Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 05/09/2017 Qui - Ho sempre desiderato una scimmietta, tipo quella de Una Notte da Leoni, ma anche quella del film Ace Ventura con Jim Carrey oppure quella "sfortunata" nel film di Indiana Jones (se odio i datteri lo si deve soprattutto per quel motivo), certamente non quella che in Monkey Shines: Esperimento nel terrore (Monkey Shines: An Experiment in Fear), film del 1988 diretto e sceneggiato da George A. Romero, di cui questa rassegna ad opera della combriccola di blogger (di cui lista trovate a fine post) gli rende onore dopo la sua recente dipartita (avvenuta il 16 luglio scorso), a causa di un esperimento alquanto controverso ha comportamenti non totalmente consoni e distruttivi. Il film infatti, del regista ex settantenne, comunemente definito Re degli zombie, giacché i suoi film prevalentemente sui morti viventi hanno ridefinito e portato i suddetti film di genere ad un livello qualitativamente più alto, è un fanta-thriller (non certamente un horror in piena regola) sul tema della violenza indotta da una sperimentazione scientifica indifferente a limiti etici e al rispetto degli individui. Monkey Shines difatti, che non avevo in ogni caso mai visto (al contrario ovviamente dei suoi piccoli grandi e geniali capolavori) è un film completamente diverso dallo zombie-movie sofisticato a cui aveva abituato il proprio pubblico. Ma a testimoniare il suo genio, sforna ugualmente uno splendido e suggestivo thriller psicologico, seppur atipico e poco "Romeriano" vista la forte componente drammatica mentre è misera quella sociale/horror, che occhieggiando nientemeno che a La Finestra sul Cortile di Hitchcock, trascina lo spettatore rapito nei meandri allucinanti della mente umana e non solo. Giacché le cose migliori della pellicola (che in ogni caso non è stata per me facilissima da vedere) sono proprio quelle inerenti al dramma vissuto dal protagonista, costretto su una sedia a rotelle per colpa di un grave incidente. Regista (molto abile anche nel definire i caratteri dei personaggi) e attore sono infatti bravi nel rappresentare la sofferenza, la rabbia repressa e l'impotenza di chi vive una situazione simile. E ne ha da vendere Allan (Jason Beghe), da prestante e atletico ragazzone a paralitico in sedia rotelle in pochissimo tempo. In balia di una madre assillante, che mette a servizio del figlio un'infermiera, ossessiva e bisbetica (Christine Forrest), che diventa una sua fida confidente, e abbandonato dalla sensuale fidanzata (Janine Turner) sprofonda nella depressione totale.
Ed è a questo punto entra in scena Ella, scimmietta tuttofare (debitamente addestrata, affinché lo aiuti nelle piccole faccende di vita quotidiana) geneticamente modificata (ad insaputa di Allan), donatagli dall'amico ricercatore (John Pankow), una sorta di strampalato "mad doctor". La scimmietta, sottoposta ad iniezioni di un particolare siero di derivazione umana (con lo scopo di studiare le conseguenti modificazioni psichiche e somatiche dell'animale), entra però in completa simbiosi con il suo padrone arrivando a captarne i pensieri più reconditi (sia le poche gioie che i profondi turbamenti). Ella diventa così il braccio armato del protagonista (mettendo in atto azioni vendicative semplici ed efficaci), una pericolosa appendice senza freni, disinibita da ogni freno morale e pronta a trasformare in violenta realtà gli attacchi collerici cui è soggetto il suo sventurato amico, mettendo altresì costantemente in pericolo i suoi amici e familiari, compresa la stessa addestratrice Melanie Parker (la bella Kate McNeil), di cui Allan è, dopo un bellissimo approccio (di una sensibilità che piacerebbe ricevere anche da me che vivo una situazione simile), perdutamente innamorato. La situazione infatti si farà molto pericolosa, e non sarà facile venire fuori da questa situazione divenuta velocemente complessa, ma con intelligenza, astuzia, un pizzico di benevolenza e forza di volontà riuscirà a venirne a capo.
