mercoledì 24 aprile 2019

Antichrist (2009)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 25/07/2018 Qui - Non mi aspettavo dopo aver visto Madre! (ma purtroppo non potevo più sottrarmi alla visione, dato che il suddetto fa parte delle mie promesse cinematografiche di quest'anno) di trovarmi nuovamente di fronte ad un film "strano" e difficile da commentare e giudicare (anche se si tratta di un'opera d'autore). Certo, avevo letto in giro qualcosa e in parte avevo già capito di cosa il film volesse parlare, ma lo stesso mi ha lasciato smarrito e anche un po' sconvolto. Antichrist infatti, film psicologico del 2009 scritto e diretto da Lars von Trier, che racconta il dramma di una coppia sconvolta dalla morte dell'unico figlio (durante un rapporto sessuale), di una coppia (storica del Medioevo lei, Charlotte Gainsbourg, psicoterapeuta lui, Willem Dafoe) che nel tentativo di superare il dolore e ricominciare a vivere si trasferiscono in una capanna in mezzo ai boschi, chiamata Eden (nomen omen), luogo di paure ancestrali che si rivelerà un inferno che farà affiorare ogni malvagità (giacché fra eventi inspiegabili, tragedie e rivelazioni le cose finiranno, stranamente, per precipitare), è un film davvero disturbante. Disturbante (non solo nel senso di visione) come può esserlo quella di sbirciare per un istante nel cervello di un malato di mente, nella rappresentazione davvero disturbante del male, che entra sottopelle, che si appiccica addosso e sporca lo spettatore. Qui siamo di fronte difatti a un'operazione cinematografica che, a tratti, stilisticamente, è sublime, per inquadrature, uso della macchina da presa, colori e suoni, con due attori magnifici, ma che rappresenta solo un delirio, gli incubi personali di un individuo che conferma se stesso soprattutto nella ricerca piuttosto gratuita dello stupore e dello scandalo (e in tal senso certamente non è un film per tutti e non può essere preso alla leggera). Antichrist insomma vuole essere la trasposizione di un malessere interiore del regista e la simbologia che regna per tutta la pellicola potrebbe anche essere interessante se tutto non fosse estremamente esagerato al limite pugnalando lo spettatore con scene macabre e, a volte, al limite del disgusto. Insomma, una sorta di autoanalisi che si trasforma in un delirio dove lo spettatore si ritrova (esattamente come nel film di Darren Aronofsky) impotente a guardare. Solo che, se in Madre! bastava un elemento per capire tutto (a patto di riconoscerlo) e per fargli assumere valore o senso, qui non c'è, date le metafore a mio avviso poco fruibili, un qualcosa che può disvelare accuratamente il suo recondito significato (e anche se ci fosse, e sicuramente c'è, il risultato non cambierebbe, mediocre è questo film, mediocre rimane).
Pur leggendo le varie interpretazioni, nessuna infatti sembra convincermi appieno, nessuna sembra giustificare completamente la crudezza di alcune scene. Tutto ciò che mi è rimasto è una profonda inquietudine unita al disgusto. Il film tende a focalizzare l'attenzione su alcune scene degne di nota per la loro violenza con il risultato di penalizzare il messaggio globale, che si perde. Nessuna interpretazione mi ha convinto, proprio perché non riesco a focalizzare l'attenzione sul messaggio globale ma solo su singole scene che prese di per sé non dicono nulla. Riconosco però l'abilità del regista, sopratutto per come ha utilizzato le telecamere, e in tal senso Antichrist sarebbe potuto essere un buon film, solo che purtroppo viene atrocemente sfigurato dall'impulso incontrollabile del regista all'esibizionismo. Giacché a questo suo modello di autoanalisi, egli non riesce a dare una forma cinematografica compiuta e soddisfacente, abbandonandosi a simbolismi banali e iconografie pittoriche stucchevoli, cercando di compensare con lo scandalo e l'orrore (chi l'ha visto sa a cosa mi riferisco) la mancanza di un centro nevralgico narrativo. Anche gli spunti potenzialmente più interessanti (il bosco inteso come luogo dove le più ancestrali inclinazioni umane trovano sfogo) sono trattati in maniera didascalica e poco ispirata, lasciando spazio, invece, a un compiaciuto estetismo portato all'eccesso (il cui apice è rappresentato dal prologo e dall'epilogo del film), vuoto e irrimediabilmente fine a se stesso. Ma in verità c'era d'aspettarselo, dopotutto Lars von Trier è un regista poco convenzionale che fa film poco convenzionali. E il rischio di questi particolari film, a mio avviso, è che il regista/sceneggiatore vada a perdersi in eccessivi grovigli ed inutili lungaggini che rendono la pellicola difficile da seguire. E' il caso di Antichrist, film dal tema interessante ma difficile da trattare. E se il regista, anziché rimuovere tali difficoltà, le accentua con un'ora e più di nulla assoluto in termini di accadimenti (leggi "noia totale"), diventa automaticamente impossibile da seguire e si perdono i concetti chiave che si cerca di trasmettere.
