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venerdì 19 luglio 2019

Gotti - Il primo padrino (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 27/06/2019 Qui
Tema e genere: Gangster movie/film biografico del regista/attore Kevin Connolly, che racconta l'ascesa e la caduta del famoso John Gotti, personaggio legato alla Mafia che tanto imperversò dagli anni '70 ai primi anni dei '90 quando egli finì in carcere dove circa un decennio dopo morì per un tumore alla gola.
Trama: Dopo aver organizzato un sanguinoso colpo nelle strade di Manhattan all'inizio degli anni '80, Gotti diventò il capo della famiglia criminale dei Gambino, assicurandosi un posto nei libri di storia. Ripercorrendo gli eventi cruciali che hanno definito la sua carriera criminale durante gli anni '70, e le conseguenze di quei giorni di gloria, il film presenta il ritratto di un uomo il cui percorso è stato segnato da violenza, ambizione e amore per la famiglia.
Recensione: Aveva quasi tutto (più o meno, perché regia, cast e quant'altro solo di media qualità) per fare per quanto possibile un buon lavoro. Tuttavia, una sceneggiatura fiacca, un montaggio poco congeniale e una recitazione che non brilla hanno reso questo film un prodotto inefficace. Se si dovesse infatti riassumere questo film in una sola frase, questa sarebbe "Ma dove si voleva arrivare?". Sì, perché in questo film, sebbene si voglia far capire che il personaggio di John Gotti sia stato nell'universo mafioso una sorta di innovatore, un uomo che ha sempre cercato di mantenere un distacco tra la sua professione e la sua famiglia, amato da tutti poiché coinvolto nella sua comunità, non coglie il punto. L'intenzione si perde in una serie di cliché che non fanno davvero capire il personaggio, e di ciò si deve far carico anche l'interpretazione di John Travolta, un po' stanca forse, forse non supportata da una sceneggiatura brillante. Se fosse stato supportato in maniera più efficace, il film avrebbe potuto avere un riscontro migliore, senza risultare invece in circa 2 ore di profonda lentezza. Eppure John Travolta ce la mette tutta, si vede, traspare dallo schermo la volontà di fare qualcosa di buono e di efficace. Forse, l'ennesimo film a tema mafioso che aderisce a svariati elementi di film già visti e rivisti come Quei Bravi Ragazzi, basti pensare alla colonna sonora, al montaggio di alcune scene o alla scelta di bucare la quarta parete all'inizio e alla fine del film. Questo è un meccanismo cinematografico interessante dal punto di vista narrativo ma che può funzionare solo in certi contesti, e in Gotti - Il primo Padrino sembra una forzatura. Il problema non è solo che la sceneggiatura salti continuamente, incessantemente e confusamente tra le ere della vita del gangster John Gotti coprendo i più disparati periodi temporali (dagli anni '70 ai '90), infatti gran parte del film fila così, con racconti sconnessi dove i personaggi parlano per di più di cose che non vediamo accadere, ma il guaio vero e proprio è che il regista usa talmente tanti punti di vista per approcciarsi al personaggio che alla fin dei conti il film non riesce ad averne uno vero e proprio. Gotti così, più che un film vero e proprio sembra un elenco degli eventi malavitosi che lo hanno visto coinvolto, a cui però manca un filo narrativo vero e proprio e, soprattutto, una vera e propria anima, risultando freddo e asettico. In tal senso la prima ora e mezza passa in maniera quasi soporifera, un fatto strano dato il tema che tratta. Ma neanche la seconda migliora la situazione, anzi. Infatti a conti fatti, questa ennesima pellicola sulla Mafia o, più precisamente, su un personaggio mafioso, è mediocre e trascurabile, televisiva nell'impianto e piuttosto inconcludente. Ma non è certamente il peggior film mai realizzato, è piuttosto un gangster movie sottotono, che pone l'accento sulla lussuosa vita del protagonista, piuttosto che sui fatti che l'hanno resto tristemente famoso. Ci dovrebbe davvero essere l'idea che Gotti sia diverso da tutti gli altri, ma il film oltre a dirlo a parole non ce lo fa capire. E questo nonostante abbia dei dialoghi indubbiamente ben scritti, acuti e intelligenti. Non è un film noioso Gotti, ma in più di un caso non si capisce cosa voglia dirci, sconfinando nella chiusa in una sorta di apologia che probabilmente vorrebbe essere un tocco di complessità, ma riesce solo ad essere maldestra. Tanto che non si spiega come abbia fatto questa anche piuttosto deludente pellicola, a fronte di sei candidature a non vincere nemmeno un Razzie Awards.