Una situazione, narrativamente parlando, che si svolge in modo sobrio, costruita con tecniche visive in gran parte artigianali, il dialogo è scorrevole e ben teso, la drammatizzazione pur non essendo eccelsa non è da disprezzare e si svolge prevalentemente in spazi interni, chiusi, come è tipico nel genere horror che sembra trarre linfa proprio da situazioni ambientali ben definite che si configurano efficacemente nella retina dell'occhio per circoscrivere meglio la tensione, rendendola famigliare o relegandola, come spettacolo, in una sorta di anfiteatro immaginifico. Perché in Monkey Shines, film horror-fantascientifico del tutto originale, anche se ha un debito con la letteratura perché l'idea di fondo è tratta da un libro di Michael Stewart, grazie anche alla regia di Romero (precisa e pulita anche se non sempre riconoscibile) ed al buon soggetto, con una trama interessante all'inizio anche se poco sviluppata nel proseguimento dove perde un po' di brio e di interesse, l'intreccio parte in modo abbastanza lento e lineare, gli attori sono più che credibili nelle loro parti e coinvolgono lo spettatore nel dramma dell'uomo che da libero si ritrova in un attimo prigioniero in un corpo immobile. L'elemento innaturale viene invece introdotto con la presentazione degli esperimenti un po' insensati di Geoffrey, tipico scienziato pazzo che non ha granché idea di quello che sta facendo, anche se alla fine (quando ormai sarà troppo tardi) qualcosa scopre davvero.
L'epilogo vedrà difatti un Geoffrey sacrificarsi sull'altare della conoscenza, nel vano tentativo di cancellare la mostruosità messa al mondo. E vedrà anche la fine dei vari personaggi minori, più legati ai sentimenti di Allan e per questo più esposti ai suoi inconsci desideri di distruzione. E quindi allo scontro quasi titanico tra una genuina intelligenza umana, liberatasi a fatica dai lacci della propria bestialità, e un'aberrazione di essa, indotta in una specie "evoluzionisticamente" affine, ma inferiore. Sarà l'inestricabile connubio tra animalità e ragione dell'uomo infatti ad avere la meglio, a porre fine all'ennesimo fallimento della scienza, a scovare nonostante tutto proprio in quest'ultima una nuova speranza per il futuro. In un finale però vergognosamente rovinato dal consolatorio finale imposto dalla produzione che vede il protagonista sfuggire, perfettamente guarito, alle torture della scimmia. Il film poi, comunque non privo di tensione, pecca anche sotto il profilo tecnico, ritmico e del pathos, quasi del tutto assente anche nel finale concitato, seppure nell'ultimo atto il ritmo diventa serrato e incalzante riscattandosi. Il film però procede davvero troppo macchinosamente verso una conclusione che di "Romeriano" non ha nulla (addirittura simile romantico), nonostante il regista qui è molto abile a intrecciare pensieri e 'azioni' di Allan con quelli della sua controparte animale, facendo emergere a poco a poco i cambiamenti di personalità e umore nell'uomo che in qualche modo vede la scimmia come strumento con il quale muoversi e agire, azione però dettata dagli istinti, quelli più biechi e animali, più che dalla umana ragione.
Un elemento degno di nota in questo film è però appunto il rapporto che si instaurerà fra la scimmia e il disabile (di interesse sia morale che etico), fattore come detto interessante su cui Romero riflette come suo solito non risparmiando altresì qualche messaggio animalista. Un piccolo difetto invece risiede nella durata, troppo minutaggio viene impiegato per darci l'impressione del tempo che passa e dell'immobilità. Ma ciò che colpisce di più è il netto contrasto tra la prima ora e la seconda, nella prima infatti, dove assistiamo al dramma del protagonista ed alla sua comprensibile incapacità di accettare la situazione fino all'arrivo della scimmia che gli ridà la forza di vivere, il film è emozionante e coinvolgente, e ti crea delle attese via via sempre più crescenti. Nella seconda invece, la parte "thriller" dove appunto c'erano d'aspettarsi tante scintille, il film diventa un po' tedioso e prolisso, non riuscendo discretamente a creare una suspense adeguata, perdendosi soprattutto nello scontro finale, frettoloso e fiacco. Anche se è proprio la seconda parte la parte più bella, poiché è la parte in cui c'è la scimmia numero 6 a farla da padrone, che con la sua espressività facciale di tutto rispetto e il suo dinamismo dai caratteri innaturalmente umani, convince, anche più di certi attori molto più umani. Non qui, dove la recitazione degli attori protagonisti è sorprendentemente buona per una così piccola produzione.