E in tal senso non si può dire che abbia dei pregiudizi personali verso il cinema di Lars von Trier, visto che alcuni suoi film mi sono piaciuti, soprattutto Melancholia, che arriverà tuttavia due anni dopo. E in tal senso non si può dire che non per questo non ero preparato a vedere un film lento e claustrofobico ma, ciò nonostante, sono rimasto deluso. Perché certo, dal punto di vista intellettuale è un film interessante, ma la lentezza, la lunga durata e la difficoltà della materia psicanalitica rendono quasi impossibile cogliere il vero significato del film. Un vero peccato: gli attori sono fenomenali e l'atmosfera inquietante, ma niente viene approfondito nonostante il tempo a disposizione. Le scene di sesso non mi hanno entusiasmato (come per niente sono rimasto coinvolto/entusiasmato dalla visione di questa pellicola) perché mi sembravano poco spontanee, finalizzate solo a scandalizzare. Tutto nonostante gli spunti horror, pochi ma efficaci, che mi avevano fatto sperare in uno svolgimento migliore. Certo, non lo scopro adesso che Von Trier è un po' matto, ma non si capisce mai se ci è o ci fa: regista eclettico, capace di passare da film sperimentali a horror puri e censuratissimi. E per questo forse gli abbiamo perdonato tanto per il talento visionario raro che lo contraddistingue e anche per una fiducia quasi istintiva per gli artisti non allineati e fuori dagli schemi. Almeno fino a questo film, che comunque non è un horror in senso stretto, piuttosto è una discesa all'Inferno raccontato visivamente in un modo assai suggestivo. Una discesa tuttavia noiosa (nonostante l'esigua durata) e ben poco inquietante, e quindi disturbante, però in negativo assoluto. Una discesa sicuramente coerente nelle idee (del pazzo regista) e intrigante nella messa in scena, ma completamente sballata e squilibrata a livello di contenuti. Una discesa in cui quello che più disturba è lo sguardo compiaciuto con cui il regista guarda a una vicenda di pura disperazione.
