Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 23/06/2017 Qui - Di Denis Villeneuve, uno dei registi che in questo periodo è molto apprezzato da critici e cinefili, ho visto solamente l'eccezionale Sicario e probabilmente a conti fatti il suo più importante lavoro insieme ad Arrival, ovvero La donna che canta, con cui è stato candidato all'Oscar al miglior film straniero, ma dopo aver visto anche Prisoners, film del 2013 diretto dal regista canadese e interpretato da Hugh Jackman e Jake Gyllenhaal, posso affermare che nel futuro potremo tranquillamente fare affidamento su di lui, perché anche questo affascinante thriller ha tutti gli ingredienti necessari per essere uno dei film thriller tra i più riusciti degli ultimi anni, anche se attinge a qualche stereotipo del genere e sebbene il tema del rapimento di bambini sia anche troppo sfruttato nei thriller made in USA. Ma la pellicola, permeata da una sensazione di tensione ed inquietudine dal primo all'ultimo fotogramma, si rivela a conti fatti (meglio che in The Captive: Scomparsa) un ottimo prodotto di intrattenimento che mantiene quel che promette (tensione e colpi di scena dall'inizio alla fine), sapendo farsi perdonare altresì la durata abbondante (146 minuti, che non devono comunque spaventare, dato che non ci si annoia affatto e si resta col fiato sospeso per riuscire a capire come andrà a finire) con l'assenza di scene o personaggi ridondanti, poiché la sceneggiatura non ha quasi niente fuori posto. D'altronde uno dei punti di forza del film è senz'altro lo sviluppo della trama, che ci porta sempre sul punto di prendere una decisione, salvo sconfessarci dieci minuti dopo, è colpevole, o no? E cosa significa quell'indizio? Ebbene, notevole è come il regista costruisca un vero e proprio "labirinto" di ipotesi ed immagini, non casualmente, visto quanto sarà ricorrente nel film quella stessa immagine.
Come detto, il contesto è quello, visto in mille altre pellicole, della classica "provincia americana", quella solcata da pick-up polverosi e punteggiata di tranquille villette medio-borghesi che magari in realtà nascondono qualche segreto, con strade affiancate da fast-food senza pretese e centri abitati a interrompere foreste ancora rigogliose. Un tipo di ambientazione funzionale a creare una certa atmosfera o a suggerire forse una chiave di lettura simbolica per l'intera storia, che se non viene "letta" soltanto come una trama di puro intrattenimento può essere interpretata anche come una metafora di alcune contraddizioni della società americana, dal rapporto fra i cittadini e la legge alla voglia di "giustizia privata" dell'uomo qualunque, con in aggiunta un "sotto-testo" religioso di notevole spessore. Proprio in questa chiave, anche se molti considerano forse il personaggio interpretato da Hugh Jackman come quello centrale dell'intera vicenda, la sensazione è piuttosto che sia il detective di Jake Gyllenhaal (molto convincente peraltro anche a livello di mimica corporea nella sua caratterizzazione) a vestire i panni del protagonista, nonché del vero eroe americano tormentato ma capace di redimere col suo caparbio senso del dovere le storture del sistema.
Sistema che, ingabbiato troppe volte da dubbi etici e morali o errori di valutazione, si perde tra i meandri della legalità e illegalità. A tal proposito questo sorprendente thriller (soprattutto per la capacità di scandagliare fino in fondo le anse più nascoste dell'animo umano, quelle che ognuno di noi non osa neppure guardare) ci mette di fronte a delle sole (e poi tante altre) domande, cosa saremmo disposti a fare per salvare i nostri figli? Cos'è disposto a fare un padre disperato per salvare la propria figlia rapita? Cos'è disposto a rischiare per mantener fede alla promessa di proteggerla contro i mali del mondo, fatta a se stesso ed all'amata moglie? Tutto e di più probabilmente. In tal senso il film di Denis Villeneuve, con la sceneggiatura di Aaron Guzikowski, si cimenta in questo difficilissimo compito, coraggioso e al contempo apprezzabile è il suo tentativo, i drammi e gli strazi subiti dalle famiglie vittime di queste tragedie infatti, delle quali sono piene le cronache degli ultimi anni, sono difficilissimi da raccontare negli inquietanti e devastanti scenari e nei dolorosi aspetti emotivi, ma con l'aiuto anche del cast il risultato è certamente riuscito, giacché il film trasmette allo spettatore un "accenno" (ed è già un discreto risultato) di quello che dev'essere l'immenso senso di impotenza e la straziante disperazione che devasta le famiglie vittime di queste disumane violenze.
