lunedì 8 aprile 2019

The Birth of a Nation: Il risveglio di un popolo (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 14/11/2017 Qui - A metà tra 12 Anni Schiavo e Django UnchainedThe Birth of a Nation: Il risveglio di un popolo (The Birth of a Nation), film del 2016 scritto e diretto da Nate Parker (anche protagonista), è la storia di una presa di coscienza di un individuo prima e di un intero popolo successivamente. Il film infatti, presentato in anteprima al Sundance Film Festival 2016 (dove ha vinto il premio del pubblico e il gran premio della giuria), significativo già dal titolo, dato che il regista riprende in modo totalmente audace e impavido il titolo della vergognosa pellicola di Griffith sulle "epiche" gesta dei "coraggiosi" incappucciati del Ku Klux Klan, anche se ne ribalta il contenuto, ci racconta su quali fondamenta è nata l'America, battezzata nel sudore e nel sangue di milioni di esseri umani costretti a perdere la propria umanità, raccontando la storia della rinascita dell'America attraverso le battaglie della popolazione afro-americana in cerca di uguaglianza, riscatto e anche di vendetta, ma sopra ogni cosa, in cerca di giustizia (parola e concetto che spesso viene soffocato e annientato con le torture, le sevizie, il calpestamento dei diritti umani). E lo fa ripercorrendo la vicenda di Nat Turner (un personaggio veramente esistito e di cui si è fatto di tutto per cancellarne le tracce e la memoria), schiavo, predicatore, ribelle. E lo fa restituendo il significato dell'istituzione schiavista in tutto il suo intollerabile abominio, la sua crudele quotidianità capace di annichilire negli uomini e nelle donne ogni rispetto di sé, ogni sentimento, ogni speranza. Certo, la struttura del racconto è classica e non si discosta in maniera particolare da altre pellicole che hanno trattato il tema della schiavitù, ed anzi, non apporta particolari novità sull'argomento, e addirittura la sceneggiatura ha delle evidenti lacune, ma qui ci troviamo di fronte ad un prodotto discretamente riuscito che ne fotografa, sapientemente la vita e le azioni.
Supportato da una discreta fotografia, nitida, vivida e più che mai appassionata Parker (qui oltre che attore e regista, anche produttore e sceneggiatore) e scandito da una regia sapiente e particolareggiata che nulla lascia al caso. Curato nei minimi dettagli The Birth of a Nation diventa infatti sequenza dopo sequenza un fiume in piena che non edulcora e non risparmia niente per nessuno. E' violento, sanguinolento, furioso. Più di qualsiasi altra cosa emana però uno spirito rivoluzionario e reazionario, uno spirito liberatorio e audace che osa contrastare l'establishment hollywoodiano odierno proponendo visivamente, e nella stessa misura, la ferocia delle barbarie compiute dai bianchi contro i neri ma anche quelle dei neri contro i bianchi. Ed ecco la carta vincente dell'emergente Nate Parker (alla sua prima opera) la resa visiva di una Nazione divisa sotto ogni aspetto razziale, sociale, culturale. Una Nazione che inaspettatamente cammina verso l'alba della guerra civile, la guerra di secessione e quella che porrà fine alla schiavitù dei neri. Fotografando così la decadenza morale, etica e sociale di una nazione in contrasto con se stessa. Un contrasto che viene reso in modo impeccabile anche sullo schermo, grazie alle riprese di quelle estese ed interminabili piantagioni di cotone e del contrasto naturale che si pone tra la morbidezza della materia stessa e la dolorosa difficoltà materiale di raccoglierla. Quelle mani nere, ferite ed insanguinate dalle spine per raccogliere i batuffoli di cotone sono immagini che ti colpiscono, ti restano impresse ed anche dal lato estetico non possono che essere apprezzate.
La storia dunque, biografica ed ambientata nella Virginia del 1831, procede in modo lineare interrotta soltanto da alcune disparate sequenze oniriche che servono ad alleviare momentaneamente lo spettatore, anche se una delle più grandi perplessità riguardano proprio questi inserti onirici (per non parlare dell'angelica visione sul finale) che stridono maledettamente con il rigore dell'insieme. Continua poi quando il piccolo schiavo Nat (che agli occhi dei vecchi della sua comunità è un predestinato al comando) grazie alla benevola intercessione della sua padrona (un intensa Penelope Ann Miller) inizia a leggere la Bibbia (e solo la Bibbia). Fatto di per sé straordinario visto che agli schiavi era negata l'istruzione. Grazie alla sua conoscenza del testo Sacro, che Nat impara praticamente a memoria, il giovane diventa il predicatore degli schiavi della piantagione in cui lavora. È un uomo mite e saggio che può contare su un padrone, Sam (un sempre convincente Armie Hammer) con cui giocava da ragazzino, che lo rispetta e che tratta in modo "umano" i suoi schiavi (tranne quando è ubriaco). Però, l'inizio del secolo è il periodo in cui in alcune piantagioni cominciano i primi segni di insofferenza degli schiavi. Ecco, quindi, che il pastore Nat può diventare utile ai bianchi. Insieme a Sam viene quindi inviato nelle piantagioni limitrofe a predicare, secondo le Scritture, la sottomissione ai padroni. Durante questi giri, però, Nat prende ulteriore consapevolezza dello stato di schiavitù dei suoi fratelli, spesso brutalizzati da uomini senza scrupoli come il personaggio interpretato da Jackie Earle Haley. Ecco, quindi, che in lui si accende il desiderio di ribellione, sostenuto da quei passi della Bibbia in cui si proclamano vendetta e giustizia.
