mercoledì 9 gennaio 2019

Mommy (2014)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 19/07/2016 Qui - Mommy è l'ultimo straordinario film (visto da me) dell'enfant prodige canadese Xavier Dolan, un regista che ultimamente sta riscuotendo consensi, e guardando questo film impegnativo, inquietante e controverso che costituisce una riflessione sulla malattia mentale, sulla sua difficoltà di cura e sulla problematicità del conviverci, si capisce il perché. Perché il bravo Xavier a soli venticinque anni, e con un (bel) po' di sana incoscienza (abbastanza inevitabile), scrive e dirige queste montagne russe di emozioni che mischiano tocchi di commedia, in maggioranza nella prima parte, e scene grondanti melodramma che dominano il tratto conclusivo, utilizzando schemi e situazioni che finiscono per alternare il teatro da camera a tocchi di pura estetica pop in cui una colonna sonora estremamente variegata nel tempo e nello spazio gioca un ruolo fondamentale. Ma se all'incoscienza di cui sopra si unisce una capacità di fare cinema che combina una notevole perizia a una delicata sensibilità, l'accumulo di elementi eterogenei finisce per risultare in un amalgama talmente coinvolgente da far soprassedere sui difetti che pure ci sono. Mommy infatti non è un film perfetto (anche perché il regista è assai più interessato allo sviluppo di personaggi e sentimenti che alla coerenza nello svolgimento della storia), ma sa emozionare nel profondo a un livello tale che forse la perfezione non permetterebbe di raggiungere. Questo grazie a tanti accattivanti e originali stratagemmi che insieme alla trama (non particolarmente spettacolare) formano le basi di un film (del 2014) veramente bello ed emozionante e neanche così lento o noioso come ci si aspetterebbe. Poiché a prescindere dagli aspetti tecnici, per testimoniare la bravura del regista basterebbe la sola considerazione di come una trama infatti (davvero) esilissima venga trattata per due ore e un quarto senza un attimo di cedimento o un calo di tensione.
La piccola storia di Diane (una fantastica Anne Doral) che, malgrado le difficoltà (rimasta sola ancora giovane, un po' impudica e un po' aggressiva), decide di riprendersi in casa il figlio adolescente Steve, al quale l'iperattività impedisce ogni tipo di autocontrollo (dimesso da una casa di rieducazione per turbe psichiche), viene trasformata in un'avventura più grande della vita. La ricostruzione dell'amore tra i due è tutto meno che semplice, minata sia dai problemi del ragazzo, sia dalla fragilità della donna che vive un'esistenza scombinata ed è tutto meno che una madre perfetta, l'arrivo della vicina Kyla (altra figura fragilissima, afflitta da una fredda vita familiare e da una balbuzie di origine psicologica) come terzo vertice dell'improbabile triangolo (di tre figure sofferenti, tre impossibilità a essere "normali"). pare riportare un po' di luce, ma né lei né il comunque fortissimo affetto che lega i due personaggi principali potrà evitare lo scivolamento verso la tragedia (svolta favorita da un tocco di fanta-sociologia tanto per non farsi mancar nulla). Il film perciò mostra la sofferenza del ragazzo (un bravo Antoine-Olivier Pilon) nei suoi alti e bassi, tra impeti vitali, manifestazioni di affetto e crisi violente, il quale non ha grandi prospettive future se non un comprensibile grande desiderio di libertà. Diane, la madre, attratta dalla seduzione della follia ma continuamente in antitesi con se stessa, è divisa tra l'amore per il figlio e il desiderio di avere una propria vita e un'identità al di là dall'essere solo madre. Diane, infatti, è fagocitata dalle continue e esasperate richieste di attenzioni del figlio Steve. La dolce e timida Kyle, (una deliziosa Susanne Clément) invece, è la nuova dirimpettaia che, a causa di qualche trauma recente (probabilmente la perdita di un figlio), ma che nonostante la balbuzia riuscirà a comunicare con Steve e a conquistarne la fiducia. Si forma così un terzetto che riesce per un po' anche a vivere, sorridere, comunicare e (perché no?) anche a divertirsi. Ma la vita è altro, richiede disciplina, norme, lavoro, soldi e il trio si deve sciogliere.
