Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/04/2018 Qui - Con Woody Allen ho sempre avuto un rapporto conflittuale durante la sua lunga filmografia, solo in parte ultimamente acuito dal passabile "thriller" Irrational Man, meno dal suo precedente visto Blue Jasmine, che se non fosse stato per Cate Blanchett, sarebbe risultata ancor più una ritrita accozzaglia. Ora con Magic in the Moonlight, film del 2014 scritto e diretto dal regista statunitense, qualcosa sta nuovamente cambiando in meglio, sperando che i suoi ultimi lavori che mi mancano non facciano l'effetto opposto. Anche se lo stesso è comunque un film in pieno stile Woody Allen, uno stile (che credo ormai tutti conoscono) che può piacere o non piacere, ma che stilisticamente e formalmente è sempre parecchio affascinante ed interessante. Non a caso Magic in the Moonlight è una commedia divertente e raffinata, un film arguto e brillante che pone in maniera lineare e a modo di semplice storiella (alternando ironia, battute sagaci e anche numerosi riferimenti letterari e filosofici) un interrogativo chiave dell'essere umano. Siamo effettivamente solo logica e ragione o al mondo c'è qualcosa in più? Il film infatti, che riprende comunque l'usuale canovaccio della screwball comedy anni '30 e di molti suoi film classici, ci racconta di un inguaribile misogino (se non misantropo, un istrionico Colin Firth, un cinico e razionale prestigiatore di fama internazionale "cinese") che dopo aver accettato l'invito di un amico a smascherare una presunta sensitiva (la graziosa e magnetica Emma Stone) che sta letteralmente imperversando nella Francia del sud presso una ricca famiglia, e dopo aver constatato che in verità la sua visione del mondo è "probabilmente" sbagliata, alla fine si innamora della stessa fanciulla che gli mostra il lato positivo dell'esistenza. Niente di originale quindi, tuttavia l'originalità della pellicola (un'opera sì leggera eppure di grande sostanza, che sembra quasi rinverdire i fasti del passato) sta forse nella profondità "filosofica" che pervade la vicenda (che riserverà parecchie sorprese), nella capacità del regista newyorkese di riflettere in modo non scontato e ironico sui grandi temi dell'umanità come la morte, l'aldilà, il destino, la felicità. Paradigmatica a questo proposito risulta la parabola interiore di Stanley (si può parlare quasi di "romanzo di formazione") che oscilla tra materialismo disincantato e slancio mistico, tra razionalismo scientifico e spiritualismo religioso.
Se da un lato prevale il pessimismo cosmico, dall'altro l'amore offre quell'illusione consolatoria capace di scaldare, come una fiaccola, il gelo dell'infelicità a cui la "stupida ragione" ci condannerebbe. Nel personaggio di Stanley, Allen ha sprigionato tutta l'ambigua polisemia del termine "magia". Tuttavia, come spesso accade, è la stessa atmosfera del film ad essere magica, con ambientazioni mozzafiato tra roccia e mare (oltre a romantici orti fioriti e splendidi giardini) accarezzati da una languida luce crepuscolare, ma anche la solida interpretazione dei due attori protagonisti, senza parlare dell'immancabile (e sempre funzionale ed efficace) colonna sonora vintage. Insomma un film piacevole, gradevole, formalmente elegante e di valida fattura. Guai però a gridare al capolavoro, la storia dell'amore/odio tra l'illusionista scorbutico e la graziosa finta medium (in cui Colin Firth e la sorpresa all'epoca Emma Stone fanno bella mostra di sé in una gara di bravura che finisce pari) è fin troppo facile da decifrare, happy ending finale compreso. Eppure il regista giocando con il suo passato, con l'illusione dell'amore e con le sue passioni (la magia, gli anni '30), in un viaggio laico a ritroso nel tempo alla ricerca delle proprie radici e di quelle del suo cinema, riesce a farne un film, forse non perfetto, ma che in quanto ad intelligenza e contenuti è sopra la media. Forse a mancare è la trama (conciliante con lo spirito ma anche un po' pigra, troppo banale e prevedibile), senza un grosso mordente, senza quell'ultima idea geniale che possa permettergli di distinguersi marcatamente, fortunatamente i dialoghi (insieme battute e spunti, comunque, interessanti), l'ottima confezione tecnica (la scorrevolezza della vicenda) e la caparbia prova degli attori coprono questo comunque non trascurabile difetto. Perché anche se certamente Magic in the moonlight non è un film indimenticabile e in fin dei conti non lascia poi tantissimo su cui riflettere a visione ultimata, esso si fa apprezzare, dato che la magia (la scena finale un sorriso lo ha lasciato anche a me) io l'ho sentita. Voto: 6,5
Se da un lato prevale il pessimismo cosmico, dall'altro l'amore offre quell'illusione consolatoria capace di scaldare, come una fiaccola, il gelo dell'infelicità a cui la "stupida ragione" ci condannerebbe. Nel personaggio di Stanley, Allen ha sprigionato tutta l'ambigua polisemia del termine "magia". Tuttavia, come spesso accade, è la stessa atmosfera del film ad essere magica, con ambientazioni mozzafiato tra roccia e mare (oltre a romantici orti fioriti e splendidi giardini) accarezzati da una languida luce crepuscolare, ma anche la solida interpretazione dei due attori protagonisti, senza parlare dell'immancabile (e sempre funzionale ed efficace) colonna sonora vintage. Insomma un film piacevole, gradevole, formalmente elegante e di valida fattura. Guai però a gridare al capolavoro, la storia dell'amore/odio tra l'illusionista scorbutico e la graziosa finta medium (in cui Colin Firth e la sorpresa all'epoca Emma Stone fanno bella mostra di sé in una gara di bravura che finisce pari) è fin troppo facile da decifrare, happy ending finale compreso. Eppure il regista giocando con il suo passato, con l'illusione dell'amore e con le sue passioni (la magia, gli anni '30), in un viaggio laico a ritroso nel tempo alla ricerca delle proprie radici e di quelle del suo cinema, riesce a farne un film, forse non perfetto, ma che in quanto ad intelligenza e contenuti è sopra la media. Forse a mancare è la trama (conciliante con lo spirito ma anche un po' pigra, troppo banale e prevedibile), senza un grosso mordente, senza quell'ultima idea geniale che possa permettergli di distinguersi marcatamente, fortunatamente i dialoghi (insieme battute e spunti, comunque, interessanti), l'ottima confezione tecnica (la scorrevolezza della vicenda) e la caparbia prova degli attori coprono questo comunque non trascurabile difetto. Perché anche se certamente Magic in the moonlight non è un film indimenticabile e in fin dei conti non lascia poi tantissimo su cui riflettere a visione ultimata, esso si fa apprezzare, dato che la magia (la scena finale un sorriso lo ha lasciato anche a me) io l'ho sentita. Voto: 6,5