Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 22/06/2017 Qui - Del film Pelè (Pelé: Birth of a Legend), film biografico del 2016 scritto e diretto dai fratelli Jeff e Michael Zimbalist, incentrato sulla vita dell'ex calciatore brasiliano Pelé, ne avevo già parlato in occasione della sua uscita nei cinema più o meno un anno fa (qui), in cui avevo anche espresso il mio pensiero su di lui, la vita e la carriera di quello che ho sempre ritenuto essere il più forte e il migliore calciatore di tutti i tempi, sia calcisticamente che umanamente parlando, che fu addirittura personalmente tema di studio negli esami di terza superiore, perché lui, conosciuto in tutto il mondo per i tanti successi e i tanti record, era ed è soprattutto un grande uomo, un grande brasiliano. E il film, anche se con qualche pecca, riesce nell'intento di renderlo, anche a distanza di anni, un personaggio iconico e leggendario, ancor più se si pensa che proprio lui rivitalizzò un paese intero, caduto in una perenne tristezza da quando nel 1950 il Brasile perse la finale della Coppa del Mondo a discapito dell'Uruguay, perché solo 8 anni dopo, in seguito ad una promessa fatta a suo padre, riuscì nell'impresa di portare a casa il trofeo, una vittoria clamorosa che cambiò radicalmente il calcio e il modo di vedere dei brasiliani e non solo. Il film infatti, che narra la storia romanzata (dall'infanzia difficile nelle favelas di San Paolo a il rapporto con il padre Dondinho, fino alla vittoria del suo primo mondiale nel 1958 con la nazionale brasiliana a soli 17 anni) del calciatore Edson Arantes do Nascimento, divenuto celebre in tutto il mondo come Pelé, ripercorre tutti i momenti più importanti della sua miracolosa ascesa, che culminò (e cominciò) appunto nella vittoria del Mondiale. Lui che con alle spalle una vita di sacrifici e un'infanzia di povertà e con il suo stile di gioco poco classico ma autentico e il suo spirito imbattibile per superare tutte le avversità, trovò la via della grandezza e ispirò un intero Paese cambiandolo per sempre.
Ma se il personaggio non viene affatto messo in discussione, lo viene invece messo questo film, che seppur bello è pur sempre un film di serie B, per fattori come le interpretazioni o la fotografia (anche se quest'ultima si ritaglia momenti memorabili durante la pellicola) ma in questo caso avranno un ruolo marginale. A fine visione però, proverete soddisfazione e anche un po' di "commozione", poiché questo è il classico esempio di come in un film carico di emozioni, la tecnica perde importanza venendo messa in secondo piano. Dato che certamente, come già anticipato, non vi troverete di fronte a grandi interpretazioni, ma non è importante (in questo caso) poiché tutto è compensato da una buona regia e un utilizzo frequente di effetti, specialmente durante le partite, che fanno diventare fantastico anche un semplice stop. Ma è il tema (della "ripresa") che prende il sopravvento anche sul protagonista e l'anima di un Brasile ormai demoralizzato che tramite lo sport riesce a ritornare in vita come un tempo, quello che prende di più, perché vi farà sentire soddisfatti in quanto è qualcosa che ognuno di noi ha provato o proverà quasi sicuramente nella vita. In più viene analizzato anche un altro argomento, l'inseguimento dei propri sogni. Tutti ne hanno uno ma in quanti sono riusciti a realizzarlo? Il giovane Edson ci riesce e ci riesce fin troppo bene, facendoci ricordare che andare fino in fondo, anche con sacrifici, è un rischio ma un rischio che bisogna correre se si vuole arrivare in alto.