lunedì 3 giugno 2019

13 Peccati (2014)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 22/08/2018 Qui - Non posso fare paragoni con l'originale, giacché 13 Peccati (13 Sins), film horror del 2014, diretto da Daniel Stamm e interpretato da Mark WebberRon PerlmanRutina WesleyPruitt Taylor Vince e Christopher Berry, è un remake del film tailandese 13: Game of Death, ma questo è un gran bel film a mio gusto. Un'altra pellicola che sfrutta come idea di base due soggetti tanto cari al cinema di questi anni ossia l'avidità per il denaro ed il voyeurismo dell'eccesso. Il quesito inoltre è il solito: fino a che punto è disposto a spingersi una persona in difficoltà pur di porre fine ai propri guai economici e soprattutto "è davvero la ricchezza che fa la felicità"? Temi vecchi come il mondo quindi, ma qui trattati piuttosto bene grazie ad una valida sceneggiatura, una buona regia ed una recitazione che fa il suo dovere. Nel film infatti, che racconta di uomo che licenziato dalla compagnia di assicurazioni dove lavorava come agente e che ha parecchi problemi da risolvere, che viene contattato per partecipare ad una specie di gioco dove dovrà superare 13 prove sempre più impegnative, alla fine delle quali, se queste saranno superate, l'uomo riceverà sul suo conto corrente parecchi milioni di dollari, il ritmo (senza fronzoli ed inciampi fino all'incredibile epilogo) è sempre alto, non mancano momenti divertenti (quasi tutti all'inizio ad essere sinceri), non manca la violenza, non mancano riflessioni, e così ne esce fuori un prodotto divertente e che sa imprimersi nella memoria dello spettatore. Spettatore che si potrà godere un film che non cade nella trappola dell'allegoria morale a buon mercato, ma un thriller psicologico sul filo della tensione davvero avvincente. Perché anche se i colpi di scena della seconda parte sono intuibili, tutto è ben congegnato. Questo perché il regista sincronizza immagini, grafica e dialoghi e li monta in una traccia limpida e scorrevole, cui aggiunge il beat di un ritmo in accelerazione continua e un umorismo noir che stempra suspense e dinamica. E in tal senso sarebbe un soffio per 13 Sins cadere nel cinema istituzionale, truccato da cliché, stereotipi ed eufemismi di routine, ma egli scansa il convenzionale, mescola dramma e umorismo e guadagna un thriller d'identità. Ironia tagliente e satira si declinano con intrigo e inquietudine in un teatrino di baruffe tra il surreale e il tragico. Non è un caso che pare evidente come al regista piaccia ricorrere ad una coreografia burlesca e giullare, come quella di un Luna Park, per raccontare la sua storia. E' lì infatti dove Daniel Stamm ambienta le sequenze finali del film o come quelle di una pista circense, che il filmmaker richiama senza stancarsi, perfino nell'ossessiva suoneria clownesca del cellulare di Elliot, come a ricordare che il gioco è dopotutto solo uno show, uno spettacolo di equilibrismo senza rete in un'arena sotto il tendone, fra bande e fanfare in festa.

giovedì 30 maggio 2019

The Devil's Candy (2015)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 11/07/2018 Qui - Ho letto in giro commenti e giudizi entusiasti, ma dopo aver visto The Devil's Candy, film del 2015 scritto e diretto da Sean Byrne, la mia impressione è che si tratti di un film, un horror, sicuramente sufficiente, minimamente innovativo ma parecchio deludente per come era stato presentato. Ovvero una grandissima pellicola, una piccola rivoluzione, una delle più belle sorprese dello scorso anno, invece, seppur questo The devil's candy è sicuramente un opera godibilissima e parecchio interessante, un ibrido assai preciso tra suggestioni culturali "alte" e "basse", un ibrido di due sottogeneri dell'horror, lo slasher con il pazzo assassino che uccide e squarta vittime e che perseguita una famiglia e il film di possessioni demoniache, dove a perseguitare una famiglia è il demonio, esso è però un'opera confusa e per niente spaventosa, con un finale anche troppo benevole. Perché certo, è realizzato con una certa cura (con uno stile pulito, rigoroso ed essenziale, fotografia e montaggio di livello) e Sean Byrne (alla sua seconda prova da regista dopo The Loved Ones, film che tuttavia non ho visto) non manca di estro visivo alla regia, una marcia in più è sicuramente data dalla colonna sonora metal (sempre che piaccia, e a me sinceramente non tanto) che unita all'arte dark presente nel film lo rende un prodotto che vive di luce propria nonostante soggetto e sceneggiatura siano derivativi da molti thriller-horror, perché certo, c'è tensione, c'è atmosfera e ci sono delle buone prove attoriali, il panico della famiglia, specie della figlia, traspira sino allo spettatore e Pruitt Taylor Vince come villain fa la sua figura, vi è una certa crudeltà, anche se alla fine visivamente non si mostra chissà quanta violenza, ma purtroppo la sceneggiatura è un poco superficiale o forse criptica per quanto riguarda certi argomenti (e penso alla società d'arte per cui lavora il protagonista) ed il finale banale oltre che "caciarone" per quanto concerne la sequenza dell'incendio.