Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 09/04/2019 Qui - Dopo "Gloria", il regista Sebastian Lelio presenta un altro interessante ritratto di donna, anche se in questa pellicola la donna in questione è molto "particolare" perché è un transgender che, dopo la morte improvvisa del suo compagno, rimane completamente sola ed, anzi, invisa e rifiutata da tutti i componenti della famiglia a cui il proprio amante apparteneva prima della loro relazione sentimentale. Come in quel più che discreto film quindi, Una donna fantastica (Una mujer fantástica), film del 2017 diretto dal protegé di Pablo Larrain (che co-produce e presta volti noti), ha come tematica principale l'identità, portandoci così nuovamente alla lenta scoperta dei caratteri dei personaggi ed in tal caso alla loro forza o debolezza. Ma se Gloria trattava di una ridefinizione dell'identità, questo film si pone come un ideale seguito dove l'identità ridefinita duramente da un transessuale che si sente pienamente donna viene messa sempre in discussione dagli altri che lo vedono come un oggetto strano, un essere perverso o una cosa indefinibile, pertanto, alla protagonista ciò comporta una serie di discussioni e di attacchi verbali molto offensivi, a volte persino violenti, da parte degli ex-familiari che ella deve affrontare con coraggio e determinazione, insieme anche a svariate questioni pratiche, quali l'abbandono immediato dell'appartamento dove il defunto amante le permetteva di abitare e l'abbandono del cane, che le rendono ovviamente più difficile la sua condizione di profondo e sincero dolore. Dall'ex famiglia le viene, inoltre, negata la possibilità di partecipare alle onoranze funebri dell'amante data la sua particolare condizione sessuale ritenuta disdicevole ed imbarazzante e, pertanto, totalmente vergognosa. Di conseguenza per la protagonista si tratta di ricominciare lottando a mantenere ciò che ha acquisito con piena consapevolezza, cercando allo stesso tempo di essere riconosciuta dagli altri. Dopo innumerevoli "battaglie", affrontate sia prima che dopo la morte del suo compagno, la protagonista riuscirà infatti ancora una volta a non soccombere ed a volgersi verso il proprio futuro nuovamente con estremo coraggio e forza interiore.
Il film ricostruisce questa via crucis in modo sostanzialmente sobrio e con poca enfasi, anche grazie alla eccellente performance di Daniela Vega che conferisce spessore e credibilità al personaggio. Purtroppo però, in alcuni momenti, il film scade nel melodramma, rendendo la narrazione meno rigorosa e incisiva. Ad esempio alcune scene mi sono parse fuori registro e mal amalgamati. Il film, invece, è apprezzabile quando mostra l'atteggiamento di chiusura (emotiva, prima che mentale) della buona borghesia nei confronti dell'alterità che Marina incarna: gli schizzi di odio nei suoi confronti nascono dalla paura nei confronti dell'"altro da sé", dal rifiuto a considerare l'amore come motore della relazione e dall'emergere di pulsioni aggressive appena temperate da un velo di squallida ipocrisia. Insomma una proposta importante ed interessante, un po' appesantita però da alcune digressioni stridenti con l'impianto complessivo. Il film infatti contiene al suo interno, come già detto, alcune debolezze nell'impianto. Non è un film di denuncia (non solo), ma neanche un dramma borghese sui nuovi confini delle relazioni amorose. E' un'opera che tratta di diritti negati e rifiuti, di discriminazioni feroci perché attingono al campo delle pulsioni (la paura del diverso) ancor prima che a quello della ristrettezza culturale e dell'ipocrisia, di violenza (anche delle istituzioni) nei confronti di coloro che negano, nel loro corpo e nella propria vita, l'appartenenza a un genere. Peccato che, seppur il regista raggiunge il suo scopo, quello di farci pensare e riflettere su temi complessi e intriganti, proprio il regista sembra non avere risposte alle domande, comunque non semplici per chiunque francamente, che in questo caso vengono spontanee.
Perché un maturo signore, ultracinquantenne, decide di rompere con la sua famiglia per vivere con un transgender? Perché un ragazzo decide di cambiare sesso, diventare donna e vivere con un maturo signore, ultracinquantenne? E se poi lui muore, cosa succede? Ecco, il regista è incapace di trovare le parole che esprimano la sua posizione, la sua visione del mondo, lasciando che siano solo le immagini e le espressioni dei suoi attori a fornire una chiave interpretativa. E quando le immagini si indeboliscono, si affievoliscono, ecco che interviene uno specchio per moltiplicarle, in un gioco di prestigio in cui tutti sanno qual è il prodigio. Virtù o debolezza, libertà data allo spettatore di ritrovare dentro di se elementi e tracce o, semplicemente, incapacità di prendere posizione. Per il resto niente da dire, un bel film con qualche ingenuità e tante buone intenzioni, come quello dello sguardo umanista del regista, che è vanto e limite di Una donna fantastica, pellicola sensibile, senza voglia di colpire quanto piuttosto di rendere partecipi. Egli infatti antepone a una banale denuncia sociale un percorso intimista, obbligando lo spettatore a condividere la frustrazione di Marina: il suo senso di esclusione, di persecuzione, la rabbia del vedersi privata persino del diritto a "dire addio" a Orlando. Entriamo nella testa di Marina attraverso il reiterato utilizzo di intermezzi surreali (che in verità servono a ben poco), accompagnati da una colonna sonora onirica e bizzarra (insomma niente di che). La psicologia del suo protagonista è il cuore del racconto di Lelio. Tutto ciò non sarebbe concepibile senza la presenza magnetica di Daniela Vega, vera anima motrice del film e protagonista di ogni singola inquadratura.
