giovedì 28 febbraio 2019

Le mie considerazioni sugli Oscar 2017

Considerazioni pubblicate su Pietro Saba World il 28/02/2017 Qui - Come quasi sempre succede dei film nominati e vincitori (come anche l'anno scorso, qui), praticamente si contano sulle dite di una mano quelli che sono riuscito a vedere, per cui non è che posso esprimermi o dire tanto, ma poiché dei film visti, di tutti ho pronosticato e sperato vincessero almeno la statuetta a cui erano stati nominati, posso solo dire di ritenermi moderatamente soddisfatto. Difatti su 4 di quelli visti, 2 hanno vinto la loro categoria. Parlo ovviamente di Zootropolis, miglior film d'animazione e comunque l'unico dei 5 visto (però è davvero stupendo) e Il libro della giungla per i migliori effetti speciali, che sorprendentemente ma meritatamente, secondo il mio modesto parere (dato che in effetti sono eccezionali), ha battuto sia Doctor Strange e Rogue One. Quelli altri due invece, 13 Hours: The Secret Soldiers of Benghazi per il miglior sonoro (qui davvero straordinario in verità, con sparatorie infinite) è stato battuto da La battaglia di Hacksaw Ridge, ugualmente un film di guerra, che a sua vince tra lo stupore di molti, anche il miglior montaggio, battendo addirittura il piano-sequenza, che aveva stupito e anche convinto tutti, quello di La la land di Tom Cross. Ma prima di parlare di quest'ultimo, l'ultimo film visto nominato ma perdente è stato The Lobster, che avevo molto apprezzato per la sua originalità, e invece vince come migliore sceneggiatura originale Manchester by the Sea, che vede anche vincitore come migliore attore protagonista Casey Affleck, che in un sol colpo batte sia Andrew Garfield (il mio pronosticato, a proposito tutti i miei pronostici li trovate qui) che Ryan Gosling ma soprattutto un mio beniamino, ovvero Denzel Washington, che comunque in parte si riscatta, dato che a diretto lui stesso Barriere, che con Viola Davis (personalmente non proprio eccezionale) vince l'unico Oscar, quello come migliore attrice non protagonista. Sorprese, delusioni e tanto altro per l'Italia, che vede Fuocoammare, giustamente (io preferivo Life, Animated) ma incredibilmente battuto dal documentario meno quotato, ovvero O.J.: Made in America di Ezra Edelman, l'ennesimo su O.J. Simpson, come se la straordinaria serie di Ryan Murphy non bastasse. Vince invece con grande contentezza, di critica e pubblico, per il miglior trucco e acconciatura, il trio, comprendente di due italiani Alessandro Bertolazzi e Giorgio Gregorini con Christopher Nelson per Suicide Squad. Ma non finisce qui, perché per i nostri colori, tra i premi meno 'conosciuti' vince come miglior cortometraggio d'animazione Piper di Alan Barillaro. Meno conosciuti perché raramente si riesce a vederli, sia questo che il miglior cortometraggio (Sing) che il miglior cortometraggio documentario (The White Helmets di Orlando von Einsiedel), suggerisco difatti di scegliere un giorno di programmazione Sky o altro e farli vedere, poiché non è mica un film dove si guadagnano milioni. Da segnalare anche il quarto Oscar per Colleen Atwood per i migliori costumi per Animali fantastici e dove trovarli, ovviamente ancora da vedere.

PPZ: Pride + Prejudice + Zombies (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 27/02/2017 Qui - Da un film intitolato PPZ: Pride + Prejudice + Zombies (Pride and Prejudice and Zombies), come il famoso romanzo di Seth Grahame-Smith, seguito di quello originale (di Jane Austen, un classico della letteratura, molto più famoso), è lecito aspettarsi qualcosa di grottesco, trash e delirante. E invece in questa roba che stento a definire "film" l'unica cosa a regnare sovrana è la noia. Il film, del 2016 scritto e diretto da Burr Steers (sconosciuto e mai sentito), si prende dannatamente sul serio, non diverte e gli zombi sono davvero poco presenti. La regia è piattissima a dir poco, non da spessore a niente, né alla classica storiella d'amore (che comunque paradossalmente funziona), né alla componente delirante, né ai personaggi che, arti marziali a parte, sono un pigrissimo copia/incolla degli originali del romanzo della Austen, come la trama del resto. Ci si aspetta infatti che il regista, che è anche sceneggiatore, lavori maggiormente sull'aspetto propriamente horror che invece rimane confinato a scene poco significative e mai topiche. La presenza dei morti viventi non intacca né deforma l'andamento degli eventi. Il regista si lascia maggiormente sedurre dal testo della Austen, di cui ripropone pedissequamente dialoghi e situazioni, anche se rappresenta le giovani protagoniste come fanciulle capaci di tirare di spada, imbracciare fucili e pistole accantonando l'uncinetto e i ricami a piccolo punto. Tra scene simile kung fu e seduzioni amorose del tutto scollate le une dalle altre, il regista privilegia le seconde. Darcy si dichiara all'amata Elizabeth secondo il più classico dei cliché ammettendo che di tutte le armi che esistono al mondo, l'amore è la più pericolosa. Niente a che vedere con la brutalità zombie.

