sabato 13 luglio 2019

L'isola dei cani (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 17/05/2019 Qui - Il texano Wes Anderson alla fine degli anni '90 si è imposto al mondo con Rushmore come uno degli alfieri del cinema indipendente americano. Poi con il passare degli anni è diventato molto di più di un regista "indie", è diventato uno dei maggiori registi mondiali, arrivando ad ottenere importanti riconoscimenti e ampi consensi di critica e pubblico. Nel corso degli anni 2000 ha sfornato una serie di gioielli che hanno abituato il pubblico di tutto il mondo a una narrazione di simmetrie, colori pastello, musica vintage, personaggi borderline e grandi sentimenti. Con il suo stile particolare, estremamente riconoscibile, preciso fino ad essere maniacale si dimostra continuamente come uno degli autori contemporanei più coraggiosi e attenti alla forma. In tal senso, poiché chiunque conosca Anderson e la sua poetica sa benissimo che si troverà di fronte a delle scene curate al dettaglio, in cui la simmetria la fa da padrona e i dialoghi sono sempre brillanti, si ha sempre la paura di una costante ripetizione dei temi trattati, ma Wes Anderson, che ha alle spalle forti sostenitori come altrettanti detrattori (io dalla parte dei primi), riesce a reinventare con sapienza sempre la stessa storia, più o meno la stessa storia. Perché L'isola dei cani (Isle of Dogs), film del 2018 scritto, diretto e co-prodotto da Wes Anderson, film molto atteso (sicuramente da me) che ha vinto l'Orso d'argento per la regia al Festival di Berlino 2018 (di cui era anche film d'apertura), che arriva dopo il successo mondiale di critica e pubblico di Grand Budapest Hotel e che segna un coraggioso ritorno all'animazione in stop motion dopo Fantastic Mr. Fox, è comunque un film d'animazione d'autore ricco d'intelligenza e di inventiva che, con toni favolistici e metaforici, affronta temi assolutamente attuali: l'inquinamento, l'ipocrisia e l'avidità dei potenti che schiacciano i più deboli ed indifesi (i cani potrebbero essere una metafora degli immigrati, dei poveri o fate voi), il potere che distrugge con la violenza il dissenso, la televisione che obnubila le menti delle persone ecc. Il tutto narrato come fosse un cartone animato per bambini, in cui i protagonisti sono i cani, pur non essendolo, o meglio: molto adatto ai bambini, ma anche adatto agli adulti, perché ha una narrazione parecchio più complessa di quella di un normale film d'animazione.
Innanzitutto i personaggi umani parlano in giapponese, ad essere doppiati sono solo i cani (come viene spiegato all'inizio è perché poche persone al mondo parlano la lingua dei cani), inoltre ogni cartello o didascalia (compresi i titoli di testa) è anch'esso in giapponese sottotitolato. Si gioca con la lingua, e si gioca anche con i generi: la storia è un misto tra una fiaba, un racconto d'avventure orientale e una fantascienza distopica in cui però si inserisce anche il racconto di spionaggio e il thriller giornalistico nella sotto-trama della studentessa liceale americana che sta facendo l'anno all'estero in Giappone. Inoltre, nonostante il tono fiabesco è l'unico tra i film di Anderson ad avere un pesante sotto-testo politico, un messaggio di ribellione ad ogni dittatura che passa attraverso le caratterizzazioni del dittatore (modellato con le fattezze di Stalin), delle sue azioni (violente), e attraverso la parte di thriller politico. Qua abbiamo infatti un'opera in stop motion (ma è un dato di fatto e basta, te ne dimentichi dopo pochi minuti) ambientata nel Giappone del futuro, dove i cani saranno banditi e spediti in un'isola di spazzatura, al largo. Un ragazzino troverà il modo di arrivare su questa isola (unico umano) alla ricerca del suo cane. Questo è però solo uno spunto, perché il film, geniale in molte parti, intelligente in tutte le altre, è un bel mosaico di humour, paradossi, situazioni grottesche, invenzioni inattese, particolari inaspettati. Il tutto raccontato con lo stile inconfondibile del regista, la forma c'è, il racconto c'è e ci sono anche tutti i temi cari al regista texano: le difficoltà negli affetti famigliari ma anche la grandezza di questi affetti, l'amicizia come prima risorsa per vivere l'avventura della realtà, la tenerezza dell'amore che rimette sempre tutto in discussione, una richiesta di amore piena di speranza, nonostante tutte le diversità possibili, che qua però attinge dal cinema orientale, anzi, è questo un vero e proprio atto d'amore nei confronti del cinema nipponico, con particolare attenzione per il maestro Akira Kurosawa, delle cui opere più celebri possiamo notare in questa pellicola numerosissime citazioni.
