lunedì 1 luglio 2019

Il filo nascosto (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 12/02/2019 Qui - Non l'avrò forse capito io, molto probabilmente mi sono un po' stufato di certi film stilisticamente, tecnicamente e cinematograficamente impeccabili però senza una storia ugualmente di livello, ma Il filo nascosto (Phantom Thread), film del 2017 scritto, diretto e co-prodotto da Paul Thomas Anderson, non mi è piaciuto. Raramente, anzi no (mi è capitato già parecchie volte), ho visto un film che presenta valori estetici così alti e, nel contempo, pare creare una barriera all'identificazione dello spettatore, quasi fosse un meccanismo che seduce l'occhio e respinge il cuore. Scenografie impeccabili, costruite con uno stile raffinato, una fotografia satura, inquadrature pittoriche, esterni dai colori chiari e  interni dove predominano le tonalità bordeaux e i colori caldi dei mobili e dei vestiti. Un film costruito come il suo protagonista: formalmente perfetto, accurato, elegante, controllato. Il sarto Reynolds Woodcock (Daniel Day-Lewis) è uno degli stilisti più rinomati dell'Inghilterra degli anni '50: la sua casa veste esponenti della casa reale, della nobiltà e del jet set mondiale. I suoi vestiti sono un emblema e un segno distintivo dell'eleganza esclusiva. E' un uomo perfezionista, dominato da esigenze di controllo, incapace (apparentemente) di slanci, che convoglia tutta la sua energia pulsionale nella creazione di modelli di tendenza, lasciando alle relazioni affettive solo le briciole del suo investimento. Vive relazioni effimere con donne che lascia quando richiedono maggiore impegno nella relazione. In  questo universo chiuso e autoreferenziale s'inserisce Alma (Vicky Krieps), cameriera di un ristorante che viene "riscattata" da Reynolds e trasformata in una delle sue modelle. La relazione tra i due protagonisti, inizialmente con Alma in una posizione fortemente sottomessa, evolve in modo sorprendente, fino a trasformarsi in un rapporto di dipendenza in cui lo stilista si mostra inerme e indifeso, accettando di mettersi in una posizione subalterna. Il gioco relazionale tra i due protagonisti (con la sorella di Reynolds, Cyril ossia Lesley Manville, socia della maison, nella veste della testimone della supremazia dello stilista e, in seguito, del ribaltamento delle posizioni) è descritto in modo algido e figurativamente rigoroso. L'escamotage di Alma (che non ho intenzione di spoilerare) determina un rovesciamento dei ruoli e del potere all'interno della coppia e attiva nello stilista un nucleo oscuro, una necessità di essere accudito che rivela la persistenza di un conflitto irrisolto con la figura materna.
Ciò che ne consegue è una relazione gotica (dopotutto il film sembra una fusione tra horror gotico e telenovelas), in cui l'amore (che qui è un gioco ossessivo) e l'attrazione sessuale diventano vettori di sfiducia, battaglie di volontà e dialettiche di potere di proporzioni filosofiche. Alma si presenta come una modella interessata a farsi vestire da Woodcock ma, abbastanza presto, decide di invadere il sanctum sanctorum del genio dello stilista, impegnandosi in quel genere di sotterfugi e piccole ribellioni che sono spesso l'unica risorsa di qualcuno relegato al ruolo di musa e poco altro. Il regista prova a raccontarci di come le persone, quando si incontrano, spesso non si limitano ad accettarsi ma vogliono cambiare qualcosa (o tutto) dell'altro. E questo cambiamento è da un lato ostacolato, ma dall'altra ambito perché potrebbe permetterci di far emergere quei frammenti di vulnerabilità che altrimenti si è ben lungi dal poter esibire. Ma anche che il tema della possessività diventa talora un aspetto nevrotico, se non ossessivo, della nostra esistenza. Avviene tutto in un contesto di grande eleganza e cura: Paul Thomas Anderson ci presenta con riprese sinuose e un sonoro impeccabile i luoghi, i tessuti, i busti che fanno parte di quel mondo che vuole descrivere. Eppure la storia, lo sfondo edipico, la fragilità del personaggio apparentemente più forte sono una riproposizione un tantino troppo cerebrale e letteraria di una trama già sviluppata altrove. Certe opere recenti (penso a Venere in Pelliccia o ad Animali Notturni) hanno compiuto operazioni simili, forse con meno eleganza, ma con maggiore intensità e partecipazione emotiva, quando invece nel film di Anderson il finale è persino straniante. E' un'opera introspettiva, che gioca sulle situazioni e sulla personalità complessa e contraddittoria dei personaggi prima ancora che sulla sottile trama narrativa, che appunto, rimane allusivamente nascosta. L'ambientazione è quindi solo un pretesto, una cornice, ed in ultima analisi è la quinta teatrale per la messa in scena di scatole cinesi di regole, paranoie, lacerazioni irrisolte e fragilità a malapena contenute.