Una notte con la Regina (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 27/02/2017 Qui - Una notte con la Regina, film del 2016 diretto da Julian Jarrold, trae ispirazione da un episodio realmente accaduto ma viene forzatamente romanzato, forse troppo, dato che sembra tutto abbastanza assurdo. Il perché è presto detto, che la Principessa Elizabeth e la Principessa Margaret (che ottengono l'autorizzazione dai genitori tanto restii) uscirono per la prima volta dal Buckingham Palace per festeggiare la fine della seconda guerra mondiale (8 maggio 1945) ci può stare, ma che addirittura ciò comporta un inseguimento fra autobus, l'excursus in un bordello e l'incontro tra Elizabeth e un giovane aviatore, Jack, che non sa di avere a che fare con una principessa, mi sembra esagerato. Ci vuole tanta immaginazione e creatività che richiede una certa sospensione dell'incredulità, per credere davvero che sia tutto veritiero, soprattutto per quanto riguarda le due guardie reali ubriacone e donnaiole. Certo, c'era da immaginarselo, però non tanto convince, troppo improbabile, eppure nonostante ciò si rivela una divertente e per certi versi commovente cavalcata nella nostalgia per un'epoca lontana più semplice ed un cinema più incline al sogno. La ricostruzione d'ambiente, popolata da centinaia di comparse in costume, ha il sapore della messinscena teatrale o della favola disneyana, ma a rendere moderna la narrazione sono i dialoghi, ispirati nel vocabolario e nella enunciazione alle commedie sofisticate anni '40, ma carichi di senno di poi e colorati dalla nostra sensibilità contemporanea. Insomma non malissimo ma neanche eccezionale. Un altro problema è che Una notte con la Regina è un film inglese che più inglese non si può. Poiché è difficile per coloro che non lo sono comprendere l'ammirazione e la devozione che hanno gli inglesi tutti o quasi per la casa reale e che pervade tutto il film (io per esempio non l'ho mai capito e mai capirò).

Lucy (2014)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 27/02/2017 Qui - Premettendo che sono uno, se ancora non ve ne siete accorti, che si entusiasma facilmente, primo perché sono un grande fan del genere action, secondo perché sono un grande fan di Luc Besson, uno dei miei registi preferiti ma che ultimamente stava diventando un po' una macchietta di sé stesso, anche se in questi anni non ho mai perso la speranza, Lucy, film del 2014 diretto, scritto e co-prodotto dal regista francese, mi è piaciuto tanto, soprattutto per la fase action, poiché il film fallisce nel tentativo di trasmettere un qualsiasi significato superiore, dove la perfettibilità umana sembra essere legata meramente alla percentuale di attività neuronale. Quella che, a seguito di circostanze indipendenti dalla sua volontà, la giovane studentessa Lucy (Scarlett Johansson), vedrà crescere all'infinito. "Colonizzando" il suo cervello infatti, acquisirà poteri illimitati che le permetteranno di trasformarsi in una micidiale macchina da guerra contro ogni logica umana. Con questo film Luc Besson omaggia se stesso, dato che questo thriller fantascientifico che rispolvera i fasti di Nikita e Leon rivisitandoli in chiave fantascientifico-esistenziale, funziona, non alla perfezione, anzi, ma decisamente meglio di Transcendence (con Johnny Depp che impersonava un cervellone nella rete con manie di onnipotenza) che ha ricevuto giudizi contrastanti. La regia è quella sua solita, cioè molto rapida, con un montaggio abbastanza frenetico e un ritmo sempre al top che tuttavia a volte rallenta per immergerci nella psiche della protagonista e questo ci sta alla perfezione, perché è giustificata e pure efficace, grazie anche alla scelta azzeccata della fantasmagorica protagonista, Scarlett Johansson, sempre bravissima e bellissima, che riesce a caratterizzare molto bene il personaggio che risulta all'inizio antipatica, stupida, priva di un vero e proprio scopo nella vita, la classica studentessa sopra le nuvole, che non sa nulla del mondo, ma dopo 'l'incidente' che la porterà ad utilizzare il 100% del proprio cervello poco a poco, diventa fredda, spietata ma comunque non perde mai del tutto la propria umanità, e la Johansson è bravissima a rendere il cambiamento in modo esaustivo.