Tutto difatti, dal design dei personaggi alla regia gestita magistralmente, si rifà alla tradizione cinematografica e teatrale giapponese, con inserimenti di numerosi stilemi estrapolati direttamente dal teatro Kabuki, soprattutto per quanto concerne la caratterizzazione sopra le righe di Atari, il bambino protagonista. In particolar modo questo personaggio ha un ruolo centrale, in quanto sembra essere l'unico umano nel film ad avere una genuina purezza che lo porta a svolgere una funzione estremamente importante, in quanto ponte tra la malvagità degli Uomini e la tragica ingenuità dei Cani (tuttavia pura è anche una ragazza attivista per i diritti dei cani, che dice sempre quel che pensa). La trama è tanto semplice quanto efficace, dal sapore mitico e fiabesco, veicolata attraverso una messa in scena potente, che parla attraverso le immagini. Uno dei punti centrali del film, infatti, è proprio la comunicazione: gli umani (come detto) parlano quasi tutti giapponese, tradotto attraverso i sottotitoli, mentre i personaggi dei cani parlano in inglese (ovviamente in italiano nella versione italiana). Questo crea numerose situazioni di apparente incomunicabilità che vengono risolte con scene lunghe e spesso silenziose (forse troppo), in cui però le immagini dicono più di qualunque discorso. Sono rare le spiegazioni, tutto è perfettamente intuibile e spiccano le tematiche dell'eroismo, del perdono e anche il tema dell'ecologia, rappresentato dall'ambientazione desolante e desolata dell'enorme discarica in cui si svolge quasi per intero il racconto. Nella versione originale spiccano inoltre alcuni grandi nomi che hanno prestato le voci ai personaggi principali: da Bryan Cranston a Edward Norton, da Bill Murray a Jeff Goldblum, da Scarlett Johansson a Frances McDormand, da Greta Gerwig a Liev Schreiber, Tilda Swinton e addirittura Yoko Ono. Ognuno dei personaggi canini è tratteggiato in maniera sublime, partendo da una base stereotipata che viene sapientemente oltrepassata man mano che la storia si sviluppa, evolvendo in una certa profondità psicologica inizialmente insospettabile.