Raccontata così magari suona come una versione postmoderna di una via di mezzo fra 'Catene' e 'Incompreso' e non si capisce il Premio della Giuria a Cannes, ma è davvero difficile descrivere a fondo un'opera come questa, con le sue sottigliezze e la sua capacità di sfruttare i cliché per costruire qualcosa del tutto diverso, basti ricordare il momento, non a caso ripreso anche sulle locandine, in cui Steve mette una mano sulla bocca della madre e poi ne bacia il dorso. Non vanno però dimenticati, almeno, l'efficace scelta dei colori, che alternano i tono caldi degli interni casalinghi a quelli freddi (malgrado il foliage) degli esterni immersi nell'autunno canadese, e la mirabile prova degli interpreti, con i tre principali che non eccedono mai nella misura benché i personaggi siano almeno qua e là a rischio e fra i quali spicca Anne Dorval che disegna con finezza l'anima tormentata di Diane. Il film già così sarebbe quasi perfetto, ma per alzare ulteriormente la posta, Dolan ha deciso di girare il film in formato 1:1, una scelta stilistica che stringe sui personaggi in modo coerente con le vicende della loro esistenza, dove sembrerebbe esserci poco spazio per due persone comunicando così un certo senso di claustrofobia. Il formato in 16:9 si troverà ogni tanto, in particolare nei sogni/desideri di normalità di Diane o nei momenti più euforici del personaggio di Steve, e a tal proposito la scena di lui che sembra apra un sipario con le mani (nella foto a destra) è la forse la più indicativa. Questa particolare tecnica è anche ansiogena dato che lo spettatore vive il film con una profonda ansia pre-cognitrice di qualche disgrazia, in ogni attimo infatti può succedere di tutto. La catastrofe incalza ma in fondo non arriva mai, perché in ogni scena in sé c'è in fondo un disastro, quella del karaoke su aria bocelliana è forse la più sublime. Xavier Dolan, già alla sua quinta esperienza da regista, ha quindi il grande pregio di raccontare questa storia archetipica (il complicato rapporto madre-figlio) in modo del tutto originale. I suoi film riguardano sempre rapporti difficili specialmente tra madre e figlio, ma per proporre l'argomento spinoso ama farlo con una foga e una pienezza vitale nella messa in scena che non può non trascinare lo spettatore. I colori vivissimi, i dialoghi vivaci colorati da parolacce e spesso comici, la musica la cui importanza si materializza in momenti che sembrano videoclip, come quando sullo skateboard Steve corre sulla strada contro il vento, dove la musica prevarica l'immagine. Lo chiamano stilisticamente pop e ruffiano ma ben venga se in un tema di sostanza altamente drammatica il racconto è illuminato da momenti come questi. Steve, come detto in precedenza, è un ragazzo affetto sin da piccolo da deficit dell'attenzione e iperattività estrema e atti a incontrollabili, che dopo un ennesimo episodio di turbolenza e violenza mentre è in una struttura, viene preso in consegna dalla madre che lo prende in casa con sé, pur essendo lei stessa un soggetto borderline, irascibile e mal controllabile. I due tirano avanti come possono, con pendenze di conti e multe da pagare, grazie a lavoretti precari di traduzioni o simile che lei riesce a rimediare con la sua contagiosa socievolezza, dopo un licenziamento. L'assenza del padre (defunto) si sente per mancanza di una qualsiasi regola, mentre i due si imprigionano l'uno nell'altra e nel caos che spesso li circonda, tra urla, risate e insulti.