Backtrack (2015)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 27/02/2017 Qui - Backtrack, thriller australiano, di impianto psicologico e con sfumature horror, del 2015 diretto da Michael Petroni, più noto come sceneggiatore che come regista, ha infatti scritto Le Cronache di Narnia: Il viaggio del veliero e Storia di una ladra di libri, anche se nel suo curriculum ci sono Possession e Il rito, è un inedito e non tanto eccezionale film, ma minimamente coinvolgente, dato che riesce a intrattenere fino all'ultimo per scoprire la verità, quella che il protagonista (Adrien Brody) scopre e ricorda dopo un attento esame di coscienza, il film è difatti un ritorno alla coscienza di quel che si è voluto volontariamente o inconsciamente dimenticare. La vita dello psicologo Peter Bowers infatti, è gettata nello scompiglio quando l'uomo scopre che i suoi pazienti altro non sono che i fantasmi delle persone morte in un incidente di venti anni prima. Temendo di perdere la lucidità mentale, Peter decide di tornare al suo paese natale, dove lo attende una terribile verità che solo lui può affrontare. Backtrack, anche se prende in prestito dal genere horror i canoni generali di rappresentazione dei fantasmi (discreti ma non tanto efficaci), nonché i loro giochini per spaventare il protagonista, è più un thriller che un film dell'orrore. Un thriller che rischia spesso uno strano déjà-vu nello script, ma il regista riesce a dribblarlo, grazie anche alla scelta del sempre professionale Adrien Brody (recentemente visto in Manhattan Nocturne) che con quella faccia un po' così riesce ad offrire le giuste sfumature al suo personaggio. Sfumature che vanno dal dolore per la morte di una figlia al senso di colpa per l'accaduto fino all'impressione di essere sull'orlo della follia. Perché non trascorre molto tempo dall'inizio del film prima che sia lui che lo spettatore dubitino dei suoi pazienti e di quanto affermano. Quando poi entra in scena la bambina cupamente misteriosa il gioco è fatto.

Victor: La storia segreta del dott. Frankenstein (2015)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 27/02/2017 Qui - Neanche il tempo di digerire l'ennesima trasposizione di un classico venuto abbastanza malino (I, Frankenstein, 2014) eccone uno nuovo, l'ennesimo film atto a narrarne le origini e anche le gesta del mostro nato dalla penna di Mary Shelley, ovvero Frankenstein, di cui l'anno scorso c'è stata anche una mediocre serie tv, quiVictor: La storia segreta del dott. Frankenstein (Victor Frankenstein) infatti, film del 2015 diretto da Paul McGuigan (Push, Slevin), si basa nuovamente sul celebre romanzo, e poco cambia se il film parte da un punto di vista inedito, cioè attraverso il punto di vista di Igor, assistente del protagonista, perché è davvero un brutto film, dato che di una trasposizione così pessima, e anche se fosse stata discreta, non ne sentivamo affatto la mancanza. Perché questa nuova versione della celebre storia di Frankenstein, raccontata principalmente attraverso lo sguardo di Igor Strausman (Daniel Radcliffe), che mette in scena il rapporto di amicizia tra lui e Victor Frankenstein (James McAvoy) e che svela il passato segreto del Dottor Frankenstein che lo spinge verso la sua ossessione, ossia creare la vita dalla morte, fa acqua da tutte le parti, innaturale, pieno di anacronismi e pessimo. Poiché se anche la storia di base è sempre quella (togliendo qui la critica sociale), e senza stare a scomodare l'immenso romanzo e i predecessori lungometraggi, il film non funziona, primo perché scontato, in seguito per una composizione del quadro e dell'immagine non buona ed infine per la recitazione sopra le righe e troppo teatrale.

Il professor Cenerentolo (2015)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 27/02/2017 Qui - Da quando nei cinema italiani ha fatto capolino Leonardo Pieraccioni, autore di uno dei più bei film della storia cinematografica italiana (parlo de Il ciclone ovviamente), tutti, compreso me, non riuscivamo a non adorarlo, ma gli anni passano e a ogni suo nuovo lavoro, ognuno di noi in fondo, spera di trovare qualcosa di quel film. Anche questa volta purtroppo un buco nell'acqua. Le battute goliardiche e i doppi sensi ci sono, i personaggi macchiette pure (Davide Marotta per esempio, il nano), ma tutto è costruito sul nulla. Poiché Il professor Cenerentolo, film del 2015 scritto, diretto ed interpretato da lui stesso, convince poco, per non dire affatto. La storia infatti, quella di un recluso in un carcere (Umberto) che viene scambiato per un operatore culturale dalla bella Morgana (che tutto può pensare meno che sia un detenuto), e che approfittando dell'equivoco la frequenta (anche se c'è un orario da rispettare e ogni giorno, proprio come Cenerentola, dato che Umberto deve far rientro in carcere a mezzanotte per evitare che il direttore gli revochi il permesso di lavoro in esterno) è quantomeno debole (esile, banale ed anche molto superficiale, nonché irreale) e i personaggi non hanno caratterizzazioni particolari, fatto che rende il tutto un po' banale, se non infantile.