E' inaccettabile il prologo, girato in uno splendido bianco e nero, sottolineato da una musica straniante, dove, ripreso in un efficacissimo e stilisticamente perfetto ralenti, si assiste all'incidente che occorre al figlioletto della coppia intenta nella stanza vicina nell'immancabile scena di sesso spinto. E' inaccettabile: un colpo basso, non giustificato se non da un freddo calcolo cinematografico. Scandalizzare per il gusto di scandalizzare, colpire per far male e basta. Ci sono tanti modi per mostrare e raccontare il dolore, la morte, il sesso. Von Trier ha scelto il modo più diretto, semplice e squallido: gli organi sessuali in movimento continuo, il corpo di un bimbo che si schianta (tutto alquanto irritante). L'esito dell'operazione colpisce, ma il cinema (e la vita) sono davvero da un'altra parte. Perché anche se ho visto il film con grande interesse, fin proprio dal famoso prologo estetizzante in bianco e nero, qualcosa non mi ha convinto. In seguito, il film passa alla fase dell'elaborazione del lutto da parte della coppia, ad una terapia anomala in quanto la paziente è soggetta, in maniera poco ortodossa, alle cure del marito psichiatra, e al trasferimento dei due in una casa isolata nei boschi che potrebbe essere decisiva per il miglioramento della donna. Qui il film risulta più volte suggestivo, ma a tutto ciò bisogna però aggiungere una sfilza infinita di difficilmente analizzabili simboli oscuri (cerbiatto-volpe-corvo su tutti) e sul ruolo delle donne nella storia delle torture. Insomma, sembra che il regista abbia voluto mettere molta carne al fuoco, ed è proprio questo il problema: se si cerca di analizzare tutto non se ne esce vincitori, se ci si lascia "trasportare" allora forse si può esser soddisfatti, non io, che purtroppo non sono riuscito a sopportare quel delirio programmato di inserire scene horror con squartamenti assortiti, mutilazioni sessuali e altre crudeltà, in modo alquanto gratuito. Infatti al di là degli oscuri e complessi significati che si celano dietro la "fabula", le scene "gore" risultano alquanto risibili e fanno sprofondare l'operazione nel ridicolo involontario, oltre che nella provocazione gratuita.
In ogni caso, tutto il film presenta peculiarità tecniche notevoli. Poiché per il resto il regista usa un rigore formale che non si aspettava da lui, con una grande fotografia che crea delle scene indimenticabili, come il prologo in bianco e nero (non però il tema dell'associazione della poesia alla tragedia), o come le scene di "sogno" nel bosco, affascinanti e inquietanti. E poi gli attori, assoluti mattatori nonché unici e soli protagonisti del "viaggio": un Willem Dafoe come non lo si vedeva da parecchi anni, magnetico, e una Charlotte Gainsbourg (per questo premiata a Cannes, dove il film fu presentato con notevoli giudizi negativi), sempre perfetta (in questi tipi di "trip" allucinatori), che non finisce mai di stupire, nonostante il disastroso (per non dire di peggio) doppiaggio italiano. Alla fine perciò una grande esperienza sopra le righe, visivamente affascinante ma risibile. Proprio perché (avendo comunque parecchie competenze tecniche a disposizione) tutto poteva essere trattato in ben altra maniera e con risultati migliori, non deludendo quindi troppo. A deludere di più è stata infatti la trama, dato che il film si regge esclusivamente sull'interpretazione, dall'inizio alla fine, di due soli attori, e dato che è quasi totalmente privo di commento musicale, il rischio che diventasse una noia era bello alto e in parte è successo. Per 3/4 di film ci si aspetta che debba accadere chissà cosa, e lo spettatore inizia a collezionare un numero notevole di domande, per le quali, spera, ci sarà una risposta (e invece niente). All'ultimo quarto del film le carte in tavola cambiano, ma io ho avuto l'impressione di trovarmi in una commistione di diverse altre pellicole. Come leggere quindi gli eventi raccontati? Un'attenta visione e un'accurata riflessione non mi sono bastate a sciogliere i dubbi sulle ambiguità della storia, che dopotutto neanche Von Trier ha voluto approfondire. Peccato, perché, come ricordato in precedenza, il film poteva contare fino ad allora su elementi stilistici risolti in maniera interessante. I due protagonisti fanno quel che possono, ma non possono non soccombere anche loro quando il regista smarrisce definitivamente la bussola. La depressione dell'autore, che sta alla base della sceneggiatura, qui non ha trovato un corrispettivo filmico adeguato, cosa che avverrà successivamente in Melancholia, ma che nel frattempo fa sprofondare un film comunque interessante e non bruttissimo (c'è sicuramente di peggio sia stilisticamente che narrativamente) in qualcosa di vuoto, insensato e ridicolo. Voto: 5