Ed è in questo sottile gioco di supremazia reclamata, affermata, negata e di nuovo reclamata che si dipana la vicenda del film. Un film che coniuga nel suo sviluppo il thriller psicologico con la rappresentazione della patologia amorosa. Un film che è un'ode alla bellezza (cinematografica e non) ma nel complesso non è necessariamente una pellicola soddisfacente. Il film risulta molto pesante e diventa difficile riuscire a seguirlo in toto. Questo lungometraggio è davvero lento, lento e ancora più lento e a parte le superbe interpretazioni dei personaggi, i costumi e le ambientazioni che richiamano in modo ottimale gli anni '50, sono alquanto sorpreso per quanto riguarda la nomination come miglior film (fortunatamente non l'ha vinto l'Oscar). Perché il film di Paul Thomas Anderson (regista che mi è sempre piaciuto, grazie ad i suoi precedenti tre film a questo, che appunto mi avevano convinto, certamente più di quest'ultimo), anche se magnifico sul piano delle immagini, degli spazi e della tessitura (non solo dei vestiti, quest'ultimi comunque innegabilmente di classe) rimane imprigionato in una bolla che pare togliere ossigeno ai personaggi, li colloca su un terreno intermedio tra il formalismo, il narcisismo la regressione e la manipolazione, priva i protagonisti (oltre a quelli già citati a quelli interpretati da Brian Gleeson e Camilla Rutherford), pur eccellenti nella loro performance, di movimento e dinamicità, li confina in un esercizio di stile iconograficamente splendido ma mortifero e opaco. Il film infatti nel suo insieme risulta troppo patinato ed affettato e ciò, unito alla lunga durata della pellicola, appesantisce un poco l'opera, svilendone, purtroppo, il valore. In più e a ciò si aggiunge la scarsa veridicità della trama, almeno per ciò che concerne alcuni aspetti di essa, e l'eccessiva impronta romantica (beh insomma), Il filo nascosto perde molti punti a suo favore. E ciò è un vero peccato per un'opera che, scevra da questi "sovraccarichi", sarebbe stata perfetta in tutte le sue parti (beh insomma).
Nel complesso difatti il film appare più estetizzante che convincente o coinvolgente, affidandosi alla bravura degli interpreti per puntellare debolezza di personaggi e trama. Alcuni passaggi psicologici sono sbrigativi, Alma rimane inspiegata, non mancano forzature e incoerenze in un storia che più verosimilmente si sarebbe conclusa con un catafalco e un patibolo (una smagliatura su tutte è l'utilizzo delle scene-chiave svolte in cucina ripetute due volte in sostanziale fotocopia). Il film francamente è noioso, lento, la storia di per sé potrebbe stare in piedi: l'attaccamento al proprio io talvolta può essere infranto dall'amore, ma la vicenda è raccontata in modo non solo balzano: quanto è ridicola Alma che gira nei boschi con un cesto di funghi velenosi (devono averla presa da analoga scena ne L'inganno di Sofia Coppola), ma manca alla regia (nonostante dopo il ben più riuscito Vizio di forma il regista sembrava tornare ai suoi fasti) il nerbo per condurre in modo avvincente una storia d'amore che dovrebbe essere drammatica ma diventa in una storia che si sofferma in modo rallentato su gesti, oggetti, situazioni. I dialoghi poi sono modesti. Il film dura oltretutto (come detto) più di due ore, venti minuti in meno gli avrebbero fatto bene e non è sufficiente a reggere lo spettacolo la buona interpretazione di Daniel Day-Lewis (che ha annunciato il suo ritiro, un addio piacevole vista la nomination agli Oscar 2018), buona l'interpretazione della sorella, anzi, è Lesley Manville forse la migliore, mentre Vicky Krieps fa un'interpretazione anonima e melensa, ottima (come detto) invece l'ambientazione, le scenografie e gli ambienti realizzati con estrema cura ed eleganza. In sintesi: una proposta che ha veicolato suggestioni estetiche rilevanti strameritando l'Oscar per i costumi (anche se è troppo facile così), ma allo stesso tempo un'opera che mi ha lasciato freddo e lievemente infastidito. Alfred Hitchcock diceva che il cinema "E' la vita senza la sua parte noiosa" ecco qui hanno messo la parte noiosa e manca la vita. Voto: 5