Son of a Gun (2014)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 27/02/2017 Qui - Son of a Gun, film del 2014 diretto da Julius Avery, è un insolito action thriller, insolito non solo per il ruolo di Ewan McGregor nei panni di un cattivo (in fondo 'buon cattivo'), quanto per il film stesso, dato che questa pellicola australiana comincia come un prison movie per poi proseguire con il genere crime/heist e poi finire in modo poetico simil drama-romantico. Insolito però non sempre è auspicio di buon risultato, anche se a me è piaciuto, certo non tanto ma discretamente, poiché la storia che il film racconta è alquanto attraente, quella di un giovane ragazzo, JR, che arrestato per un reato minore, si scontra rapidamente con la dura vita carceraria e accetta la protezione offertagli da Brendan Lynch, il nemico pubblico numero uno australiano, che per restituirgli il favore gli chiederà di aiutarlo a fuggire con un'audace fuga. Una volta liberi i due uomini, insieme alla banda di lui, ottengono un lavoro come rapinatori da un potente boss, ma la missione è molto pericolosa e una serie di eventi ne aumenterà i rischi. E quando le cose inizieranno ad andare male, saranno costretti a fuggire, anche se nel frattempo i due proveranno a riprendersi l'oro, la vendetta, e per JR, la donna di cui si è innamorato. Il finale sarà quindi imprevedibile. Son of a Gun però, nonostante la trama, che ha un impianto di partenza simile ad altri film anche se poi gli sviluppi sono diversi, è un thriller che promette bene, ma scivola nella convenzionalità nonostante l'impegno di tutti gli attori. Le premesse difatti c'erano perché questo thriller australiano potesse risultare coinvolgente e divertire. E invece se non fosse per la presenza di un cast d'eccezione cadrebbe nell'oblio.

The Vatican Tapes (2015)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 27/02/2017 Qui - Il film di esorcismo è un genere a sé che va sempre di più emancipandosi dalla sua matrice horror. Hollywood sembra produrne con buona regolarità almeno uno l'anno, di volta in volta variando la struttura verso l'intrigo. Tra il background dei preti e quello delle vittime infatti i film di esorcismo prediligono sempre di più il primo, le alte sfere vaticane, gli ordini che arrivano da Roma e gli eventi messi a tacere. Fulgido esempio è quest'ultimo da me visto, The Vatican Tapes, film del 2015 diretto da Mark Neveldine su una sceneggiatura di Christopher Borrelli, ispiratosi ad una storia vera (si vabbé non ci crede nessuno). Un horror della possessione a corto di fantasia e di efficaci paramenti sacri, un modesto epigono di un illustre capostipite che ha la stessa età del regista e della protagonista principale (1973, di cui poco tempo fa ho visto la serie a cui si è ispirato, qui) e che sembra combinarne l'ispirazione legata alla classica dialettica tra il razionalismo dell'approccio medico e l'esoterismo delle conclusioni sovrannaturali con una serie di variazioni sul tema che puntano tutte nella direzione dello spauracchio fantapolitico di un insospettabile anticristo già al centro di altre pellicole. Il film infatti racconta della giovane e bella Angela (Olivia Taylor Dudley), che dopo un terribile incidente in cui rimane in coma, inizia a soffrire degli strani ed inquietanti sintomi di una misteriosa possessione demoniaca.

Zona d'ombra (2015)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 27/02/2017 Qui - Il lungometraggio drammatico Zona d'ombra (Concussion), film del 2015 scritto e diretto da Peter Landesman, con protagonista Will Smith, narra la vera storia del patologo nigeriano dottor Bennet Omalu, che sfidò la fortissima e potentissima NFL, dimostrando scientificamente che il football americano, soprattutto a causa dei violentissimi impatti, tipici di questo sport, danneggia irreversibilmente il cervello, provocando L'encefalopatia traumatica cronica (CTE). Alla luce di questo drammatico racconto di cronaca autentica, che sembra avere apparentemente però un lieto fine, ci si aspetterebbe che questa disciplina sportiva sia stata abolita o quantomeno ridimensionata. Purtroppo per quello che si vede e si sente, in America perlomeno, è una pratica ancora popolarissima e i rimedi che sarebbero stati adottati sono banalissimi palliativi. D'altronde queste battaglie legali, ingaggiate da volenterosi e tenaci cittadini dotati di grande senso civico e  moralità, contro le fortissime lobby, tipo quella del tabacco sono durissime, si pensi a quali studi legali si possono affidare, con i mezzi economici che si possono permettere e dunque destinate il più delle volte al fallimento. Ogni tanto qualcuno riesce ad ottenere un iperbolico indennizzo, ma le cose sostanzialmente non cambiano.

