Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/04/2018 Qui - Il teatro al cinema molto spesso non funziona. Ma attori bravissimi e un regista capace riescono nell'impresa a volte di renderlo piacevole. E' questo il caso di È solo la fine del mondo (Juste la fin du monde), sesto film del giovanissimo e prolifico regista canadese Xavier Dolan (con una ricca esperienza come attore, carriera iniziata da bambino: ma stavolta non recita come in altri suoi film), premiato al Festival di Cannes 2016 con il Gran Prix du Jury e trasposizione del testo omonimo del drammaturgo francese Jean-Luc Lagarce, morto di Aids a 38 anni. Questo film del 2016 infatti, dalla struttura prettamente teatrale (e nonostante la stessa che spesso non sopporto) è un film teso e ossessivo, che sembra guardare a grandi classici del passato pur aggiornandoli a temi e umori contemporanei, parecchio interessante. Anche se quest'ultima sua opera appare estremamente cupa e disperata, quasi senza speranza, dove il concetto di famiglia ne esce drammaticamente frantumato. Nel microcosmo rappresentato difatti, quello del classico figliol prodigo che ritorna a casa dopo dodici anni di assenza ma solo per comunicare alla famiglia (madre, fratello maggiore, sorella minore e cognata mai conosciuta prima) la sua imminente morte (ma senza riuscire tuttavia a dirglielo, anche perché questo è un film di sguardi e silenzi), la famiglia esce come un ambiente chiuso e oppressivo dove ci si ripete parole addosso senza capirsi e dove le buone intenzioni degli uni sono contraddette dalla distruttività di uno. Certo, il personaggio interpretato (bene, come sempre) da Vincent Cassel sembra soffrire di patologie tutte sue, che lo portano sempre sul punto di rottura, e tutti i personaggi sembrano preda di sentimenti "sovreccitati" anche quando non riescono a esprimerli. Ma al tempo stesso equivoci, nevrosi, rancori, segreti e limiti acquistano anche tratti di universalità: è facile farsi male, anche tra persone che si vogliono bene. Ne esce un film claustrofobico e forse "per pochi", oltre la cerchia dei cinefili.
Questi ultimi però (certamente più di me, anche se indiscusso è il talento di Xavier Dolan nell'utilizzo di efficaci primi piani, riuscendo altresì a non sconfinare nel mero esercizio di stile, come visto nel bellissimo Mommy) si saranno certamente esaltati soprattutto per la straordinaria prova di tutti gli interpreti. Dal protagonista Gaspard Ulliel a Léa Seydoux, Nathalie Baye e soprattutto Marion Cotillard. Tuttavia nonostante la drammaticità dei fatti narrati e le interpretazioni molto intense, il film in sé non mi ha entusiasmato né emozionato tanto. Forse a causa di alcuni dialoghi verbosi, forzati e troppo dilungati che hanno appesantito leggermente la pellicola e abbassato un po' l'interesse durante la visione. Ma è nella "prevedibilità" del finale, che comunque mi ha lasciato come un senso di incompletezza e che non fa che confermare l'impossibilità di trovare rifugio o comprensione nella famiglia, assemblaggio di persone male assortite che si trovano a vivere insieme non per propria scelta, che esce la vera natura di un film forte e intelligente. Ovvero l'ottimo uso e scelta delle musiche. La colonna sonora funge infatti da innesco, non è un banale sottofondo (la musica è un elemento cruciale, generativo), è utilizzata come soundtrack della memoria, in costante dialogo con le reminiscenze musicali degli spettatori, contemporaneamente si attivano anche i ricordi di chi guarda, inducendo un'esperienza tra nostalgia ed empatia. Dopotutto le parole del brano musicale Home Is Where It Hurts di Camille, che aprono il film, avevano anticipato e rimarcato allo spettatore i sentimenti dei protagonisti. Genesis di Grimes sottolinea i ricordi associati alla casa materna, Dragostea din tei (tormentone pop moldavo di O-zone) aiuta a definire l'incontenibile figura materna, Spanish Sahara dei Foals alimenta la tensione nel dialogo in automobile tra Antoine e Louis, Natural Blues di Moby accompagna con pathos l'uscita di scena (struggente come la canzone stessa) del protagonista. E se a questo ci aggiungiamo la talentuosità di un regista che trasforma dramma intimi in "thriller" alla Hitchcock (sembra che possa accadere una tragedia da un momento all'altro), il risultato non può che essere positivo e discreto, seppur non perfetto, perché è pur sempre una pellicola banale e non tanto originale. Voto: 7-
Questi ultimi però (certamente più di me, anche se indiscusso è il talento di Xavier Dolan nell'utilizzo di efficaci primi piani, riuscendo altresì a non sconfinare nel mero esercizio di stile, come visto nel bellissimo Mommy) si saranno certamente esaltati soprattutto per la straordinaria prova di tutti gli interpreti. Dal protagonista Gaspard Ulliel a Léa Seydoux, Nathalie Baye e soprattutto Marion Cotillard. Tuttavia nonostante la drammaticità dei fatti narrati e le interpretazioni molto intense, il film in sé non mi ha entusiasmato né emozionato tanto. Forse a causa di alcuni dialoghi verbosi, forzati e troppo dilungati che hanno appesantito leggermente la pellicola e abbassato un po' l'interesse durante la visione. Ma è nella "prevedibilità" del finale, che comunque mi ha lasciato come un senso di incompletezza e che non fa che confermare l'impossibilità di trovare rifugio o comprensione nella famiglia, assemblaggio di persone male assortite che si trovano a vivere insieme non per propria scelta, che esce la vera natura di un film forte e intelligente. Ovvero l'ottimo uso e scelta delle musiche. La colonna sonora funge infatti da innesco, non è un banale sottofondo (la musica è un elemento cruciale, generativo), è utilizzata come soundtrack della memoria, in costante dialogo con le reminiscenze musicali degli spettatori, contemporaneamente si attivano anche i ricordi di chi guarda, inducendo un'esperienza tra nostalgia ed empatia. Dopotutto le parole del brano musicale Home Is Where It Hurts di Camille, che aprono il film, avevano anticipato e rimarcato allo spettatore i sentimenti dei protagonisti. Genesis di Grimes sottolinea i ricordi associati alla casa materna, Dragostea din tei (tormentone pop moldavo di O-zone) aiuta a definire l'incontenibile figura materna, Spanish Sahara dei Foals alimenta la tensione nel dialogo in automobile tra Antoine e Louis, Natural Blues di Moby accompagna con pathos l'uscita di scena (struggente come la canzone stessa) del protagonista. E se a questo ci aggiungiamo la talentuosità di un regista che trasforma dramma intimi in "thriller" alla Hitchcock (sembra che possa accadere una tragedia da un momento all'altro), il risultato non può che essere positivo e discreto, seppur non perfetto, perché è pur sempre una pellicola banale e non tanto originale. Voto: 7-