Il suo volto è forte, non bello ma neanche sgradevole: ci appare del tutto normale, con le sue abitudini quotidiane e i piccoli vizi, e questo aiuta il senso di disagio nel vederla sottilmente maltrattata da praticamente ogni altro personaggio del cast. L'intera Santiago del Cile messa in scena in Una donna fantastica sembra volersi dimenticare che Marina esista. Non c'è odio, né artificiosità: solo gli sguardi avvelenati e le parole di finta comprensione di funzionari pubblici, poliziotti, medici, borghesi di ogni forma e carattere. Il corpo stesso della protagonista è incomprensibile, frutto di disagio e malinteso: escluderlo in fretta e per sempre dalla casa, dal funerale, dalla vita del defunto appare l'unica missione dei parenti, ed il suo diritto a vedere un ultima volta il corpo di Orlando quella di Marina. Malgrado questo, e tutto quello che di buono c'è in questo film non esente da difetti, ma soprattutto la bravura della protagonista, non siamo di fronte ad un film così bello come altri che hanno vinto il premio di "miglior film straniero" negli ultimi anni. Il film ha infatti vinto ai premi Oscar 2018 nella categoria Oscar al miglior film in lingua straniera, in rappresentanza del Cile (è il primo film cileno e terzo film sudamericano, i primi furono La storia ufficiale e Il segreto dei suoi occhi che rappresentarono l'Argentina, a ricevere tale riconoscimento), ma è evidente come in questo caso specifico si è preferito premiare il tema più che la quantità o qualità, anche perché seppur è un film di tutto rispetto, è a mio parere, non solo inferiore a molti altri (e chissà anche agli altri della cinquina che vedrò), ma decisamente e largamente a Gloria (quest'ultimo che purtroppo però ha già avuto un remake hollywoodiano). Voto: 6
Perché un maturo signore, ultracinquantenne, decide di rompere con la sua famiglia per vivere con un transgender? Perché un ragazzo decide di cambiare sesso, diventare donna e vivere con un maturo signore, ultracinquantenne? E se poi lui muore, cosa succede? Ecco, il regista è incapace di trovare le parole che esprimano la sua posizione, la sua visione del mondo, lasciando che siano solo le immagini e le espressioni dei suoi attori a fornire una chiave interpretativa. E quando le immagini si indeboliscono, si affievoliscono, ecco che interviene uno specchio per moltiplicarle, in un gioco di prestigio in cui tutti sanno qual è il prodigio. Virtù o debolezza, libertà data allo spettatore di ritrovare dentro di se elementi e tracce o, semplicemente, incapacità di prendere posizione. Per il resto niente da dire, un bel film con qualche ingenuità e tante buone intenzioni, come quello dello sguardo umanista del regista, che è vanto e limite di Una donna fantastica, pellicola sensibile, senza voglia di colpire quanto piuttosto di rendere partecipi. Egli infatti antepone a una banale denuncia sociale un percorso intimista, obbligando lo spettatore a condividere la frustrazione di Marina: il suo senso di esclusione, di persecuzione, la rabbia del vedersi privata persino del diritto a "dire addio" a Orlando. Entriamo nella testa di Marina attraverso il reiterato utilizzo di intermezzi surreali (che in verità servono a ben poco), accompagnati da una colonna sonora onirica e bizzarra (insomma niente di che). La psicologia del suo protagonista è il cuore del racconto di Lelio. Tutto ciò non sarebbe concepibile senza la presenza magnetica di Daniela Vega, vera anima motrice del film e protagonista di ogni singola inquadratura.
Il suo volto è forte, non bello ma neanche sgradevole: ci appare del tutto normale, con le sue abitudini quotidiane e i piccoli vizi, e questo aiuta il senso di disagio nel vederla sottilmente maltrattata da praticamente ogni altro personaggio del cast. L'intera Santiago del Cile messa in scena in Una donna fantastica sembra volersi dimenticare che Marina esista. Non c'è odio, né artificiosità: solo gli sguardi avvelenati e le parole di finta comprensione di funzionari pubblici, poliziotti, medici, borghesi di ogni forma e carattere. Il corpo stesso della protagonista è incomprensibile, frutto di disagio e malinteso: escluderlo in fretta e per sempre dalla casa, dal funerale, dalla vita del defunto appare l'unica missione dei parenti, ed il suo diritto a vedere un ultima volta il corpo di Orlando quella di Marina. Malgrado questo, e tutto quello che di buono c'è in questo film non esente da difetti, ma soprattutto la bravura della protagonista, non siamo di fronte ad un film così bello come altri che hanno vinto il premio di "miglior film straniero" negli ultimi anni. Il film ha infatti vinto ai premi Oscar 2018 nella categoria Oscar al miglior film in lingua straniera, in rappresentanza del Cile (è il primo film cileno e terzo film sudamericano, i primi furono La storia ufficiale e Il segreto dei suoi occhi che rappresentarono l'Argentina, a ricevere tale riconoscimento), ma è evidente come in questo caso specifico si è preferito premiare il tema più che la quantità o qualità, anche perché seppur è un film di tutto rispetto, è a mio parere, non solo inferiore a molti altri (e chissà anche agli altri della cinquina che vedrò), ma decisamente e largamente a Gloria (quest'ultimo che purtroppo però ha già avuto un remake hollywoodiano). Voto: 6