mercoledì 27 febbraio 2019

Kung Fu Panda 3 (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 24/02/2017 Qui - Nel terzo capitolo della saga del simpaticissimo e irresistibile Panda Po, Kung Fu Panda 3, film d'animazione action del 2016 prodotto dalla DreamWorks Animation e diretto da Jennifer Yuh e Alessandro Carloni, si continua a raccontare le vicende del simpatico e ed un poco pasticcione protagonista. Il cosiddetto Guerriero Dragone, che questa volta dovrà diventare "Master of Chi" ovvero Maestro della Forza Interiore (quasi come la 'forza' di Star Wars) per sconfiggere Kai, l'ex fratello in armi di Oogway da lui punito e mandato nel Regno degli Spiriti. Non solo, Po avrà modo di incontrare il suo padre naturale e di visitare con lui il villaggio nascosto dei panda. Come fu per i precedenti anche questo Kung Fu Panda 3, sequel del film del 2011 Kung Fu Panda 2 e a sua volta sequel di Kung Fu Panda del 2008, non delude, perché come per gli episodi precedenti il film si sviluppa con un ritmo perfetto ed intercalato da continui spunti comici, ma ben più importante affronta concetti quali la lealtà, il valore di ogni singola individualità, ma anche l'importanza della famiglia e della forza di un gruppo affiatato per superare insieme gli ostacoli della vita, quindi in maniera soft questo film come i precedenti ha un messaggio educativo per gli spettatori più piccoli, collegandosi in maniera armoniosa con i due precedenti. La trama, qui sintetizzata infatti, ma come si intuisce, ha però tanta carne al fuoco, addirittura può sembrare e risultare complicata, ma l'ora e mezza di narrazione filmica riesca a rendere Kung Fu Panda 3 comprensibile anche ai più piccoli attraverso quella reiterazione variegata ma sistematica che sta alla base di ogni insegnamento efficace, come la tematica del ritrovamento del padre naturale e pertanto della ricostruzione dei legami affettivi, che altresì pone in evidenza anche quella molto interessante e delicata della differenza e dell'importanza o meno nella vita di un essere vivente del genitore naturale e di quello che invece si è preso cura e lo ha allevato, facendo intuire allo spettatore l'importanza di entrambi.

Manhattan Nocturne (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 22/02/2017 Qui - Per chi ama i gialli e i thriller, con un pizzico di noir, rievocando qualche scena di Basic Instinct, e per chi riesce a stare attento ad ogni dettaglio, Manhattan Nocturne (Manhattan Night), film del 2016 scritto, diretto e co-prodotto da Brian DeCubellis va consigliato. Anche se non è certo un filmone, ma comunque per come è la storia, basata su un romanzo omonimo di Colin Harrison, romanzo che deve essere indubbiamente interessante, poiché avvincente e intrigante è la trama del giallo, può piacere. Tuttavia, probabilmente a causa del montaggio e della colonna sonora, il film risulta piuttosto lento e noioso, anche se si lascia guardare fino alla fine. Ma andiamo per gradi, Manhattan Nocturne, racconta la storia di un giornalista, Porter Wren (Adrien Brody), che scrive per un giornale di New York, ma non è solo un semplice giornalista, infatti la sua fama è dovuta alla risoluzione di un caso relativo ad un scomparsa di una bambina, ricercata da molti altri investigatori, ma Porter ha prevalso su tutti. E' sposato con Lisa Wren (Jennifer Beals), un chirurgo abbastanza noto in città, la sua vita scorre tranquillamente fino a che una sera il magnate dell'editoria per cui lavora, di nome Hobbs (Steven Berkoof), organizza un grande party a casa sua, dove Porter incontra quella che diventerà per lui la "femme fatale" del film, Caroline Crowley (la meravigliosa Yvonne Strahovski), vedova da poco per il misterioso omicidio del marito, Simon Crowley, un regista, il cui corpo è stato trovato in un edificio sigillato che stava per essere demolito. Ma ci sono tante altre verità nascoste sulla vita della stessa Caroline, che coinvolge Porter a riaprire il caso, investigando sulla morte del marito, e scoprendo tanti altri indizi che porteranno a tanti guai e ad un finale non del tutto scontato.

Good People (2014)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 22/02/2017 Qui - Con Omar Sy, per una volta in un ruolo non comico (ma che lascia più di un dubbio), e con diversi volti noti nel cast, protagonisti a parte, Good People, film del 2014 diretto da Henrik Ruben Genz, attira facilmente l'attenzione di quella parte di pubblico costantemente famelico di buon cinema ma riesce ad infrangere ogni aspettativa in poco più di una decina di minuti. La recitazione dei due attori principali (James Franco e Kate Hudson) è infatti piatta quanto una tavola e il loro coinvolgimento è pari a quello di una coppia intenta a fare la spesa al supermercato. A ciò si aggiunge una storia popolata da inverosimili colpi di fortuna che rendono la visione incline a frequenti distrazioni. La storia di una giovane e indebitata coppia che si impossessa di una valigetta di soldi appartenente a un criminale a cui avevano affittato una stanza. I due però si ritroveranno presto invischiati in un pericoloso regolamento di colpi. Allora, a parte il dispiacere che si prova quando davanti a un più che discreto cast si assiste a uno spettacolo del genere, è proprio questo thriller il genere di pellicola che non riesce davvero ad essere credibile. Insomma due persone comuni alle prese con un dilemma morale (e fin qui tutto bene, più o meno, dato che quale fosse la morale è un tasto dolente, le possibilità potrebbero essere infatti molte e tutte troppo banali per essere prese in considerazione, qualcosa tipo, anche i buoni possono usare le maniere forti, il fine giustifica i mezzi, mai sottovalutare le brave persone sull'orlo di una crisi di nervi, la mia) che poi si trasformano riuscendo a sopravvivere agli assalti di vari gruppi di malviventi. La risoluzione finale e l'ultima sequenza poi fanno letteralmente ridere in quanto a credibilità e resa. Eppure l'opera ha saputo giocare bene le proprie carte, perché Good People si basa su un romanzo di Marcus Sakey ed è stato adattato da Kelly Masterson (lo sceneggiatore di Onora il Padre e la Madre di Sidney Lumet), aveva quindi i presupposti per non deludere.