L'eventuale presenza di un uomo, che probabilmente ci vorrebbe diventa invece una minaccia, soprattutto per lui, come succederà ad un certo punto, poiché la mamma è una bella donna disinvolta e provocante fino a rasentare la volgarità, e ciò non può che portare ad un risvolto drammatico al punto da annullare i progressi fatti fino ad allora, per l'inserimento cauto e positivo oltre ogni aspettativa tra i due di una figura femminile, Kyla, insegnante in sospensione sabbatica, con disturbi logopedici, che abita nella casa di fronte con marito e figlioletta. Queste due ultime figure sono quasi scotomizzate dal regista il quale pensa solo a introdurre in un un formidabile crescendo di credibilità e autorevolezza la figura di Kyla, anzitutto come insegnante ma anche come figura stabilizzante per Steve, aprendo nuove speranze nel suo reinserimento nello studio e nella vita normale. Anche Kyla, da parte sua, vive un'esperienza liberatoria e normalizzante per se stessa nei momenti giocosi che ha con la madre di Steve e anche con tutti e due, costituendo un impensabile triangolo. Però dietro Kyla esistono problemi non ben definiti, oltre un rapporto di strana soggezione muta con il marito, per cui, dopo il di tentativo di suicidio di Steve per gelosia della madre, le cose precipiteranno come devono razionalmente andare, a dispetto dei sogni di Die sulla sua vita da adulto che si vede in una carrellata di fatti, intensa come se fossero veri. Dolan cita una legge di un Canada che non c'è, per cui i figli incontrollabili possono essere lasciati dai genitori alle cure in apposite strutture ospedaliere. Il finale tanto straziante quanto prevedibile evoca in qualche modo "Qualcuno volò sul nido del cuculo".  Certo non si può negare che, allo stato attuale, il talento del giovane regista tuttofare (attore, sceneggiatore, montatore, regista etc) ancora riesce a travolgere, anche se non fa amare a tutti i costi personaggi che tanto amabili poi non sono, e a tutta la messa in scena non si resta indifferenti sull'immediato. C'è tanta di quella stoffa che è da ben sperare sulla sua maturazione a regista evolvente verso stili e linguaggi diversi, oltre una semplice "moda". Comunque mai avrei pensato di potermi innamorare dei personaggi di questo più che promettente regista canadese. Di Diane, una madre forte, una donna debole così come debole e contemporaneamente forte è suo figlio Steve che vorrebbe spaccare il mondo ma che invece si limita all'autodistruzione. E inevitabilmente mi sono invaghito anche di Kyla e della sua timidezza forzata che cela enorme sofferenza. Queste tre meravigliose anime tormentate, abbandonate a se stesse da una società che promulga leggi eticamente discutibili, finiscono con il formare una delle famiglie più affascinanti e atipiche mai viste sullo schermo. Dolan accudisce teneramente i membri di questo trio, ce li fa odiare e amare in un vorticoso parossismo sentimentale e con la sua regia ci stupisce e ci tiene in ansia per il loro futuro incerto che oramai è anche un po' nostro. Impossibile tralasciare le interpretazioni degli attori, tutti bravissimi. Ma una menzione speciale la merita senz'altro la toccante colonna sonora che spazia tranquillamente da Einaudi agli Eiffel 65 passando per Celine Dion e gli Oasis (la loro Wonderwall accompagna quella che secondo me è la sequenza migliore del film). Un film quindi di grande sensibilità e drammaticità. Il merito di Dolan è difatti colpire con estrema eleganza, gusto e passione, costruendo e tirando fuori il senso di libertà di ogni personaggio. E' toccante come le confessioni e i momenti d'ira convergano nel voler dimostrare al mondo "quanto la razza umana" sia delicata e complessa e come una "deficienza" può rendere l'uomo più completo e attento all'anima altrui. Movimenti semplici, per un cinema che non deve osare ma raccontare senza strafare. Per quanto semplici però, corretti, con splendidi controcampi centrati, considerando il falso 4:3, e sfocature per orientare lo sguardo. Linguaggi di peso e sottili, pieni di humor nero che deve raccogliere la drammaticità rappresentata. I brani non sono un contorno, ma continuano ciò che le parole per un momento non dicono, gesto e azione, abbracciano quei momenti, dove la musica rallenta ciò che sta accadendo, per ascoltare con il cuore.  E proprio proprio quello che ci mette Dolan, dove bagna con la pioggia il finestrino di una macchina invece di una guancia, e sfoca persone e ricordi con l'obiettivo, piuttosto che con la mente. Temi complessi, delicatissimi, profondi, abissali quasi, da gestire con tatto, con senso di responsabilità, di rispetto. Una sospensione di centoquaranta minuti all'interno di un mondo dove non è facile entrare, quasi impossibile, ma Dolan dà la possibilità, come solo il cinema sa fare, di "sbirciare", di farne parte, allargando letteralmente il punto di vista, ecco la libertà. Un film perciò da ricordare, non dimenticare e assolutamente da vedere. Voto: 7,5

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