Ci sono infatti tutti gli ingredienti della favola nel film, ma i due registi non cadono nella pur facile trappola, la narrazione difatti, supportata da una pregevole fotografia, porta lo spettatore al trionfo finale del giovane prodigio con una naturalezza senza retorica, trionfa il calcio, trionfa lo sport ma soprattutto trionfa l'uomo, un giovane uomo che diventerà il più grande calciatore di tutti i tempi, in un efficace tributo a un grandissimo del calcio e non solo che, dalla strada alla finale del campionato del mondo passando attraverso momenti di intensa emozione come solo un bambino può vivere nella ricerca di una vita diversa che riscatti quella di un padre ex calciatore che si guadagna da vivere pulendo i bagni di una casa di cura, riuscì in un'autentica impresa sportiva, sembra infatti impossibile che a soli diciassette anni, un ragazzo possa vincere un mondiale segnando in semifinale e finale e prendendo a "pallonate" sia i francesi che i fortissimi svedesi dell'epoca. Eppure è davvero successo, anche se purtroppo il film non gli rende ampiamente merito, perché seppur gradevole esagera un po'. Poiché ovviamente ci sono delle parti ampiamente romanzate ed oserei dire nazionalistiche, tipo giocatori e mister svedesi che insultano gratuitamente i rivali sudamericani, tuttavia ce ne sono altre interessanti. Non conoscevo ad esempio, e credo che sia vero, l'immenso amore familiare e, cosa probabilmente più interessante, quanto i brasiliani fossero legati alla "Ginga", estro, fantasia, libertà di azione e gesti tecnici evoluti.
Infatti se imprigioni un giocatore verdeoro in severi schemi tattici di fatto lo rendi triste, magari la pensassimo un po' così in Italia al posto di parlare solo e sempre del risultato, ma non sempre (per colpa di banali cliché) il messaggio arriva. Perché chiaramente si poteva fare di più a livello di sceneggiatura, ma già raccontando la storia calcistica della "perla nera" si racconta un sogno ad occhi aperti. In tal senso bellissime sono le scene dei bambini partecipanti al torneo (4 piccole canaglie) e suggestive e comunque affascinanti (seppur alquanto forzate) le scene di calcio giocato. In ogni caso la regia curata dai fratelli Zimbalist è buona, tanto che il film scorre bene senza punti morti, in pratica non si ci annoia mai nella visone del film, tutto poi reso migliore dalla prestazione del giovane Kevin De Paula sia nella parte attoriale si in quella pratica delle acrobazie che fa con il pallone (il bambino invece è interpretato da Leonardo Lima Carvalho). Vincent D'Onofrio anche se entra in scena nella seconda parte del film rende bene e fa una buonissima figura come lui l'attore Seu Jorge che interpreta Dondinho il padre di Pelè conosciuto soprattutto per la sua partecipazione al film City of God dove interpretava Manè Galinha. Senza dimenticare Colm Meaney nella parte dello spocchioso allenatore svedese e Diego Boneta (Scream Queens e Rock of Ages), nientemeno che in quella di Josè Altafini (che si faceva chiamare Mazzola).
Da menzionare anche due piccole chicche, in questa versione italiana infatti, tutti da godere sono i frammenti di telecronaca degli incontri affidati alla voce dell'eterno Bruno Pizzul, ma soprattutto da vedere è il cameo di Pelè che viene inquadrato nell'albergo quando i giocatori del Brasile palleggiano nell'atrio e dove è lo stesso Pelè attore che si scusa con il vero campione per avergli rovesciato il caffè, facendoci anche vedere il suo sorriso mentre ammira quei ragazzi che giocano con il pallone con il cuore e spensieratezza della gioventù. Per concludere questo è un discreto film biografico sulla vita personale e calcistica del fenomeno mondiale Pelè che ha cambiato il modo di vedere di questo gioco al mondo, e che mi ha fatto scoprire cose della sua infanzia che molti non conoscevano, di come per un trauma da bambino non avrebbe più giocato a calcio se non fosse stato per il padre a invogliarlo a continuare a guardare avanti, un film che ci fa vedere cosa è il calcio per i Brasiliani, cosa che già molti sapevano ma che qui in questo film lo mostra per intero. Giacché questo film fa riflettere e fa emozionare, un film dove il resto non conta, ed è per questo che consiglio a chiunque di andare a vederlo più per un fatto emotivo e intrattenitivo che per un fattore tecnico e di bellezza visiva (che comunque non manca). A me infatti, anche se proprio eccezionale questo non è, ed anche se troppe piccole forzature ci sono, è un film che mi è tanto piaciuto, ma non tantissimo. Voto: 7