Regression (2015)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 22/02/2017 Qui - Regressionfilm del 2015 diretto da Alejandro Amenábar (Agora, Mare Dentro e The Others), è un thriller invero dall'impostazione horror che però diventa dramma psicologico e umano. Il perché è presto detto, Regression infatti è un thriller che mescola atmosfere inquietanti di (reali o presunti) riti satanici e teorie psicanalitiche sull'ipnosi e la regressione attraverso la classica vicenda del detective che si butta a capofitto nel caso e perde di vista la realtà. Siamo negli anni '90, un episodio inquietante, una presunta setta satanica, una ragazza (Angela alias Emma Watson) denuncia il padre di aver abusato di lei e di essere coinvolto in una setta satanica, il padre però non ricorda nulla. Si scatena così, in un paese della provincia americana (dove tutti conoscono tutti, dalla nascita o quasi), la caccia alle streghe da parte della polizia e non solo, un detective difatti (interpretato da Ethan Hawkesi fa coinvolgere emotivamente e psicologicamente in questa brutta storia, ma è lui e solo lui quello che deve trovare il bandolo della matassa e dare una spiegazione razionale a quello che sta accadendo attorno a lui. E man mano che la storia si infittisce, il detective Bruce Kenner (il detective più in gamba del suo dipartimento) si inoltra in una selva oscura e intricata che sembra prendere direzioni soprannaturali. La figura del professore (interpretato da David Thewlis) che affianca Bruce nelle indagini, non aiuta certo a schiarire le idee. Attraverso la pratica della regressione, il professore è infatti convinto che sia possibile riportare a galla i ricordi sepolti che ognuno cerca di nascondere per non doverli affrontare. La suggestione però prende il sopravvento e Bruce sprofonda in un limbo di quasi follia prima di riuscire a risolvere il caso, che si conclude con un plot twist inaspettato, anche se leggermente prevedibile. Il colpo di scena finale infatti ribalta tutta la vicenda, una vicenda che non poteva però avere un altro finale, come molti (compreso me) avrebbero voluto, perché se ancora non l'avevate capito si basa su fatti reali e non inventati come sembrerebbe, anche se qui, come detto precedentemente, il filo che lega realtà e fantasia è quasi impercettibile e neanche tanto efficace.

Il caso Spotlight (2015)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 20/02/2017 Qui - Tratto da una sconcertante storia vera, Il caso Spotlight (Spotlight, 2015) di Thomas McCarthy è un film che rientra a pieno titolo nel cosiddetto 'cinema liberal' americano, impegnato e progressista, intento a mettere in luce scandali nascosti, a scoperchiare vasi di pandora sigillati da mura di omertà insormontabili. E quando una certa idea di giornalismo si incrocia con un certo modo di fare cinema, il risultato è pressoché scontato, ovvero eccezionale. La conferma viene da questa pellicola, superlativa prova autoriale e attoriale. Un eccellente film inchiesta che, candidato a sei Oscar, ne ha portati a casa due, tra cui quello più importante, ossia miglior film, ma anche come miglior sceneggiatura originale, nonostante questo film, co-scritto e diretto da Tom McCarthy (Mr Cobbler e la bottega magica, Mosse vincenti, L'ospite inatteso) è basato su fatti realmente accaduti. Inchiesta che replica e amplifica tematiche trattate nel 1976 da Tutti gli uomini del presidente, dato che il riferimento filmico più immediato è il film di Alan Pakula, date le evidente assonanze narrative tra i due film. Infatti, la storia di entrambi i film nasce e si sviluppa all'interno di una redazione di un giornale, poi li accomuna il fatto che un gruppo di giornalisti si getta anima e corpo su un caso dai chiari risvolti socio-politici, che poi arriva a coinvolgere insospettabili uomini di potere, infine, si racconta di fatti realmente accaduti. Fatti che in questo caso sembrano frutto di fantasia, e invece come spesso accade nel mondo degli umani la realtà supera spesso la fantasia. La pellicola infatti, narra le vicende reali venute a galla dopo l'indagine (tramite un gruppo di giornalisti investigativi conosciuti come "spotlight") del quotidiano The Boston Globe sull'arcivescovo Bernard Francis Law, accusato di aver coperto molti casi di pedofilia avvenuti in diverse parrocchie. Indagine che valse il Premio Pulitzer di pubblico servizio al quotidiano nel 2003 e aprì a numerose indagini sui casi di pedofilia all'interno della Chiesa cattolica. Il giornale difatti denunciò questo scandalo dei preti pedofili e la collusione della alte sfere ecclesiastiche, portando letteralmente alla luce un numero molto elevato di abusi di minori. Tutto a fondo e ad ogni costo, nonostante l'oscuramento mediatico dell'attentato alle torri gemelle.

