Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 28/09/2017 Qui - Fare tabula rasa, demolire tutto ciò che sta intorno, smontare pezzo per pezzo al fine di raggiungere il cuore malato delle cose, di scoprirne l'ingranaggio difettoso. Si parte da un frigorifero per finire con un'abitazione, nella speranza di trovare l'automatismo inceppato. E' ciò che fa Davis (l'intenso Jake Gyllenhaal) nel film Demolition: Amare e vivere (Demolition), film del 2015 diretto da Jean-Marc Vallée, impassibile dinnanzi alla morte della moglie, anestetizzato da una vita fatta esclusivamente di astratti bilanci finanziari ed ingabbiato in un rapporto matrimoniale nel quale, forse, non ha mai creduto. Insensibile al dolore affronta la dipartita a suo modo mentre monta lo stupore del suocero, incapace di comprendere tale apatia. L'apatia di un giovane uomo che non sapendo come ripartire, decide di "distruggere" (anche se in modo insolito e particolare, ma interessante ed efficace grazie al regista) qualunque cosa. Dopotutto la metafora della distruzione (molto diretta, anche troppo diretta, con toni volutamente esagerati e grotteschi) è sicuramente centrata da Jean-Marc Vallèe, regista di grande talento capace di catturare l'interesse dello spettatore passando per vie anticonvenzionali. Giacché Demolition è un'originale e mai mesta elaborazione del lutto (tramite un'insolita lettera, e poi tante altre, al servizio clienti di una macchinetta inceppata), ma anche una ricerca del proprio io soffocato dal mondo circostante, quello reso sterile dall'assenza di sentimenti e dall'individualismo sempre più esasperato.
Il rinnovamento scatta casualmente dopo l'incontro con Karen alias Naomi Watts (altro personaggio alienato dal punto di vista lavorativo) centralinista posta al servizio clienti di un'azienda appunto specializzata nell'installazione di distributori automatici. Lei infatti, per colpa delle incessanti lettere di lui (lettere in cui ammette di non amare il suo lavoro e nemmeno aver amato sua moglie, e non ne capisce il perché), si sente interessata e coinvolta, è sola con un figlio dodicenne indeciso sulla sua sessualità, fuma marijuana, ha un rapporto anche sentimentale col suo capo e si sente inadeguata e insoddisfatta. E sarà proprio lei, insieme al figlio "ribelle" a scuotere Davis, che nel frattempo decide di darsi da fare, cambiando totalmente le sue abitudini, si licenzia, diventa "trasandato" (indossa abiti da lavoro e smette di radersi il petto) e inizia a smontare tutto ciò che trova, elettrodomestici, porte, la sua stessa casa, nel tentativo di darsi delle risposte. "Tutto è una metafora", si dice quindi il protagonista, con l'idea di ripartire dai singoli pezzi, per potersi ricostruire, ma il primo a rendersi conto che non funziona è lui stesso, incapace, dopo aver ridotto tutto ai minimi termini, di rimontare alcunché. La risposta va trovata altrove, forse in un rapporto tenero e casto con una donna, forse nel cominciare a prendersi responsabilità nei confronti degli altri.
Costruito sul ritmo delle lettere e sull'ironia con cui il regista guarda al protagonista, Vallée gioca elegantemente col montaggio, passando dal passato del matrimonio al presente solitario, e scandendo (forse indulgendo anche un po' troppo) con asettiche immagini il benessere materiale di Davis e la sua disperazione interiore. Un po' semplicistica e stereotipata invece sembra la descrizione di Chris, il figlio di Karen, anche se offre spunti interessanti sulla figura paterna. Brava Naomi Watts, ma soprattutto Jake Gyllenhaal, perfettamente compreso nel mostrare un percorso travagliato, alla ricerca di quella "cognizione del dolore" senza la quale ogni demolizione risulta inutile. Inutile non è questo film, un film coinvolgente, ben interpretato e dotato di un ritmo narrativo che si mantiene costante fino alla fine, abile nell'offrire spunti interessanti e di una certa attualità, nonostante l'ordinarietà che li avvolge. Ma quello che mi è piaciuto del film di Vallee è la capacità di coinvolgere nonostante altresì una caratterizzazione dei personaggi leggermente irritante, in una storia dove brillano e tengono banco le interpretazioni, Gyllenhaal ovviamente su tutti gli altri, mentre dialoghi e situazioni si contraddicono con disinvoltura.
Una elaborazione del lutto "psico-intellettuale-chic" raccontata nella pellicola però efficacemente nonostante tutto, poiché anche se la pellicola è abile nel far storcere il naso per la palese voglia di apparire anticonformista, riesce facilmente a non annoiare. Poiché da un'idea di partenza non originale il regista riesce a creare qualcosa di davvero interessante e quasi unico. D'altronde questo "drammone", girato con il suo classico stile nervoso dal regista canadese di Wild e soprattutto di Dallas Buyers Club, piace, piace perché mette sempre a tema il disagio che ci portiamo un po' tutti dentro, quel non sentirsi mai a posto. Dopotutto Vallée è uno che ci sa fare con gli attori (qui infatti Jake Gyllenhaal è un fenomeno, come spesso gli capita) e realizza sempre delle opere sentite e sincere. Un'opera coinvolgente, introspettiva e metaforica ma non scontata (o assurda dato l'incipit) e ricattatoria. Perché anche se un pacchetto di dolciumi non erogato è il fattore scatenante di un rapporto (strano) al quale Vallèe concede comunque un azzeccato start fuori norma e simpaticamente anacronistico (lo scambio epistolare), egli evita facili e scontate liaison romantiche, costruendo così un altro pezzo di vita sui generis attraverso un racconto che rischia di incepparsi solo quando devia verso pene adolescenziali tra ribellione e problemi di identificazione sessuale.
Uno snodo però necessario per certi versi ma che avrebbe forse meritato maggiori articolazioni in quanto sbilenco rispetto la linea narrativa principale, perché c'è troppa carne al fuoco e un personaggio (quello della Naomi Watts) lasciato a metà. Alcuni passaggi poi eccedono in bizzarria (anche se davvero straordinari sono, il balletto soprattutto) e il reiterato simbolismo non sempre fila via liscio. Ma sono peccati veniali in fin dei conti, piccole sbavature di un film che lascia perdere le facili commiserazioni cogliendo nel paradosso della rabbia costruttiva (con conseguente disfacimento materiale e sentimentale) il viatico per la rinascita. Un film certamente strano (meno riuscito del film tre volte premio Oscar ma migliore dell'ultimo suo visto, ovvero Wild), contraddittorio ed anche irrisolto, decisamente a tratti sopra le righe, ma complessivamente una buona visione, dato che di film che mettono a tema l'ansia dello stare al mondo, la ricerca della felicità e di un punto fermo, di cui a volte si ha bisogno, non sempre riescono nel loro intento, ma questo sicuramente ci riesce, perché è bello (non solo drammaticamente), interessante, musicalmente intrigante (belle sono le musiche e la colonna), leggero, ovviamente coinvolgente e soprattutto riuscito. Voto: 7