Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 16/12/2022 Qui - È una storia d'amore sui generis quella che ci racconta Paul Thomas
Anderson nel suo ultimo lungometraggio. Un film più aperto e leggero
rispetto al (personalmente deludente) Il filo nascosto, e forse per
questo molto più riuscito. Anche se questo è un film strano, circondato da un'aura che non riesco a definire, tra
il surreale e il grottesco ma comunque sempre in perfetto equilibrio tra
il racconto di formazione e il sentimentale. Grazie a una discreta
regia e ad una caratterizzazione dei personaggi piuttosto gradevole,
unita alla buona prova del cast, soprattutto quella dei due
protagonisti, la storia procede in maniera interessante e piacevole da
seguire, nonostante le oltre due ore di durata. Lascia allo spettatore
una sensazione positiva, anche se non meglio identificabile, di una
storia raccontata con dovizia e con una certa forza emozionale che si fa
ben volere fin dalle prime battute. Un film straordinario che vive di momenti perché in fondo non ha bisogno
di una storia, ma crea un mondo attorno a queste due figure senza
accenni al nostalgico. Bello davvero. Voto: 7,5
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venerdì 16 dicembre 2022
Licorice Pizza (2021)
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lunedì 1 luglio 2019
Il filo nascosto (2017)
Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 12/02/2019 Qui - Non l'avrò forse capito io, molto probabilmente mi sono un po' stufato di certi film stilisticamente, tecnicamente e cinematograficamente impeccabili però senza una storia ugualmente di livello, ma Il filo nascosto (Phantom Thread), film del 2017 scritto, diretto e co-prodotto da Paul Thomas Anderson, non mi è piaciuto. Raramente, anzi no (mi è capitato già parecchie volte), ho visto un film che presenta valori estetici così alti e, nel contempo, pare creare una barriera all'identificazione dello spettatore, quasi fosse un meccanismo che seduce l'occhio e respinge il cuore. Scenografie impeccabili, costruite con uno stile raffinato, una fotografia satura, inquadrature pittoriche, esterni dai colori chiari e interni dove predominano le tonalità bordeaux e i colori caldi dei mobili e dei vestiti. Un film costruito come il suo protagonista: formalmente perfetto, accurato, elegante, controllato. Il sarto Reynolds Woodcock (Daniel Day-Lewis) è uno degli stilisti più rinomati dell'Inghilterra degli anni '50: la sua casa veste esponenti della casa reale, della nobiltà e del jet set mondiale. I suoi vestiti sono un emblema e un segno distintivo dell'eleganza esclusiva. E' un uomo perfezionista, dominato da esigenze di controllo, incapace (apparentemente) di slanci, che convoglia tutta la sua energia pulsionale nella creazione di modelli di tendenza, lasciando alle relazioni affettive solo le briciole del suo investimento. Vive relazioni effimere con donne che lascia quando richiedono maggiore impegno nella relazione. In questo universo chiuso e autoreferenziale s'inserisce Alma (Vicky Krieps), cameriera di un ristorante che viene "riscattata" da Reynolds e trasformata in una delle sue modelle. La relazione tra i due protagonisti, inizialmente con Alma in una posizione fortemente sottomessa, evolve in modo sorprendente, fino a trasformarsi in un rapporto di dipendenza in cui lo stilista si mostra inerme e indifeso, accettando di mettersi in una posizione subalterna. Il gioco relazionale tra i due protagonisti (con la sorella di Reynolds, Cyril ossia Lesley Manville, socia della maison, nella veste della testimone della supremazia dello stilista e, in seguito, del ribaltamento delle posizioni) è descritto in modo algido e figurativamente rigoroso. L'escamotage di Alma (che non ho intenzione di spoilerare) determina un rovesciamento dei ruoli e del potere all'interno della coppia e attiva nello stilista un nucleo oscuro, una necessità di essere accudito che rivela la persistenza di un conflitto irrisolto con la figura materna.
martedì 9 aprile 2019
Vizio di forma (2014)
Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 01/12/2017 Qui - La settima fatica (e il suo terzultimo film prima del documentario Junun e del nuovo film in uscita l'anno prossimo in Italia) del quarantasettenne Paul Thomas Anderson è la prima pellicola mai tratta da un libro di Thomas Pynchon, l'omonimo Vizio di forma, ed è un film bello e (o ma?) complesso, pienamente nell'ormai riconoscibile, tanto venerato da alcuni quanto disprezzato da altri, stile del regista statunitense. Egli è infatti famoso per la coralità dei suoi film, e questo non è da meno, la pellicola è colma di personaggi, tutti funzionali alla costruzione del quadro di un'epoca, quella dell'America anni '70, rappresentata con un pizzico di nostalgia e devozione. Ne esce un paese a due facce, da una parte lo Stato che va in Cambogia a controllare il traffico di droga, i suoi funzionari (i poliziotti) intolleranti e ottusi e la borghesia bene (i dentisti) con i suoi vizi privati e pubbliche virtù, dall'altra quei ragazzi che non si riconoscevano in quel tipo di paese, gli hippy appunto, che per evadere sperimentavano droghe e che predicavano l'amore. Le prime tre categorie sono rimaste, la quarta no, e con questo il regista vuole avanzare anche una riflessione sull'America di oggi, un paese che "ha perso la sua innocenza" e lo ha fatto proprio a cavallo di quegli anni, quando Charles Manson (deceduto pochi giorni fa) commettendo i suoi delitti ha svegliato gli Stati Uniti dal quel sogno che erano stati gli anni '60. Assistiamo perciò, attraverso il personaggio principale, a questo ristagno generazionale, e seguiamo quindi una trama sotto i fumi della "maria", un (strano, quasi incomprensibile) viaggio psichedelico con visioni di un futuro prossimo aberrante ma vestito in doppiopetto. Anche perché Vizio di forma come The Master è un'opera estremamente complessa e stratificata, fin appunto dalla storia stessa ascrivibile ad un vero e proprio trip.
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