Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 02/05/2019 Qui - L'America e le sue contraddizioni (di ieri e di oggi) sono al centro dell'ultima fatica di George Clooney. Regista di un prodotto interessante e ben strutturato, capace di attirare l'attenzione grazie ad una regia brillante (e non solo). Un film, Suburbicon, film del 2017 diretto dall'attore Premio Oscar, difficile da poter inquadrare in un genere ben definito (diffidate da coloro i quali lo presentano come una commedia), risultato di una commistione di stili ed eventi volti, sì ad intrattenere, ma principalmente a denunciare e far riflettere. Il che non sarebbe un problema se non fosse che il messaggio finale del film, non che sia poco interessante o trito il tema trattato (il problema dell'odio razziale è oramai, quasi, una costante della produzione cinematografia hollywoodiana), ma sembra come se l'intera proiezione sia volta unicamente all'analisi di tale "denuncia" (che arriva dopo 104 minuti di una trama lineare e, sostanzialmente semplice, con incastri facili da comprendere e che impediscono di identificare il tutto come un vero e proprio giallo, ma che si trascina con una calma apparente, al messaggio finale di denuncia), senza dare particolare risalto a tutte le sequenze intermedie, utili solo ad arrivare alla risoluzione finale. La mano dei Coen si percepisce come fonte ispiratrice del progetto, sono loro infatti gli sceneggiatori della pellicola, ma manca nella sostanza di una trama che di originale ha davvero poco, a partire appunto dal messaggio moralistico che pervade il film, ma anche dalla classicità dello script dei fratelli. Con l'unico guizzo dell'amicizia silenziosa, fatta di gesti, dei due bambini in teoria su fronti opposti. Suburbicon propone difatti una critica all'ipocrisia generalizzata della società americana degli anni '50 (e non solo) che tende a celare pulsioni violente e oscure, e in cui la speranza di un mondo finalmente tollerante è affidata ai gesti di un bambino. Un bambino che vive in una strana cittadina americana costruita interamente a tavolino, a misura di una perfetta famiglia bianca americana.
Piccola cittadina in cui vive Garden Lodge insieme alla moglie Rose, paralitica dopo un incidente d'auto, e il figlio Nicky. La vita è tranquilla in questo complesso di abitazioni schiera, tutte uguali e perfette all'apparenza e popolate esclusivamente da tipici americani bianchi di fine anni '50. La quiete del paese è però interrotta da due eventi: l'arrivo di un'innocua famiglia di colore, che fa insorgere la comunità locale, e l'irruzione notturna dentro casa dei Lodge di due delinquenti, che stordiscono la famiglia con il cloroformio finendo con il causare la morte della moglie di Gardner, Rose. Ed egli per questo finirà per essere coinvolto in una serie di eventi che lo calamiterà in un vortice di inganni e insana violenza. Da un lato quindi la violenza sociale che sta alle spalle delle presentazioni ipocrite di una società mediocre che si è cercata e creata il suo fittizio paese in cui poter perseguire il sogno americano ad un prezzo accessibile, dall'altro si racconta la domesticità della violenza familiare, al fine di svelare quanta pochezza si nasconde dietro tutti quei sorrisi falsi da pubblicità televisiva. Il soggetto si presenta dunque come un'aspra critica alla media borghesia americana che ricerca la propria felicità in un sogno non originale e mediocre proseguendo con una lunga serie di scheletri nell'armadio sia dal punto di vista personale che sociale. Tuttavia è un'idea (seppur sempre affascinante e curiosa) che è già stata parzialmente proposta anche in Fargo per fare un esempio e che dunque non riesce a tenere sulle spine quanto dall'estetica del film probabilmente si proporrebbe. Quella suspense ricercata con delle ottime riprese, con una fotografia accurata e con delle interpretazioni estremamente ben riuscite si perde purtroppo in situazioni non ignote al pubblico, ma non lo lascia tuttavia insoddisfatto dell'insieme. Il film di Clooney infatti risulta estremamente godibile, specialmente grazie all'umorismo nero che spesso fa capolino e che rende decisamente grottesche la maggior parte delle scene e dei personaggi.
