sono voci di persone vere, oppure se sono solo il frutto dell'ennesimo trip di Doc. Ma nel 1970 quella era la realtà, mentre molte persone osservavano il sogno Californiano del ritorno alla natura che lasciava il posto agli affaristi terrieri ed ai costruttori edili.
Allo stesso tempo, la scena gioviale della marijuana cedeva il passo ai cartelli burocratici dell'eroina dall'estensione globale, gli ospedali psichiatrici venivano svuotati in favore di centri di "recupero" a fini di lucro, e un'era di vivace attivismo politico veniva guidato da una rete segreta di spie, infiltrati e giochi sporchi (ed ebrei nazisti). Dopotutto la storia di Vizio di Forma non è lineare e "semplice" come quella de Il grande Lebowski (il più simile in termini di paragone), di cui si capisce tutto in poco più (o poco meno, dipende dallo spettatore) di mezz'ora. In Vizio di Forma, veniamo catapultati in un giro impossibile, incredibile, fatto di spie e contro-spie, di intrallazzi tra governo e spacciatori, di federali e di costruttori, di ex-fidanzate e di poliziotti scontenti. E infatti insieme a Sportello, interpretato da un eccezionale Joaquin Phoenix, che è presente in ogni fottutissima scena (d'altronde è lui il perno del film), indagheremo sulla Golden Feng, prima barca a tre alberi, poi triade cinese, infine scudo fiscale per alcuni "potenti" (e particolari) dentisti. La sottotrama ovviamente è la droga, l'eroina. Al suo fianco, Bigfoot Bjornsen, "lo sbirro", interpretato da Josh Brolin, e l'avvocato (di diritto marittimo) che ha la faccia di Benicio Del Toro. Però mentre Il grande Lebowski faceva ridere per il suo surrealismo, per il suo continuo essere al di sopra delle righe e per i suoi personaggi, tutti più o meno caricaturali, in Vizio di Forma, invece, ci sono stereotipi ricalibrati, possibili, magari addirittura verosimili, se all'inizio possiamo essere disorientati da una tale moltitudine di notizie e informazioni, man mano che il film procede capiamo che l'intento del regista è quello guardare con occhio nostalgico un'epoca che non c'è più.
Un'epoca di vestiti decorati con fiori o vivacissime stoffe di colori vivi. Il loro ideale di pace e libertà risuonavano in maniera evidente in quel periodo. La ricerca sfrenata della totale libertà era il significato insito nel loro stile di vita. Questo movimento toccò particolarmente l'opinione pubblica, tanto da impressionare le pellicole di molti registi, nonché la musica di molti artisti. Presenti inoltre una continua ironia e comicità, a volte sottile altre volte volutamente esagerata. Di difficile, se non impossibile catalogazione, il film infatti, probabilmente come nel romanzo, flirta impavido col noir (quello classico, "alto"), si distende nei territori lerci della detective story, sniffa polveri di commedia grottesca e vira ad un sentimentalismo sorprendente per autenticità e sfrontatezza. Il tutto filtrato nelle/dalle calde, pastose luci acide di una città/stato della mente (strafatta eppur determinata) che riflettono, accompagnati da note e liriche ora struggenti, ora dolci ora sfuggenti ma anche confacenti, ai tempi psichedelici una visione estremamente naturale, fluida (malgrado il complesso svolgersi degli eventi). Orchestrando una partitura complessa e profondamente umana senza la paura di dover seguire alla lettera la fonte letteraria ma servendosene e riversando in pellicola lo spirito anarchico, selvaggio, eccitato ed eccitante, il regista/sceneggiatore infatti afferra la materia plasmandola al suo (identificabile) linguaggio.
E questo è ancor più evidente quanto più apparentemente sembrano distanti taluni momenti (il versante grottesco, certo, ma anche alcune scene fuori di testa, incomprensibili quasi), oltrepassandoli con la sicurezza dei grandi (l'ambiguo rapporto tra Sportello e Christian "Bigfoot" Bjornsen, attraversato da numerose vibrazioni dell'assurdo, reso come intenso incontro/scontro di anime borderline, speculari). Il ritratto che ne viene fuori, alla fine, e con/oltre ogni evidente traccia "allucinogena" (che comunque  e come detto serve a creare i contesti, narrativi, ambientali e introspettivi) è quello quindi di una disperata, risoluta, bizzarra ricerca. Ovvero il senso dell'amore di Doc per Shasta. Grande cast d'attori (altra costante del cinema del regista), con in testa il solito, incommensurabile Joaquin Phoenix, che dà vita ad un personaggio memorabile (portando il protagonista a vivere in un perenne trip al di fuori dal mondo che lo rende in qualche modo, per via del suo look, la sua andatura, la sua indolenza e simpatia ma anche la sua etica, ridicolo e comico a tratti), ma occhio alle strepitose performance di Josh Brolin, Martin Short (che sta poco in scena ma lascia il segno) e della rivelazione Katherine Waterston (figlia del grande Sam che vediamo in tutta la sua esuberanza e sensualità). Senza dimenticare funzionali ed efficaci piccoli ruoli, affidati a Reese Witherspoon, Owen Wilson, Michael Kenneth Williams e Jena Malone.
Prova eccezionale anche dello stesso Anderson, che ancora una volta si conferma un fuoriclasse della regia. Nei suoi mille intrecci e risvolti e nella sua atmosfera allucinata, Vizio di forma è tuttavia anche un film difficile, che può certamente non piacere a tutti, anche perché, seppur ci sono personaggi spettacolari, che nel nonsense che permea tutto il film, ci sguazzano a meraviglia, è un noir atipico, sicuramente strano, forse uno di quei film da guardare due o tre volte prima di poterlo apprezzare veramente, anche se comunque mi è piaciuto abbastanza. Dopotutto inutile negarlo, si tratta infatti di un piccolo capolavoro "alternativo" (il completamento della parabola discendente del sogno americano che il regista aveva iniziato con il bellissimo Il Petroliere e che aveva continuato con l'altrettanto bello The Master) ma, fortunatamente, non impegnato. Un discreto, affascinante film dove, attori e regia sono indiscutibilmente al massimo dei giri (le qualità tecniche infatti sono evidenti, regia, musiche soprattutto, fotografia, costumi e cast sono fenomenali), la trama è (volutamente) messa in disparte, perché è solo un pretesto per poter raccontare quel preciso momento storico dell'America, anche se 150 minuti sono veramente troppi per godersi al meglio uno spaccato intricato, grottesco, ironico e sregolato di un'epoca che non c'è più (e che non tornerà più). Ma se volete qualcosa di diverso dai soliti film vedetelo, però non aspettatevi il classico giallo. Voto: 7+