martedì 23 aprile 2019

Io, Daniel Blake (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 13/06/2018 Qui - Tutto il mondo è paese quando si tratta di burocrazia lenta e contraddittoria che lede la dignità umana. E Ken Loach (uno dei più integerrimi, lucidi ed impegnati cineasti militanti, da sempre proteso al difesa della classe sociale più povera e soggetta a soprusi ed ingiustizie) è un maestro nel trattare argomenti che riguardano la classe operaia, il ceto medio, la cosiddetta "middle class" inglese, con le problematiche, le necessità e le mancanze che ruotano attorno ad essa. Non a caso il ritorno (dopo aver annunciato dopo il bel dramma romantico Jimmy's Hall il suo ritiro) del regista, attivista e politico britannico con Io, Daniel Blake (I, Daniel Blake), è nel pieno del suo stile. Questo film del 2016 infatti (vincitore della Palma d'oro al Festival di Cannes 2016), segna il suo ritorno alla critica sociale (che lo ha reso famoso grazie a molti film) in un'Inghilterra dei giorni nostri, in cui si intrecciano le vite di anziani e giovani, accomunati dalla difficoltà che incontrano in un sistema sociale in cui tutto sembra essere contro di loro. Un sistema che permette, anche a chi ha lavorato per tutta la vita, di ritrovarsi in uno stato d'indigenza. E il regista Ken Loach quindi, racconta con molta sensibilità e con uno stile essenziale e sobrio (senza alcun fronzolo), un dramma che è umano e sociale, partecipando con slancio sincero e generoso al dolore dei suoi protagonisti. Protagonisti che fanno di tutto per poter dare una vita normale ai suoi figli o che esprimono rabbiosamente, tutto il loro disappunto (scrivendo con una bomboletta spray sui muri dell'ufficio nome e necessità) per il cinismo spietato e ottuso degli impiegati di un ente statale. Il film per questo (che riesce a coinvolgere con una storia immaginaria ma che è più reale di una storia vera) colpisce direttamente al cuore, fino a spezzarlo, fino alle lacrime che scaturiscono un po' per commozione e un po' per rabbia.
L'argomento forte ed attualissimo, la spinta emotiva che esso si porta dietro, sono in effetti a tratti dirompenti, e con questo film, non eccezionale nella forma, ma lodevole per l'impegno e la tematica che affronta con lucidità e senza mezzi termini, Ken Loach ritorna a ruggire e a battersi efficacemente contro le iniquità del capitalismo esasperato che inghiotte e devasta, divide creando sempre più masse di povertà da una parte, ed una élite sempre più dominante e potente dall'altra. Un film perciò necessario e attualissimo che, nonostante qualche difettuccio (qualche passaggio ripetitivo/didascalico ma obbligato e qualche dissolvenza a nero di troppo), riesce a convincere con la sua critica feroce verso la burocrazia moderna, burocrazia che ormai sembra essere in tutto e per tutto un'azienda al servizio dello stato che produce ricchezza a scapito dei propri cittadini. E' un pezzo grosso quello buttato sul piatto dal regista, che schifo che fa il mondo degli uomini, per fortuna ogni tanto qualche cittadino tosto alla Daniel Blake c'è ma il prezzo da pagare per questa tenacia è spesso molto alto. Lo sa bene proprio il protagonista, la sua lettera finale è infatti un atto d'accusa impietoso, feroce allo stato e all'umanità intera, un atto che tradisce la dignità umana. A non tradire se stesso, la propria dignità, è il regista, come il suo protagonista Daniel Blake (Dave Johns), un carpentiere di 59 anni che, colpito da infarto e obbligato ad astenersi dall'attività lavorativa su ordine del medico, si vede negati i suoi diritti. La burocrazia infatti, nonostante gli evidenti problemi fisici, gli toglie il sussidio, lasciandolo senza reddito e non contento lo intrappola tra moduli online, curriculum da consegnare e visite inutili all'agenzia del lavoro.