Ma per capirci meglio snoccioliamo la trama, che racconta di Keller Dover (Hugh Jackman), un onesto rappresentante della classe operaia (falegname di professione), che si ammazza di lavoro per la propria famiglia, unico e concreto punto di riferimento della propria vita, ma quando suo figlia Anna sparisce insieme all'amichetta Joy durante la festa del Ringraziamento trascorsa insieme ai vicini di casa (che avrebbero dovuto, soprattutto i fratelli più grandi tener d'occhio), l'uomo vede il proprio mondo e le proprie certezze crollare sotto i colpi del destino avverso. Gli fa da contraltare il detective Lockee (Jake Gyllenhaal), bolso e pieno di tic, eppure (o proprio per questo) straordinario per l'acume investigativo, mastino instancabile nella ricerca delle rapite. I sospetti inizialmente si focalizzano su un povero minorato mentale, Alex (Paul Dano), un relitto umano che vive con la zia ma con l'abitudine di vagare senza meta su un camper fatiscente, sospetti che tuttavia ben presto decadono. Non vi sono prove materiali a suo carico né il ragazzo, con le sue modeste capacità intellettive, appare in grado di organizzare il rapimento di due bambine, nonostante una serie di circostanze portino a pensare che ne sappia sull'argomento molto più di quanto non dicano i suoi ostinati mutismi.
E quindi mentre Lockee continua senza sosta nella sua disperata ricerca (fra intoppi burocratici e depistaggi), Keller si convince che il ragazzo nasconda la verità e perciò pur disposto a rinunciare alla propria umanità pur di salvare la sua bambina, lo sequestra segregandolo nella vecchia e abbandonata casa di famiglia. Ma la cittadina di provincia rivelerà di avere più scheletri in cantina (letteralmente) di quanto si potesse immaginare, fino a portare all'agghiacciante verità (su cui non mi soffermerò), che ovviamente senza anticipare lo sviluppo con i dovuti colpi di scena non svelerò a chi non l'ha visto. In ogni caso, più che sulla trama, avvincente e con l'indiscutibile merito di coinvolgere e annichilire lo spettatore, è meglio soffermarsi sui sotto-testi, che fanno di Prisoners (titolo fu mai più azzeccato, dato che tutti i protagonisti, metaforicamente o realmente, sono prigionieri e si è altresì condotti a riflettere sul libero arbitrio) un thriller dell'anima. Il primo è quello religioso, palesato nelle parole della preghiera con cui si introduce la vicenda, ripresa poi in uno dei momenti più drammaticamente intensi della pellicola. L'altro (già anticipato), meno immediato ma non meno importante, è la fragilità dell'animo umano, tutti i personaggi di fronte alla tragedia e allo strazio reagiscono infatti in modi e maniere che dovrebbero essere alieni in persone cresciute nel rispetto della civiltà e del rispetto reciproco.
Se Keller difatti non esita a mettere da parte i propri limiti morali (mentre la moglie Grace si abbandona alla più nera disperazione), Franklyn, il papà di Joy, sembra annichilito dai propri scrupoli morali e di contro un sostegno più deciso ed inaspettato (soprattutto per gli spettatori) arriva a Keller dalla mamma di Joy e moglie di Franklyn, Nancy. I prigionieri cui fa riferimento il titolo del film insomma sembrano proprio loro piuttosto che le due bambine, prigionieri delle proprie paure, delle proprie contraddizioni, ma anche prigionieri del castello di certezze che si erano costruiti (esattamente come fa ognuno di noi, e qui sta forse l'abilità maggiore del regista, sfruttare una situazione di base assolutamente comune per scaraventare lo spettatore in un incubo terribilmente realistico) e crollato miseramente di fronte a quanto di più tremendo possa accadere a un genitore, la sparizione del figlio. Per questo il film è davvero straordinario, anche se paga alcuni dazi, come l'eccessiva durata, la colonna sonora (leggermente ripetitiva), alcune piccole incongruenze, come il mancato riconoscimento del cadavere in casa del prete, che avrebbe fatto subito risalire al colpevole, ma anche l'introduzione depistante del ragazzo col trauma infantile è confusa e poco credibile, infine qualche taglio e un po' più di sintesi l'avrebbero portato dalle parti dell'eccellenza. Per fortuna il film è ben realizzato quanto a tensione e coinvolgimento da superare facilmente la sufficienza e ben altro.
In un film dove la regia del pluripremiato e bravissimo Denis Villeneuve (di cui aspetto di vedere altri suoi prodotti, uno probabilmente a breve) è molto accurata e in cui gli attori sono tutti a proprio agio nelle rispettive parti (anche se due sono poco sfruttati e poco decisi, parlo ovviamente di Terrence Howard e Dylan Minnette), soprattutto Jake Gyllenhaal (attore sempre in crescita), che ci offre un'interpretazione magistrale. Ma anche Hugh Jackman (maschera umana di straordinaria sofferenza), perfetto nel ruolo del padre disperato, dimostrando allorché di saperci fare anche nel campo drammatico e non soltanto nell'action. Tra gli altri invece, ottima ambigua performance di Paul Dano, che si ritrova con una parte borderline di straniamento (e lui ne approfitta in tutti i modi), Maria Bello, che passa dalla solarità delle prime scene alla modalità off (solo una madre può capire fino in fondo certe cose), Melissa Leo, che quando deve si erge a livello superiore, senza dimenticare il premio Oscar 2017 Viola Davis. In definitiva quindi un gran bel film che tiene incollati per quasi due ore e mezza, forse solo sul finale si perde qualche colpo, anche se un filo di incertezza viene mantenuto con un taglio conclusivo secco e tagliente, ma probabilmente si poteva avere anche più coraggio arrivati a quel punto. In ogni caso film avvincente, intenso e più che discreto, anche se sinceramente m'aspettavo di più, ma va bene lo stesso. Voto: 7+