Ciò che però rende L'isola dei cani un film memorabile è il delizioso umorismo raffinatissimo (mai fine a se stesso) che il regista riesce a dosare in maniera equilibrata: non si eccede mai, ogni battuta segue un preciso tempo comico e l'atmosfera grottesca si rivela una cornice perfetta per le sferzate ironiche e continue sferrate dai personaggi. Se proprio si volesse trovare un difetto a questa piccola perla del cinema d'animazione si potrebbe notare come il ritmo cali leggermente nella seconda parte e, soprattutto, che alcuni personaggi sono introdotti troppo in ritardo rispetto all'importante funzione che svolgono. Niente di fastidioso o particolarmente grave, sia chiaro, ma sono gli unici elementi che separano quest'opera incredibile dalla perfezione, dal termine capolavoro. Non è semplice, di questi tempi, riuscire ad interessare ancora il pubblico grazie alla tecnica dello stop motion, portata avanti da pochi baluardi del filone, come la Laika, casa di produzione che ha regalato al pubblico veri e propri capolavori come Coraline e la Porta Magica e l'ultimo bellissimo Kubo e la spada magica, ma per fortuna qualcuno ancora c'è. C'è appunto Wes Anderson, anche se rispetto a Fantastic Mr. Fox la stop motion è utilizzata per raccontare una favola molto più matura, dal respiro più profondo e universale, che molto deve all'esperienza di un film come Grand Budapest Hotel. Come ultimamente sta facendo con successo Guillermo del Toro, Wes Anderson utilizza il genere della favola per raccontare in modo leggero e allegorico diverse realtà storico-sociali molto più tragiche di quanto si voglia pensare. In questo senso, se da un lato il ricorso a universi verosimili per quanto inventati veicola un certo distacco dai contenuti, su questi siamo chiamati a riflettere, siano essi positivi o negativi. Egli con il suo nuovo lavoro trova insomma un punto d'incontro armonioso e interessante con la cultura giapponese per raccontare una favola ricca di spunti profondi e metafore storico-sociali che risuonano in tutta la loro attualità. Questo grazie anche alla sua elegante regia, contraddistinta da movimenti di macchina illusori molto lunghi e da una lentezza quasi sacrale, volta a valorizzare ogni singolo personaggio.
In quest'estetica poi sono fondamentali i contributi delle (sempre fantastiche) musiche di Alexander Desplat di quasi sole percussioni e della fotografia di Tristan Oliver (esperto dell'illuminazione dei film in stop motion), una fotografia coloratissima, ma allo stesso tempo distaccata, che assorbe la freddezza di un'atmosfera ostinatamente ostile, restituendo allo spettatore lo stesso senso di disagio che ormai è penetrato fin dentro alle ossa dei protagonisti. Non è poi da sottovalutare l'idea di una violenza di fondo, che i personaggi cercano di combattere, ma che si palesa in maniera quasi sotterranea, senza mai emergere in modo traumatico, costantemente presente e ricordata quasi ossessivamente dal pezzo di rottame conficcato nella testa del piccolo Atari. L'isola dei cani è una pellicola basata sui rapporti: i cani devono superare l'idea del tradimento immeritato che hanno dovuto subire e Atari è il veicolo del tentativo di perdono, anche se ne è portatore inconsapevole. A colpire è il fatto che i cani si comportino da cani, ma mostrino una meravigliosa umanità intrinseca, pur sempre rimarcando la differenza tra le due specie. Il lieto fine sembra forzato ma è in linea con la narrazione leggera di Anderson, che riesce a comunicare problemi reali con l'arma dell'animazione, che banalizza ed alleggerisce la violenza ed i soprusi rendendoli in tono scherzoso, ma la denuncia arriva diritta al cervello ed al cuore di chi guarda. Perché nonostante le tematiche di fondo siano terribilmente drammatiche, L'isola dei cani non appesantisce lo spettatore, il quale è portato fin dall'inizio ad assumere il punto di vista dei cani e ad empatizzare con loro e con la loro difficile situazione. Insomma, Wes Anderson tira fuori l'ennesimo coniglio dal cilindro, regalandoci un paio d'ore di spensieratezza e qualche settimana di riflessione. Perché, come detto, egli colpisce al cuore degli spettatori, donando al pubblico una fiaba contemporanea particolarissima, popolata da personaggi spassosi ma allo stesso tempo profondi, memorabili sia per la loro caratterizzazione, che per il modo in cui sono stati realizzati da un punto di vista puramente visivo. La forza del regista è quella di saper comunicare potentemente la propria poetica sia con un film articolato come Grand Budapest Hotel, che con una pellicola completamente diversa come questa, rendendo il suo stile comunque manifesto. Una pellicola che agli ultimi Oscar è stato battuto per il premio di migliore film d'animazione da Spider-Man - Un nuovo universo (che non ho visto), ma che per me è al momento il miglior film d'animazione da anni a questa parte. Voto: 8