L'ironia dei Coen si percepisce e rimane il punto di forza maggiore del film, che si sposa particolarmente bene con l'ambientazione anni '50 che brilla in tutta la sua artificialità cotonata e infiocchettata (all'inizio mi ha ricordato uno dei capolavori di Burton). Si ride di personaggi malvagi non all'altezza, impacciati nella loro stessa messa in scena, ridicoli perché incapaci di gestire le conseguenze delle loro azioni, ma soprattutto si ride amaramente della miopia delle persone, che letteralmente guardano nella direzione sbagliata. Le due famiglie protagoniste infatti sono vicine di casa, ma la violenza collettiva si incanala soltanto contro il nemico razziale, la minaccia assoluta per l'omogenea, ridente comunità bianca che in men che non si dica si trasforma in una folla inferocita pronta a macchiarsi del sangue altrui. Nessuno bada a ciò che succede nella casa di fianco perché nessuno è in grado di immaginarlo. L'unica, seppur ingenua speranza è rappresentata dai due bambini, che incondizionatamente giocano da un giardino all'altro, superando le atrocità che si svolgono attorno a loro. Sono loro la speranza per un futuro migliore. Ma il futuro americano è stato davvero così migliore? Purtroppo si ride amaramente anche, a posteriori, di questo implicito narrativo. Suburbicon però presenta dei problemi, che minano la serietà e il risultato di tutto il lungometraggio. Non solo tutto quello già citato, dalla poca originalità di un soggetto classico (il tema dell'apparentemente tranquilla piccolo-borghesia americana di provincia, che tuttavia nasconde dietro alle villette a schiera e ai capelli cotonati una violenza inaudita e repressa) dei fratelli più famosi del cinema contemporaneo alla ormai immancabile, in voga critica non troppo velata (anche se la sceneggiatura è degli anni '80, ma incredibilmente più attuale adesso che prima) al Trumpismo e al suprematismo bianco. A lasciare alquanto perplessi è il modo infatti in cui i fatti si susseguono, non tanto per la regia in sé (spesso accattivante e in grado di cogliere lo stato d'animo dei personaggi con primi piani intensi) ma perché il film segue due storie contemporaneamente e lo fa senza un collegamento ben definito tra di esse.
Non mancano gli aspetti positivi: George Clooney (al suo sesto film) dietro la macchina da presa e gli attori sulla scena fanno un lavoro più che buono dal punto di vista registico e attoriale. La regia, infatti, è attenta ai dettagli e agli oggetti di scena che risultano determinanti per lo sviluppo della narrazione. Le scene sono perfettamente calcolate per essere drammatiche e, al tempo stesso, grottesche. Matt Damon (che sorprende nei panni di Gardner, il quale nasconde molto più di quanto si possa pensare, l'attore dà vita ad un personaggio ricco di sfumature, trasmettendo una naturalezza invidiabile, che invece non emergeva abbastanza in Downsizing) e la "doppia" Julianne Moore (nei panni sia di Rose che della sorella Margaret) rispettano la loro fama, cui si aggiungono chicche esilaranti come il fantastico Oscar Isaac nei panni di un investigatore assicurativo (non dimenticando il piccolo e talentuoso Noah Jupe, già brillante in Wonder), e anche fotografia e scenografia (molto accurata nei dettagli), ed anche una colonna sonora efficace seppur non straordinaria da parte di Alexandre Desplat, non sono per niente male. Ma la sensazione che si ha a fine pellicola è quella di un già visto e un già sentito, che stona con la bellezza esteriore di ciò che è passato davanti agli occhi. Un po' come quando si scarta un regalo da tanto atteso e con una confezione perfetta, ma si rimane spiazzati (e anche un po' delusi) nello trovare qualcosa di ordinario. Il film infatti paga lo scotto di risultare qualcosa di già visto. E' tutto cool, è tutto al suo posto, ma in mezzo a tanta cura manca un po' di anima. E tuttavia, seppur avrei gradito un po' di coraggio in più da parte di Clooney, che avrebbe potuto regalarci qualcosa di ancor più gustoso, Suburbicon resta ed è comunque un buon film, un film apprezzabile, grottesco, ben girato e ben interpretato (anche piacevole soprattutto se vi piacciono le ambientazioni anni '50 piene di colori pastellosi e saturi). Da non perdere anche se non eccelso. Voto: 6,5