Interpretando i versetti biblici in modo completamente diverso da quanto fatto finora egli infatti ci vedrà l'incitamento ad una sanguinolenta rivolta. "Il risveglio di un'intero popolo" che decide di smettere di servire e ubbidire ma di prendersi in mano le redini del proprio destino e combattere per la propria dignità e libertà. Una sete implacabile di autodeterminazione, vendetta e giustizia. Ma quest'ultima ancora giace silenziosa e soffocata dalla sopraffazione della violenza la quale non viene risparmiata in nessuna delle sue sfumature ma viene mostrata in maniera "Tarantiniana", anche se il regista, non indulge esageratamente sugli episodi di violenza e brutalità perpetrati dai bianchi "gentlemen" del Sud, li mostra quel tanto che serve a capire che cosa significava avere la pelle nera negli Stati Uniti del XIX secolo e non si compiace di scene "splatter" per il gusto di scandalizzare il pubblico. Il risultato finale di Parker difatti è un film visivamente potente, struggente e drammatico. Anche perché il regista realizza sicuramente un film coraggioso il cui l'elemento di originalità è proprio nella figura del protagonista, da lui stesso interpretato, e nell'utilizzo che fa delle Sacre Scritture che possono essere utilizzate e interpretate in modi diametralmente opposti, per la pace o per la sanguinosa delle guerre (tema di grande attualità), anche se purtroppo il protagonista con la sua parabola di natura quasi cristologica è soggetto a cambiamenti repentini, a un'evoluzione dettata dalla brutalità circostante che lo trasforma (nella seconda parte) troppo facilmente da uomo pacifico ad assassino spietato.
Inoltre non si riesce a capire se tale presa di coscienza dipenda dal vedere le condizioni misere degli schiavi oppure determinata in maniera fondamentale dallo stupro nei confronti della moglie, quindi da motivazioni più personali. In questo il film mostra una lato ambiguo che rimane fino alla fine. Più convincente, la prima parte, quella della formazione di Nat e dei suoi insegnamenti agli schiavi della piantagione, mentre la parte finale è un omaggio (interessante ma non eccezionale e neanche giustificato) alla tradizione dei duelli finali e delle carneficine dei film western (riferimento al secondo film del mio incipit iniziale). Un omaggio è comunque anche la prima parte, vedendo il film non può non venire in mente infatti 12 anni schiavo (l'altro film di riferimento), film comunque superiore per sceneggiatura e realizzazione al lavoro di Parker che, però, ha il merito di raccontare un episodio della storia americana sconosciuto e la figura inedita di questo schiavo-ribelle. Il suo era un sogno velleitario e folle, Nat perde il controllo della situazione e sembra quasi posseduto da un delirio di onnipotenza, ma quello che ci vuol dire Parker è che anche da gesti come questo che il popolo di colore ha preso coscienza di sé e dei propri diritti. E la scena in cui idealmente il testimone del suo gesto passa a un altro giovane nero, ne è l'emblema.
Anche perché il film, attuale tutt'oggi, e il regista, denuncia l'imperante razzismo e la divisione che continua a caratterizzare gli States duecento anni dopo i primi passi mossi dal suo omonimo predecessore. Supportato da discrete e convincenti interpretazioni nonché da una buona colonna sonora, ma pure da una nitida e a tratti poetica e suggestiva fotografia si compone un ritratto audace, imponente e viscerale che riesce a sconvolgerti ma che ti fa anche pensare e riflettere. Sul passato e sul presente, su che tipo di società siamo disposti a lasciare alle prossime generazioni, se è vero che il sangue chiama sangue e la violenza si placa con ulteriore violenza. Se aveva più ragione Malcom X oppure Martin Luther King. La risposta non è scontata ma dev'essere frutto di un lungo processo di meditazione e introspezione. Anche se in ogni caso, seppur il regista offre un punto di vista equilibrato (comunque non sempre), la storia purtroppo (che altresì paga l'eccesso di retorica, tendendoli a sottolineare oltre ogni misura i momenti cruciali del racconto) nulla aggiunge ai già tanti film sulla schiavitù proposti, risultando poco sfumato e piuttosto superficiale. Ma è ugualmente un film da vedere, sempre utile per non dimenticare e ricordare che 200 anni fa, il mondo, ma soprattutto l'America era buia e tanto nera, ma nel cuore e nell'anima dei suoi cittadini, e che mai un mondo così vorremmo più vedere. Voto: 7