Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 06/11/2017 Qui - Trasporre il Macbeth su grande schermo sconta inevitabilmente il confronto con illustri predecessori, non nomi qualsiasi, ma registi del calibro di Orson Welles, Akiro Kurosawa e Roman Polanski. Per cui non facile era per Justin Kurzel, di cui da menzionare c'è oltre ad Assassin's Creed anche Snowtown (anche se entrambi non ho visto), proporre nuovamente l'ennesimo adattamento della tragedia "maledetta" di Shakespeare, forse il più terribile e compiuto apologo mai scritto sull'intreccio tra ambizione umana e destino. Ma non può bastare questo per giustificare un lavoro, almeno personalmente, così deludente. Perché in Macbeth, film del 2015 diretto dal regista australiano, egli punta molto, forse troppo sull'aspetto visivo, attraverso una ricerca estetica ai limiti dell'esasperante. Tanto che seppur Kurzel mette in scena con suggestivi accorgimenti estetici e rispetto del testo questa nuova trasposizione, lo fa però senza coinvolgere nelle emozioni lo spettatore, in mancanza di una vera scintilla creativa. Anche perché egli decide di riportare fedelmente sul grande schermo l'intera storia, conservando nella loro interezza (e complessità linguistica) i dialoghi shakespeariani. Infatti il contributo originale di Kurzel si limita alla messinscena (in una Scozia selvaggia e brulla a metà fra Braveheart e la Grecia arcaica di 300), per il resto l'adattamento è talmente fedele e ossequioso rispetto al testo di Shakespeare da risultare convenzionale.
La cornice curata in tutti i particolari lascia infatti il campo ad un'altrettanta freddezza nella rappresentazione dove neanche nomi del calibro di Michael Fassbender e Marion Cotillard riescono, veramente a fatica, ad emergere. Giacché seppur loro impreziosiscono ed aggiungono, con le loro comunque interpretazioni straordinarie, valore alla pellicola, non migliorano di moltissimo (anche se per fortuna c'erano loro due) il risultato finale. Perché questa trasposizione malgrado la ricercatezza estetica, rimane in fondo fine a se stessa e non lascia (sempre soggettivamente) il segno. Qualcuno infatti dovrebbe spiegare al regista che cinema e teatro non sono esattamente la stessa cosa. Poiché va bene rimaner fedeli al testo originale, ma questo teatro in movimento è poco sopportabile se non si conosce con esattezza tutto il testo, soprattutto nel caso come questo dove la quantità di livelli di lettura e di significati insiti nel testo è quasi illimitata. Non si può difatti sperare che tutti sappiano decifrare il senso di tutto, certo sai già cosa si sta per vedere, ma così come ci viene presentato, con monologhi urlati (in stile teatrale) come se nessuno potesse sentire quello che si dicono (sì come no) non è proprio il massimo.
Per questo non mi è tanto piaciuto, e non perché i film da impostazione teatrale non fanno per me, ma perché bypassando sulla discutibile decisione di adattare i dialoghi direttamente da Shakespeare con una fedeltà molte volte incomprensibile e fuori luogo, e che il doppiaggio italiano rende ancora meno sopportabile, sono alcune scelte (soprattutto registiche) che vanno invece a discostarsi da questa fedeltà a rendere il tutto ancora più sgradevole, come l'inutile dispiegamento di forze, (noiosi) ralenti e velocizzazioni nelle (poche, comunque) scene di battaglia. Anche perché in tutto questo grossolano esercizio di stile, dove comunque a farla da padrone e a risultare maggiormente degna di nota è la fotografia, si perdono insieme la magia del cinema e il senso della tragedia. Dopotutto il film di Kurzel resta certamente un oggetto di ammirevole fattura, poetico e suggestivo, con punte di grande intensità, ma un andamento a volte spossante e latente, lascia lo spettatore con un senso di parziale incompiutezza solo in parte controbilanciata da quello di pietas nei confronti dei suoi protagonisti e dei loro terribili errori. Perché questa tragedia, che tutti almeno in parte conoscono, e quindi inutile è altresì raccontare la trama, emotivamente funziona sempre.
D'altronde Macbeth resta sempre la tragedia dell'ambizione frustrata e compiuta, ma anche dell'interrogarsi su destino e libero arbitrio, su ciò che significhi essere umani e ambire a un oltre irraggiungibile, sul desiderio che (piegato dalla disperazione) diventa sete di potere che non può essere placata. Peccato che questi elementi, i più interessanti di questa storia, qua e là si perdono in una compiaciuta iterazione dei suoi motivi più poetici. Motivi che su altri personaggi (comunque tutti bravi sono gli attori) procede fin troppo per ellissi, talora privandoli di autonomia e interesse. Resta così solo tratteggiato a metà il re Duncan (David Thewlis) vittima di Macbeth ma anche il suo erede Malcom (Jack Reynor), uomo senza qualità e senza colpe, e Macduff (Sean Harris), l'uomo del destino che piega con la sua esistenza la profezia bugiarda delle streghe che lo ha privato della famiglia e della moglie (Elizabeth Debicki). Nulla da dire invece, come già detto, sulla bravura dei protagonisti principali.
Anche perché grazie all'ottima interpretazione di Michael Fassbender (sempre molto funzionale come visto quest'anno in Steve Jobs e X-Men: Apocalisse, meno che in Eden Lake), che comunica con la sola forza dello sguardo le mille sfumature della metamorfosi del protagonista (da eroico combattente ad arrampicatore assetato di potere a tiranno senza umanità, passando per quel bambino fragile che la moglie riesce a manipolare con facilità) e Marion Cotillard (sempre perfetta ed efficace come visto in Allied), una Lady Macbeth dal viso angelico e l'animo corrotto la cui maternità frustrata si trasforma in brama di potere, e che fa leva proprio su quell'impulso materno (e sulla sua sensualità) per manovrare il coniuge come un pupazzo, riescono a salvare l'intero progetto. In più, grazie al loro smisurato talento, i due regalano ai protagonisti, oltre alla ferocia e alla follia che c'è da aspettarsi da loro, improvvisi lampi di tenerezza laddove il film esplora il vuoto (il figlio perduto con il cui funerale si apre la storia) che dà origine alla rovinosa ambizione della coppia.
Ambizioso è anche il regista, che però sbaglia a non prendere e pretendere posizioni autoriali, dato che il suo Macbeth è rigoroso, canonico, esteticamente ammirevole, storicamente corretto, ma non aggiunge nulla a quanto c'è sulla pagina e a quanto c'è già stato sul grande schermo. In tal senso la colonna sonora "minimale" in sordina e decisamente inefficace, non fa il suo dovere nemmeno quando dovrebbe e si limita ad affacciarsi timidamente in questo esperimento che a dispetto di un comparto tecnico di un certo rispetto non posso che giudicare quasi fallimentare. Anche se nonostante il regista pecchi di creatività e coinvolgimento nell'azione, riesce a raggiungere la sufficienza grazie a due attori e la comunque sublime ambientazione. Anche se alla fine il film è soprattutto consigliabile a chi ama le opere shakespeariane, e soprattutto i film fedeli ad esse, come anche nel linguaggio (teatrale, così come i tempi nella recitazione). A tutti gli altri forse meglio evitare. Voto: 6