Gli attori infatti sono bravi, a partire dal protagonista Jason Beghe (Thelma & Louise, Soldato Jane con Demi Moore, Chiamata senza risposta, ultimamente Chicago Fire e successivamente Chicago PD), John Pankow (Il buongiorno del mattino, Bride Wars: La mia miglior nemica, L'oggetto del mio desiderio), Stephen Root (The Lone Ranger, Sweetwater, La regola del silenzio: The Company You Keep, Red State), un giovane Stanley Tucci (Le regole del caos, Joker: Wild Card, Il caso Spotlight), Janine Turner (Cliffhanger: L'ultima sfida, Premonitions) ed ovviamente la bravissima e magnetica Kate McNeil. Anche se ad ogni modo la vera star del film, come già detto, è la comunque graziosissima scimmietta Boo (Ella), innegabilmente una spanna sopra gli altri grazie alla sua bellezza, bravura ed espressività (seppur comunque come aiuto io mai prenderei). In definitiva quindi, Monkey Shines è un esperimento partito da buone premesse che però non sono state sviluppate adeguatamente (almeno in parte). Perché finale a parte (che di horror non ha niente, anzi, sembra il classico finale romantico, che seppur fa piacere, non è quello che ci aspettava), e fatta salva qualche ingenuità, si tratta comunque di un film riuscito (anche se gli effetti orrorifici degli "zombie" rimangono di un livello superiore), che peraltro fa leva su un'idea di fondo più che valida. Un'idea che la pellicola riesce comunque e bene a trasmettere, poiché in questo piccolo comunque ben realizzato, dove comunque le musiche sono decenti e niente di più, il regista Romero, conferma, come se ce ne fosse bisogno, di essere ed esser stato sempre un grande. Voto: 7
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Una situazione, narrativamente parlando, che si svolge in modo sobrio, costruita con tecniche visive in gran parte artigianali, il dialogo è scorrevole e ben teso, la drammatizzazione pur non essendo eccelsa non è da disprezzare e si svolge prevalentemente in spazi interni, chiusi, come è tipico nel genere horror che sembra trarre linfa proprio da situazioni ambientali ben definite che si configurano efficacemente nella retina dell'occhio per circoscrivere meglio la tensione, rendendola famigliare o relegandola, come spettacolo, in una sorta di anfiteatro immaginifico. Perché in Monkey Shines, film horror-fantascientifico del tutto originale, anche se ha un debito con la letteratura perché l'idea di fondo è tratta da un libro di Michael Stewart, grazie anche alla regia di Romero (precisa e pulita anche se non sempre riconoscibile) ed al buon soggetto, con una trama interessante all'inizio anche se poco sviluppata nel proseguimento dove perde un po' di brio e di interesse, l'intreccio parte in modo abbastanza lento e lineare, gli attori sono più che credibili nelle loro parti e coinvolgono lo spettatore nel dramma dell'uomo che da libero si ritrova in un attimo prigioniero in un corpo immobile. L'elemento innaturale viene invece introdotto con la presentazione degli esperimenti un po' insensati di Geoffrey, tipico scienziato pazzo che non ha granché idea di quello che sta facendo, anche se alla fine (quando ormai sarà troppo tardi) qualcosa scopre davvero.