L'ironia dei Coen si percepisce e rimane il punto di forza maggiore del film, che si sposa particolarmente bene con l'ambientazione anni '50 che brilla in tutta la sua artificialità cotonata e infiocchettata (all'inizio mi ha ricordato uno dei capolavori di Burton). Si ride di personaggi malvagi non all'altezza, impacciati nella loro stessa messa in scena, ridicoli perché incapaci di gestire le conseguenze delle loro azioni, ma soprattutto si ride amaramente della miopia delle persone, che letteralmente guardano nella direzione sbagliata. Le due famiglie protagoniste infatti sono vicine di casa, ma la violenza collettiva si incanala soltanto contro il nemico razziale, la minaccia assoluta per l'omogenea, ridente comunità bianca che in men che non si dica si trasforma in una folla inferocita pronta a macchiarsi del sangue altrui. Nessuno bada a ciò che succede nella casa di fianco perché nessuno è in grado di immaginarlo. L'unica, seppur ingenua speranza è rappresentata dai due bambini, che incondizionatamente giocano da un giardino all'altro, superando le atrocità che si svolgono attorno a loro. Sono loro la speranza per un futuro migliore. Ma il futuro americano è stato davvero così migliore? Purtroppo si ride amaramente anche, a posteriori, di questo implicito narrativo. Suburbicon però presenta dei problemi, che minano la serietà e il risultato di tutto il lungometraggio. Non solo tutto quello già citato, dalla poca originalità di un soggetto classico (il tema dell'apparentemente tranquilla piccolo-borghesia americana di provincia, che tuttavia nasconde dietro alle villette a schiera e ai capelli cotonati una violenza inaudita e repressa) dei fratelli più famosi del cinema contemporaneo alla ormai immancabile, in voga critica non troppo velata (anche se la sceneggiatura è degli anni '80, ma incredibilmente più attuale adesso che prima) al Trumpismo e al suprematismo bianco. A lasciare alquanto perplessi è il modo infatti in cui i fatti si susseguono, non tanto per la regia in sé (spesso accattivante e in grado di cogliere lo stato d'animo dei personaggi con primi piani intensi) ma perché il film segue due storie contemporaneamente e lo fa senza un collegamento ben definito tra di esse.
Non mancano gli aspetti positivi: George Clooney (al suo sesto film) dietro la macchina da presa e gli attori sulla scena fanno un lavoro più che buono dal punto di vista registico e attoriale. La regia, infatti, è attenta ai dettagli e agli oggetti di scena che risultano determinanti per lo sviluppo della narrazione. Le scene sono perfettamente calcolate per essere drammatiche e, al tempo stesso, grottesche. Matt Damon (che sorprende nei panni di Gardner, il quale nasconde molto più di quanto si possa pensare, l'attore dà vita ad un personaggio ricco di sfumature, trasmettendo una naturalezza invidiabile, che invece non emergeva abbastanza in Downsizing) e la "doppia" Julianne Moore (nei panni sia di Rose che della sorella Margaret) rispettano la loro fama, cui si aggiungono chicche esilaranti come il fantastico Oscar Isaac nei panni di un investigatore assicurativo (non dimenticando il piccolo e talentuoso Noah Jupe, già brillante in Wonder), e anche fotografia e scenografia (molto accurata nei dettagli), ed anche una colonna sonora efficace seppur non straordinaria da parte di Alexandre Desplat, non sono per niente male. Ma la sensazione che si ha a fine pellicola è quella di un già visto e un già sentito, che stona con la bellezza esteriore di ciò che è passato davanti agli occhi. Un po' come quando si scarta un regalo da tanto atteso e con una confezione perfetta, ma si rimane spiazzati (e anche un po' delusi) nello trovare qualcosa di ordinario. Il film infatti paga lo scotto di risultare qualcosa di già visto. E' tutto cool, è tutto al suo posto, ma in mezzo a tanta cura manca un po' di anima. E tuttavia, seppur avrei gradito un po' di coraggio in più da parte di Clooney, che avrebbe potuto regalarci qualcosa di ancor più gustoso, Suburbicon resta ed è comunque un buon film, un film apprezzabile, grottesco, ben girato e ben interpretato (anche piacevole soprattutto se vi piacciono le ambientazioni anni '50 piene di colori pastellosi e saturi). Da non perdere anche se non eccelso. Voto: 6,5