Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 18/12/2017 Qui - E' un documentario? un film di finzione? un film di protesta? cos'è veramente Taxi Teheran? L'ultima opera (vincitrice nel 2015 dell'Orso d'oro come miglior film al Festival internazionale del cinema di Berlino) di Jafar Panahi è soprattutto un regalo al cinema e alla gente che di cinema vive (e muore). Il film infatti, fotografato, montato, musicato, prodotto, scritto, diretto e interpretato da lui stesso, è una forma di libera espressione, un esempio di cinema coraggioso. Un cinema, una pellicola, seppur apparentemente semplice ma di grande coraggio intellettuale. Giacché la giustizia iraniana ha proibito al regista di girare film per i prossimi 20 anni, pena la prigione, ma lui non ci sta e gira lo stesso, e ci dimostra che non ci sono barriere che il pensiero libero non possa far cadere. Soprattutto in questo caso in cui un regista è capace di raccontare un Paese intero dall'interno di un taxi. Anche perché il regista stesso è conduttore di questo taxi che gira per la capitale iraniana, raccogliendo testimonianze di passeggeri (parenti, amici e sconosciuti) sulla vita quotidiana che si svolge nel paese.
Ed emergono curiosità, credenze, contraddizioni e soprattutto, immancabili, le dure leggi, che il governo impone al popolo, limitando spesso la libera espressione e la possibilità di conoscenza di altre culture. Sul taxi infatti salgono donne e uomini, anziane, bambine che, nonostante le possibili conseguenze di certe affermazioni, ci dicono (come se non ci fosse una telecamera a riprenderli) la loro senza peli sulla lingua. Protagonista in questo senso una bambina, nipote di Panahi nel film e nella realtà, spontanea e intelligente che racchiude tutto il senso della pellicola in se stessa, l'opposizione creativa e non violenta vince sempre di fronte all'intolleranza e ad una giustizia che giusta non è. Perché in questo film delizioso, il realismo della messa in scena è a tratti geniale (altrettanto ingegnoso ed interessante il dispositivo adottato), tanto che, usando tre inquadrature (da una telecamera piazzata sul cruscotto) il regista riesce a raccontare una storia importante. Certo, qualche lungaggine inevitabilmente c'è, ma Jafar Panahi supera tutto, perché bastano pochi e semplici mezzi per realizzare un film come questo, a tratti divertente che fa riflettere. Dopotutto quando c'è un'idea alla base, originale e sentita, il risultato non può che essere positivo. Voto: 7