martedì 26 febbraio 2019

Napoli '44 (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 16/02/2017 Qui - Solo per rigidità classificatoria lo si definisce con il termine 'documentario'. Ma Napoli '44 (2016), ispirato dall'omonimo best seller dell'ufficiale inglese, Norman Lewis, imbevuto di amarissima ironia e insieme di delicata tenerezza per un'umanità allo sbando, dimostra invece come il vero cinema superi ogni distinzione di genere e come anche un documentario, questo in particolare, debba essere definito a pieno titolo 'film'. Film nel senso di un intreccio d'arte tra immagini e vicende umane narrate entrambe di alto valore storico, poetico esistenziale. Il racconto visivo di un'Italia meridionale stremata dalla guerra e le vicende umane degli abitanti di Napoli e dello scrittore e storico britannico Norman Lewis, subito dopo lo sbarco degli alleati a Salerno, il 9 settembre 1943. A quella data Lewis era ufficiale britannico al seguito dell'esercito americano, assegnato a un reparto speciale che aveva compiti di contatto e comunicazione con le popolazioni e le nuove amministrazioni pubbliche in formazione. Arrivato a Napoli, poco dopo lo sbarco a Salerno, inizia il suo lavoro addentrandosi sempre più nelle piaghe, nelle ferite, nella miseria, nella fame, nell'umiliazione di una città, ma anche nell'empatia che essa (a dispetto di tale disperazione) sprigiona, rimanendone completamente coinvolto. Da questa sua esperienza lo scrittore inglese ha tratto il libro che ha lo stesso titolo del film di Francesco Patierno, il regista. Nel film quindi vediamo e similmente immaginiamo che Norman, dopo molti anni, ritorni a Napoli e ripercorra con la memoria quell'esperienza durissima eppure sublime, ad un tempo con l'occhio del viaggiatore inglese dell'Ottocento e con la prudenza positivista dell'ufficiale del servizio di sicurezza. E sentiamo le parole scarne ma profonde del suo testo letterario, lette in inglese dal geniale giovane attore britannico Benedict Cumberbatch e in italiano dalla voce intensa di Adriano Giannini. Testo, diario dove Norman descrive il ritratto di una città che in quel periodo terribile si arrabattava per ricominciare a vivere, turbolenta e di straordinaria umanità, piena di prostitute (42.000 su 140.000 donne, dice Lewis), di imbrogli surreali, di fede folklorica in S. Gennaro, di mercato nero, di tipologie umane sospese tra il dramma e la commedia (come l'avvocato Lattarullo che per sbarcare il lunario interpreta nei funerali il ruolo dello "zio da Roma"), una città prostrata da bombe miseria e morte ma non vinta, antropologicamente seduttiva. Insomma, un incrocio sapiente di memoria, storia, letteratura, cinema.

Killing Reagan (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 16/02/2017 Qui - Basato sul libro di Bill O'Reilly, il film tv Killing Reagan, andato in onda sul canale National Geographic il 17 gennaio 2017, racconta i momenti antecedenti e successivi all'attentato a Ronald Reagan, avvenuto a Washington il 30 marzo 1981. Docu-drama che quindi offre un'attenta rappresentazione delle conseguenze scaturite dal tentato assassinio del quarantesimo presidente degli Stati Uniti d'America ad opera di John Hinckley. Per cui, la trama percorre due linee narrative, da un lato ci mostra le dinamiche familiari degli Hinckley e il suo difficile rapporto con i genitori, soffermandosi sulla personalità dell'attentatore, un ragazzo inquieto in balia delle sue ossessioni (per la celebre attrice Jodie Foster, sì avete capito bene, e la sua folle ricerca di popolarità), dall'altro ci propone il percorso che porta Reagan alla Casa Bianca, (delineando anche un quadro politico dell'epoca), e in particolare, il suo rapporto con la moglie Nancy. In numerose scene il film tv infatti rivela la forza e l'importanza del rapporto tra Ronald Reagan e la first lady Nancy, la quale svolge un fondamentale ruolo di supporto per il presidente. E sembra quasi ironico che il ruolo sia stato affidato a Cynthia Nixon, un'attrice che è diventata famosa nel mondo grazie al ruolo della cinica e sicuramente non romantica (almeno inizialmente) avvocato di Sex & the City. Anche se va riconosciuto invece che la scelta è stata azzeccata non solo sul piano fisiognomico ma anche su quello della resa della personalità di una donna dedita totalmente al successo del marito ma anche capace di imporgli alcune sue scelte non sempre ortodosse. Ovviamente lo stile narrativo del film tv è idoneo a creare nello spettatore un'atmosfera tensiva che raggiunge il suo apice il 30 marzo 1981, giorno dell'attentato. Ma è dopo che tutto cambia, la vivacità del racconto successiva alla scena dell'attentato difatti evoca il clima di confusione e incertezza che sconvolge i protagonisti e influenza la situazione politica.