Preso tuttavia da questa trappola burocratica Daniel incappa accidentalmente nella vita di Katie (Hayley Squires), giovane disoccupata ed ex senzatetto londinese con due figli, appena trasferitasi a Newcastle in un alloggio popolare. L'uomo si ritrova così ad instaurare un rapporto di amicizia molto forte con la ragazza, tra i due difatti nasce un rapporto di reciproca solidarietà. E insieme perciò cercheranno di lottare, nonostante le difficoltà, per i propri diritti e per affermare la propria dignità. Ma non sempre la vita è giusta, non sempre la speranza c'è, anche se questo film, film in cui ancora una volta il regista si schiera dalla parte dei più deboli, dei più vulnerabili e delle periferie (dimostrando ancora il suo tocco nella raffigurazione di quadri realistici che mostrano una classe sociale che resiste e sopravvive), non è un film senza speranza. La speranza dimora nella solidarietà tra i disperati Daniel e Katie, nei gesti accoglienti delle persone che gestiscono il banco alimentare, nelle persone che cercano di aiutarli in contrapposizione alla freddezza della burocrazia. Il film per questo forse non è certo geniale e innovativo, ma Io, Daniel Blake è una pellicola molto intensa, capace di coinvolgere e far riflettere senza la necessità dell'uso massiccio di retorica, che pure esiste ma non è inficiante o banale, rendendoci partecipi delle emozioni e delle sofferenze che vivono i protagonisti, ai quali va un plauso per come vengono caratterizzati e interpretati da un cast (seppur in larghissima parte sconosciuto, compreso quello principale) abile, credibile e semplice. Dopotutto la forza del film sta tutta nella sua semplicità. Una storia semplice di due persone che rappresenta i bisogni della società intera. Questa è una delle peculiarità dei film di Ken Loach: passare dal particolare al generale per poi ritornare al particolare.
Lui che non è certo nuovo a film di questo genere. Lui che, seppur è un regista che a volte si lascia anche trasportare, possiede uno sguardo sincero ed onesto proprio su tematiche che possono sembrare vecchie, ma che in verità sono sempre attuali. D'altronde cambiano i modi e le forme di una sostanza che rimane tuttavia immutabile e proprio per questo che il regista va a segno, fin dalle primissime battute sul colloquio iniziale sui titoli di testa, un colloquio reale ed essenziale. Come di una essenzialità, di un realismo, di una statura cinematografica unica, grazie anche a due interpreti che donano l'anima a due personaggi indimenticabili, sono certe sequenze, certe emozioni: non è sentimentalismo, è dolore, sofferenza quella a cui Ken Loach ci sottopone. Il dolore dell'esistenza, della realtà. Eppure il film è raccontato con una leggerezza incredibile, riesce a far sorridere anche in momenti di devastante drammaticità, quelli in cui ci si rende conto che il nostro intero Sistema ha fallito. Certo, abbiamo tante altre sequenze telefonate e melodrammatiche (come i racconti di Blake sulla moglie morta, oppure la sequenza del furto nel negozio o ancora il finale quasi prevedibile), ma sono riequilibrate da tante altre che, in qualche modo, danno la prova di un cinema che non ha paura dei sentimenti e della loro essenziale messa in scena. Dopotutto, seppur da un punto di vista stilistico non si aggiunge nulla di nuovo all'arte cinematografica, questo è il solito Ken Loach, da prendere o lasciare, riconoscibile nella messa in scena scevra da orpelli, da un'illuminazione piatta che vuole solo mettere in evidenza le psicologie devastate dei personaggi, da inquadrature semplici e a tratti scolastiche.
La storia non a caso non cala mai di tono, non cerca di calcare troppo la mano per arruffianarsi il pubblico e non tenta la carta della facile enfatizzazione per strappare consensi (anche se in alcuni punti in cui la storia è sinceramente commovente, spesso le scene che suscitano empatia nello spettatore sono piene zeppe di cliché e contornate da una retorica basata sull'esibizione di una classe sociale, più o meno proletaria, che sembra forzatamente essere "unita" e solidale tra i suoi componenti), poiché la storia funziona, è resa tematicamente, tecnicamente e narrativamente bene (altro elemento reso molto bene nel film è il tema di una generazione di anziani che non riesce a stare al passo coi tempi e per la quale anche solo la compilazione online di un modulo burocratico diventa una fatica di Ercole) ed è ben costruita che non ha bisogno di certe "furbate". Tuttavia, e nonostante questi interessanti e ben resi spunti, la Palma d'Oro sembra tuttavia eccessiva per un film che fa sì riflettere sulla gravità della crisi contemporanea, ma che ha anche limiti strutturali che lo rendono poco originale. Anche se seppur molti lo han definito un film bello, ma convenzionale, a parer di chi scrive è sì un film classico, ma di un'urgenza narrativa che non poteva davvero essere ignorata. Perché se anche appunto, la contestata Palma d'Oro (assegnatagli dalla giuria presieduta da George Miller) forse è stata troppo (in rapporto ad almeno 3-4 altri film concorrenti forse in senso assoluti più meritevoli del premio più prestigioso, tra cui di quelli da me visti, Elle di Paul Verhoeven), ma l'argomento, di per sé forte, impellente, maturo, necessario, può in questo caso giustificare una scelta a prima vista un po' avventata o comunque epidermica. Giacché alla fine seppur questo non è il miglior film di Ken Loach (un film a tesi, più che una storia originale, come Il mio amico Eric e La parte degli angeli), è questo un certamente film da vedere e consigliare. Voto: 7