lunedì 8 aprile 2019

La ragazza del treno (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 22/11/2017 Qui - Dopo il personalmente deludente adattamento cinematografico di American Pastoral, un altro best-seller (che ovviamente non ho letto) subisce lo stesso tipico trattamento di chi vorrebbe emulare il risultato straordinario di un libro ed adattarlo per il cinema, ma con risultati alquanto fallimentari. Spesso infatti le trasposizioni cinematografiche di best seller che hanno emozionato milioni di lettori non rendono come dovrebbero, ma anzi perdono di qualità. Questo, spiace dirlo (soprattutto a chi ha letto il libro e probabilmente apprezzato), vale anche per La ragazza del treno (The Girl on the Train), film del 2016 diretto da Tate Taylor che, nonostante l'idea originale di fondo (e la storia potenzialmente interessante), si può definire una accozzaglia di idee mal gestite, o banalmente un polpettone (giacché essa viene raccontata con eccessive ambizioni registiche, fallendo quasi su tutta la linea). Questa classica romanzo/pellicola infatti, che ha voluto forse sfruttare il successo del buonissimo thriller L'amore bugiardo: Gone girl, dato che questo film negli Stati Uniti è uscito lo stesso periodo, ottobre 2016 contro ottobre 2014 del film di David Fincher (ed è anche abbastanza simile nei contenuti, no nel risultato), risulta essere alquanto confusionaria, sia nel passaggio dal presente al passato, sia in quello da una scena all'altra. Difatti, il continuo alternarsi tra passato e presente francamente disorienta più che intrigare, ed anche lo scorrere del tempo non viene rappresentato con chiarezza. D'altronde il pubblico predilige i film che mantengono un ordine cronologico. Per evitare questo problema, sarebbe bastato utilizzare flashback volti a mostrare quanto accaduto in passato. Sicuramente la pellicola ne avrebbe giovato e non poco.
Questo adattamento cinematografico del bestseller omonimo di Paula Hawkins, un giallo psicologico che si costruisce attorno alle riflessioni introspettive delle tre protagoniste (Rachel soprattutto, ma anche Megan e Anna), si svolge infatti tra continui salti temporali non proprio eccezionali e abbastanza noiosi. Come noioso e parecchio lento è il film stesso, che ci racconta di un treno (che passa stranamente a bassissima velocità) che collega le storie di tre donne apparentemente diverse, in realtà accomunate da un destino di solitudine e infelicità. Tutte le mattine e tutte le sere, sul treno c'è Rachel. Seduta di fianco al finestrino, non riesce a distogliere lo sguardo quando passa di fronte a quella che un tempo era la sua casa, dove oggi Tom, il suo ex marito, si è rifatto una vita assieme a un'altra donna. Incapace di accettare la fine del suo matrimonio, Rachel è ormai (a insaputa della coinquilina interpretata da Laura Prepon) un'alcolista e perseguita il suo ex tempestandolo di chiamate e messaggi. Tuttavia, quando il treno sfreccia lungo quel tratto di strada, non è la casa di Tom che gli occhi di Rachel cercano per prima, ma un'altra villa poco distante, quella di Megan e Scott, due innamorati giovani e attraenti, che Rachel ha idealizzato come la coppia perfetta. In realtà, sia Megan che Anna (la nuova moglie di Tom) non sono così felici come crede Rachel. Una sera Rachel si ubriaca e il mattino dopo si risveglia coperta di sangue, non ricordando nulla della notte precedente, se non che era scesa dal treno con l'intenzione di seguire Megan. Poco dopo, scopre che Megan è scomparsa. Il terrore di aver commesso una follia inizia a divorarla.
Peccato che, seppur la pellicola è un thriller (anche se più che un thriller direi un melodramma cupo e soffocante che affronta i problemi dei protagonisti dandoci la prospettiva di ognuno di loro e inserendo mano mano i pezzi del puzzle per comporre la storia) in cui i tre personaggi femminili principali sono ben delineati e le prove delle attrici anche sono buone (soprattutto una), l'atmosfera, che vorrebbe essere a tratti cupa, violenta e morbosa, non riesce a trasportare lo spettatore da nessuna parte (perché essa può essere anche piacevole ma certamente non scorre come dovrebbe, complice anche l'intento di voler far sprofondare lo spettatore nelle sensazioni della protagonista, in perenne stato confusionale da ebbrezza). Il problema maggiore è che non solo la storia non riesce a coinvolgere più di tanto, ma l'intreccio è come detto confusionario (seppur sufficientemente intricato), non ci si interessa troppo alla vicenda e alcune cose che succedono sono parecchio improbabili (senza dimenticare le assurde indagini poliziesche ad opera di Allison Janney). A fatica si arriva alla parte finale, tra l'altro abbastanza scontata (che ormai a metà film era abbastanza intuibile) e senza sorprese particolari. Anche perché nonostante si cerchi di disorientare lo spettatore circa gli sviluppi dell'indagine, le svolte narrative sono piuttosto prevedibili.