L'epilogo vedrà difatti un Geoffrey sacrificarsi sull'altare della conoscenza, nel vano tentativo di cancellare la mostruosità messa al mondo. E vedrà anche la fine dei vari personaggi minori, più legati ai sentimenti di Allan e per questo più esposti ai suoi inconsci desideri di distruzione. E quindi allo scontro quasi titanico tra una genuina intelligenza umana, liberatasi a fatica dai lacci della propria bestialità, e un'aberrazione di essa, indotta in una specie "evoluzionisticamente" affine, ma inferiore. Sarà l'inestricabile connubio tra animalità e ragione dell'uomo infatti ad avere la meglio, a porre fine all'ennesimo fallimento della scienza, a scovare nonostante tutto proprio in quest'ultima una nuova speranza per il futuro. In un finale però vergognosamente rovinato dal consolatorio finale imposto dalla produzione che vede il protagonista sfuggire, perfettamente guarito, alle torture della scimmia. Il film poi, comunque non privo di tensione, pecca anche sotto il profilo tecnico, ritmico e del pathos, quasi del tutto assente anche nel finale concitato, seppure nell'ultimo atto il ritmo diventa serrato e incalzante riscattandosi. Il film però procede davvero troppo macchinosamente verso una conclusione che di "Romeriano" non ha nulla (addirittura simile romantico), nonostante il regista qui è molto abile a intrecciare pensieri e 'azioni' di Allan con quelli della sua controparte animale, facendo emergere a poco a poco i cambiamenti di personalità e umore nell'uomo che in qualche modo vede la scimmia come strumento con il quale muoversi e agire, azione però dettata dagli istinti, quelli più biechi e animali, più che dalla umana ragione.
Un elemento degno di nota in questo film è però appunto il rapporto che si instaurerà fra la scimmia e il disabile (di interesse sia morale che etico), fattore come detto interessante su cui Romero riflette come suo solito non risparmiando altresì qualche messaggio animalista. Un piccolo difetto invece risiede nella durata, troppo minutaggio viene impiegato per darci l'impressione del tempo che passa e dell'immobilità. Ma ciò che colpisce di più è il netto contrasto tra la prima ora e la seconda, nella prima infatti, dove assistiamo al dramma del protagonista ed alla sua comprensibile incapacità di accettare la situazione fino all'arrivo della scimmia che gli ridà la forza di vivere, il film è emozionante e coinvolgente, e ti crea delle attese via via sempre più crescenti. Nella seconda invece, la parte "thriller" dove appunto c'erano d'aspettarsi tante scintille, il film diventa un po' tedioso e prolisso, non riuscendo discretamente a creare una suspense adeguata, perdendosi soprattutto nello scontro finale, frettoloso e fiacco. Anche se è proprio la seconda parte la parte più bella, poiché è la parte in cui c'è la scimmia numero 6 a farla da padrone, che con la sua espressività facciale di tutto rispetto e il suo dinamismo dai caratteri innaturalmente umani, convince, anche più di certi attori molto più umani. Non qui, dove la recitazione degli attori protagonisti è sorprendentemente buona per una così piccola produzione.
Gli attori infatti sono bravi, a partire dal protagonista Jason Beghe (Thelma & Louise, Soldato Jane con Demi Moore, Chiamata senza risposta, ultimamente Chicago Fire e successivamente Chicago PD), John Pankow (Il buongiorno del mattino, Bride Wars: La mia miglior nemica, L'oggetto del mio desiderio), Stephen Root (The Lone Ranger, Sweetwater, La regola del silenzio: The Company You Keep, Red State), un giovane Stanley Tucci (Le regole del caos, Joker: Wild Card, Il caso Spotlight), Janine Turner (Cliffhanger: L'ultima sfida, Premonitions) ed ovviamente la bravissima e magnetica Kate McNeil. Anche se ad ogni modo la vera star del film, come già detto, è la comunque graziosissima scimmietta Boo (Ella), innegabilmente una spanna sopra gli altri grazie alla sua bellezza, bravura ed espressività (seppur comunque come aiuto io mai prenderei). In definitiva quindi, Monkey Shines è un esperimento partito da buone premesse che però non sono state sviluppate adeguatamente (almeno in parte). Perché finale a parte (che di horror non ha niente, anzi, sembra il classico finale romantico, che seppur fa piacere, non è quello che ci aspettava), e fatta salva qualche ingenuità, si tratta comunque di un film riuscito (anche se gli effetti orrorifici degli "zombie" rimangono di un livello superiore), che peraltro fa leva su un'idea di fondo più che valida. Un'idea che la pellicola riesce comunque e bene a trasmettere, poiché in questo piccolo comunque ben realizzato, dove comunque le musiche sono decenti e niente di più, il regista Romero, conferma, come se ce ne fosse bisogno, di essere ed esser stato sempre un grande. Voto: 7
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