Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 31/05/2018 Qui - Nel suo complesso Mal di pietre (Mal de pierres), film del 2016 diretto da Nicole Garcia, si rivela un film su una storia d'amore come ce ne potrebbero essere e ce ne sono state tantissime e parecchio tendente al mélo, ma la regista riesce fortunatamente a non banalizzare la propria opera nel genere melodrammatico ed a farne un lavoro altamente interessante e di pregio riuscendo soprattutto a cogliere e rappresentare il disagio esistenziale della protagonista, il suo isolamento forzato dalla moltitudine delle persone e la sua conseguente ed ovvia sofferenza per essere costretta a vivere secondo delle regole imposte dalla società benpensante in cui lei invece non si riconosce affatto. Mal di pietre infatti (costruito come un lungo flashback), adattamento del romanzo omonimo della scrittrice italiana Milena Agus, e presentato in concorso al Festival di Cannes 2016, racconta di Gabrielle (Marion Cotillard) che, cresciuta tra le fila della piccola borghesia agricola, dove il suo sogno di una passione assoluta fa scandalo e in un'epoca in cui il destino delle donne è il matrimonio, è costretta dai genitori a vivere con José (Alex Brendemuhl), un lavoratore stagionale che ha il compito di renderla una donna rispettabile. Gabrielle non lo ama e si sente come sepolta viva. Quando però si reca in un centro termale per curare i calcoli renali (il mal di pietre del titolo), fa la conoscenza di André Sauvage (Louis Garrel), un tenente ferito nella guerra in Indocina di cui si innamora. I due fuggono insieme e Gabrielle sarà disposta a tutto pur di vivere il suo sogno. Il film quindi si muove tra passione (fisica e non solo), ricordi (non tutti positivi) e frustrazioni (scatti d'ira e rimproveri), niente di nuovo insomma, tuttavia poiché esso non si relega nella banalità, nella superficie e nel feuilleton ma, ben riprodotto anche per ciò che concerne i costumi dell'epoca, diventa un'attendibile testimonianza di certi aspetti degli anni passati altamente apprezzabile e veritiera. Almeno fino al (rassicurante ed inquietante al tempo stesso) colpo di scena finale (in fondo non così improbabile e persino ridicolo come potrebbe apparire), che in modo melodrammatico rovescerà le carte, scoprirà segreti conservati gelosamente, sarà una vera e propria rivelazione per Gabrielle e cambierà definitivamente la sua psiche e la sua vita.
Perché quello che, in seguito, ad un occhio distratto e pigro potrà infatti sembrare una capriola esagerata della narrazione, esso altro non è che la concretizzazione, la materializzazione visibile, il disvelamento e infine l'espulsione della "pietra" dal corpo fisico e psichico di Gabrielle. Certo, alcune contraddizioni nascono e alcune situazioni sembrano parecchio forzate (come appunto quest'ultima scoperta), ma alla regista, piuttosto, andrebbe attribuito il merito di una non facile (suppongo) trasposizione per immagini di questa niente affatto semplice vicenda, regista che, pur percorrendo sempre i binari di un raccontare realistico e ordinato, sarà capace comunque di stupire lo spettatore al momento giusto e nel modo migliore, fino a giungere ad un finale assai toccante e appena pennellato con grande tatto. Ma ciò che determina anche il valore del film è soprattutto la performance artistica di Marion Cotillard (dopo quella funzionale ed efficace in È solo la fine del mondo), resa drammaticamente efficace dalle espressioni del volto, e dalla bravura artistica dei suoi compagni stessi. Perché sarà il viso intenso, chiuso e divorato dall'ossessione di Marion Cotillard (convincente nei panni di questa donna ribelle, alla ricerca di una propria identità e affermazione nei sentimenti, cosa non concessa nella Francia di quegli anni), la dignità silenziosa che Alex Brendemühl presta a José (nella parte del marito), il