A deludere è anche il ritmo lento, per niente incalzante e addirittura capace di rendere alcune scene soporifere. Inoltre, non trovando evidentemente un mezzo più efficace per portarci dentro la psiche delle tre donne, la sceneggiatura fa spesso ricorso alla voce fuori campo, espediente che appesantisce diversi passaggi, risultando fin da subito un po' invadente. Interessante è invece la scelta della colonna sonora, che risulta molto incisiva e accattivante. Di certo le musiche sono adatte a un thriller ricco di suspense, anche se nella pellicola di momenti che trasmettono pura ansia ce ne sono molto pochi. Comunque in positivo c'è fortunatamente un aspetto che colpisce, ovvero l'interpretazione dei molti attori presenti. Ognuno di loro infatti ha un ruolo ben definito e ogni personaggio è caratterizzato al meglio grazie alle qualità recitative degli interpreti. Da sottolineare è la bravura (e credibilità) di Emily Blunt (che dopo tanti ruoli secondari inizia finalmente ad ottenere parti più impegnative) che presta il volto a una donna perennemente ubriaca, la quale trova nel bere l'unica via d'uscita alle sue sofferenze. L'attrice ha dimostrato di avere capacità espressive molto marcate, adatte a un personaggio dotato di grande spessore e di una forte componente drammatica come Rachel (un ruolo che, sebbene non scritto benissimo, le permette di sfruttare il suo talento).
La sua interpretazione infatti (quasi irriconoscibile e sciupata per interpretare il ruolo) è un valido motivo per vedere questo film. Ma anche gli altri non sono male, da una discreta Rebecca Ferguson (Mission Impossible: Rogue Nation) ad una meravigliosa e sensuale Haley Bennett (già vista e tantissimo apprezzata e piaciuta in Hardcore Henry). Altro aspetto sufficientemente interessante è l'aspetto umano. Anche perché il film affronta temi universali, che possono riguardare la vita di ogni uomo. Tra questi emerge quello dell'importanza (soprattutto per una donna) di avere la possibilità di fare un figlio, di amare qualcuno incondizionatamente e di sentirsi amata a sua volta. Il problema si pone quando (nonostante i numerosi tentativi) qualcosa le impone una vita diversa da quella che aveva sempre desiderato, trascinandola in un vortice di depressione che le farà perdere ciò che ha di più caro al mondo. Una situazione che, ahimè, in molti vivono oggi. Altro tema rilevante è l'abuso di alcool, un problema che spesso induce gli altri a sfruttarne le potenzialità per far credere alle persone che abbiano fatto qualcosa di poco ortodosso nei loro confronti, che siano loro i responsabili della fine di una storia (a tal proposito bello il cameo rivelatore con Lisa Kudrow protagonista). Non è sempre così, ma questo è ciò che emerge nella pellicola, quanto sia facile condizionare una persona e farle credere ciò che si vuole.
D'altronde è proprio il finale a sottolineare la vocazione della storia ad analizzare e mettere in risalto la cosiddetta prospettiva femminile, di cui Rachel, Megan e Anna rappresentano tre declinazioni. Tutte e tre donne, tutte e tre dipendenti da un uomo o, più in generale, condannate in modi diversi a un rapporto di subordinazione nei confronti del sesso maschile. L'interpretazione finale della vicenda però, cercando di valorizzare le sfumature del punto di vista femminile, finisce invece col semplificare la complessità dei personaggi, riducendo la loro caratterizzazione all'appartenenza di genere (e al loro rapporto col genere opposto). Una scelta che, se da una parte conferisce una "morale" alla storia, dall'altra si accartoccia su un simbolismo fine a se stesso. Anche perché questo femminismo di bassa lega che si respira per tutto il film è insopportabile, dato anche dal fatto che non c'è un personaggio maschile che ne esce bene oppure che non è ridotto a macchietta. A tal proposito solo sufficienti sono le prove di Luke Evans, Edgar Ramirez e Justin Theroux, quest'ultimo che, dopo la conclusione di The Leftovers, continua ad avere problemi con le donne.
Non eccezionali infine i colori, un poco accesi, un pelino troppo per un film del genere (io li avrei resi un pochino meno saturi, visto anche il tema). Non mi sono piaciute altresì le scene di sesso, anche se parziali e che lasciavano solo al pensiero, quindi apparentemente funzionali alla scena, ma sempre un po' volgari e un poco irreali, non conosco il libro, ma mi sembrano cose improbabili, come alcuni nudi (seppur intriganti) inutili. Per me l'introspezione poteva prendere lo spazio di queste scene e, al limite, suggerirle brevemente con flashback meno violenti. Per concludere Tate Taylor è riuscito, non scegliendo fra horror, giallo e noir ma anzi mescolando questi generi in modo poco appropriato, a rendere poco digeribile un film che con un altro manico (altro regista) avrebbe, data la trama veramente interessante, avere risultati molto più coinvolgenti e convincenti. Perché alla fine il film fa sentire la sua lentezza, si arriva all'epilogo (comunque violento) con la sensazione di avercela fatta. Sì, una visione la vale, ma certo bisogna impegnarsi a seguirlo. Giacché questo film, che probabilmente non rivedrei, è guardabile ma si dimentica in fretta. Seppur tutto sommato una sufficiente prova attoriale e filmica è questa qui, ma nulla di esaltante. Voto: 6