perfetto physique du rôle di Louis Garrel nei panni di un letteratissimo tenente Sauvage, sarà la capacità della regista di muovere i suoi burattini in un clima asettico, livido e soffocante nella sua forzata "normalità" (un'astratta normalità sotto cui ribolle una lava di passioni e di frustrazioni per cui non sembra esserci sfogo possibile se non nella dedizione muta e nella solitaria follia) che una improbabile (almeno in parte) storia riesce, nonostante tutto, a trasmettere qualcosa di autentico. Come qualcosa di assolutamente autentico (e in tutti i sensi) offre la meravigliosa Marion Cotillard (che presta corpo, e che corpo, voce, e che voce, e tormento, mamma che sguardo e che occhi) che, proprio grazie alla sua inafferrabile bellezza tradizionale, rassicurante, genuina e incorruttibile, riesce a superare la prova del tempo incarnando, nel corso dei 120' del film (forse eccessivi), il ritratto completo di una donna che copre un arco narrativo di circa 17 anni. Un arco forse non eccezionale e non del tutto coinvolgente (fotografia e scenografia nella media) ma certamente da vedere, anche e soprattutto per chi nutre per l'attrice francese un forte desiderio non solo artistico. Voto: 6,5
Perché quello che, in seguito, ad un occhio distratto e pigro potrà infatti sembrare una capriola esagerata della narrazione, esso altro non è che la concretizzazione, la materializzazione visibile, il disvelamento e infine l'espulsione della "pietra" dal corpo fisico e psichico di Gabrielle. Certo, alcune contraddizioni nascono e alcune situazioni sembrano parecchio forzate (come appunto quest'ultima scoperta), ma alla regista, piuttosto, andrebbe attribuito il merito di una non facile (suppongo) trasposizione per immagini di questa niente affatto semplice vicenda, regista che, pur percorrendo sempre i binari di un raccontare realistico e ordinato, sarà capace comunque di stupire lo spettatore al momento giusto e nel modo migliore, fino a giungere ad un finale assai toccante e appena pennellato con grande tatto. Ma ciò che determina anche il valore del film è soprattutto la performance artistica di Marion Cotillard (dopo quella funzionale ed efficace in È solo la fine del mondo), resa drammaticamente efficace dalle espressioni del volto, e dalla bravura artistica dei suoi compagni stessi. Perché sarà il viso intenso, chiuso e divorato dall'ossessione di Marion Cotillard (convincente nei panni di questa donna ribelle, alla ricerca di una propria identità e affermazione nei sentimenti, cosa non concessa nella Francia di quegli anni), la dignità silenziosa che Alex Brendemühl presta a José (nella parte del marito), il perfetto physique du rôle di Louis Garrel nei panni di un letteratissimo tenente Sauvage, sarà la capacità della regista di muovere i suoi burattini in un clima asettico, livido e soffocante nella sua forzata "normalità" (un'astratta normalità sotto cui ribolle una lava di passioni e di frustrazioni per cui non sembra esserci sfogo possibile se non nella dedizione muta e nella solitaria follia) che una improbabile (almeno in parte) storia riesce, nonostante tutto, a trasmettere qualcosa di autentico. Come qualcosa di assolutamente autentico (e in tutti i sensi) offre la meravigliosa Marion Cotillard (che presta corpo, e che corpo, voce, e che voce, e tormento, mamma che sguardo e che occhi) che, proprio grazie alla sua inafferrabile bellezza tradizionale, rassicurante, genuina e incorruttibile, riesce a superare la prova del tempo incarnando, nel corso dei 120' del film (forse eccessivi), il ritratto completo di una donna che copre un arco narrativo di circa 17 anni. Un arco forse non eccezionale e non del tutto coinvolgente (fotografia e scenografia nella media) ma certamente da vedere, anche e soprattutto per chi nutre per l'attrice francese un forte desiderio non solo artistico. Voto: 6,5