Getaway: Via di fuga (2013)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 16/02/2017 Qui - Film brutti e per nulla riusciti se ne vedono a bizzeffe, e questo Getaway: Via di fuga (Getaway), film del 2013 diretto da Courtney Solomon, con protagonisti Ethan Hawke e Selena Gomez, è uno di quelli. Perché non basta sottolineare che Finegan e Parker, i due sceneggiatori sono esordienti, dato che lo sconosciuto regista, alla terza direzione, inanella il terzo disastro di fila. Anche se questo thriller senza tregua, svolge nella giusta maniera il suo compito di intrattenere lo spettatore tramite fughe spericolate, lamiere contorte ed esplosioni, fino all'inaspettato e tutt'altro che disprezzabile epilogo. Purtroppo però, all'interno del film (per la precisione all'interno di un action movie senza alcuna ambizione, ad eccezione, probabilmente, di ottenere un rapporto ricavi/costi soddisfacente per la produzione) le scene corrono e si rincorrono alla rinfusa ma non corrono come il tema e la storia imporrebbero, i due attori principali inoltre sono piatti e monodimensionali, concorrendo attivamente al naufragio del film. Per sviluppare una storia che si svolge interamente in un abitacolo (cosa onestamente non facile) servivano interpreti ed interpretazioni migliori, un montaggio più serrato e idee innovative e lungimiranti. La pellicola invece, che racconta di Brent Magna (Ethan Hawke), pilota automobilistico di livello, alla quale viene rapita la moglie e per salvarla viene spinto in una missione al limite dell'impossibile a bordo della sua macchina, dove unica alleata è una ragazzina hacker (Selena Gomez), dove unica speranza è seguire alla perfezione le istruzioni impartite da una voce che ne segue ogni mossa attraverso microtelecamere installate nell'auto, non lo fa. Poiché il film, che sembra difatti essere il remake del film omonimo e ben più famoso di Sam Peckinpah, anche se ovviamente i due prodotti non sono minimamente paragonabili, ci mette infatti di fronte ad un videogioco mal fatto, senza capo ne coda, a cui manca la cosa fondamentale e basilare, il senso. Ed è realmente complicato trovare qualcosa, almeno che non sia estemporaneo, da salvare.

La scuola più bella del mondo (2014)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 16/02/2017 Qui - La scuola più bella del mondo, film del 2014 diretto da Luca Miniero, è l'ennesima commedia mediocre che il cinema italiano ha da offrire, poiché lasciando perdere l'ultimo film visto del genere, ovvero l'eccezionale Perfetti Sconosciuti, questo è un film visto e rivisto, in cui gli attori riciclano le loro solite parti, da Christian De Sica a Rocco Papaleo, passando per la Finocchiaro (Angela), con un pittoresco finale in stile 'musicarello' che rende il tutto ancora più farsesco e imbarazzante. Eppure per una volta, la storia è semplice ed ha pure un senso. Una scuola modello toscana cerca un gemellaggio con un istituto scolastico di Accra, ma il bidello sbaglia a leggere ed invia l'email ad una scuola di Acerra, il cui preside è il miglior Lello Arena di sempre (una delle poche note liete). Il resto purtroppo è invece un esilarante, soprattutto posticcio, girotondo di equivoci basati sul razzismo, reciproco, tra nord e sud, con tanti luoghi comuni, ma ugualmente deliranti. Sulla scia del successo del film "Benvenuti al sud", il regista Luca Miniero continua nuovamente a proporre nella sua produzione cinematografica le differenze sociologiche ed ambientali tra il nord e il sud Italia, iniziando ad evidenziare (purtroppo) una certa stanchezza creativa a livello di idee. Il film, per carità, di per se sicuramente è anche gradevole e ciò è da attribuirsi non tanto per la simpatica (si fa per dire) presenza di attori come De Sica (qui comunque più normale e meno antipatico, insomma sopportabile), Papaleo o Angela Finocchiaro (altra presenza fissa di molti film del regista), senza dimenticare la bellissima Miriam Leone, ma soprattutto per il non facile lavoro di selezione e di preparazione nella scelta dei bambini, giovanissimi attori di questa pellicola, che fungono da determinante e vitale linfa vitale per la narrazione della trama, i loro movimenti, le loro brevi battute o il loro pungente sarcasmo, rappresentano probabilmente la vera forza del film.

Crush (2013)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 16/02/2017 Qui - Crush, film del 2013 diretto da Malik Bader, è un thriller psicologico, poco logico, poco thriller, tanto psyco (tutti pazzi in questo film), che si sviluppa su presupposti interessanti come le pericolose derive che possono prendere certe ossessioni adolescenziali, ma la confezione non convince sul piano della narrazione e delle interpretazioni. Detto questo, nonostante la prevedibilità di certe situazioni ed evidenti limiti derivati dalla mediocre riuscita nel creare pathos e tensione, riesce nel tentativo di sorprendere, nel finale, e di farsi apprezzare, ma è davvero poca cosa. Il film infatti, racconta di Scott (Lucas Till), giovane promessa sportiva (e di Hollywood) che a causa di un incidente, è costretto a un periodo di riposo. Bess (la bella Crystal ReedTeen Wolf), invece, è una ragazza timidissima, che va nella stessa scuola di Scott ed è cotta di lui, innamorata così pazzamente, da seguirne ogni mossa, in tutti i sensi. Si, perché Bess è un tantino "ossessionata", così lo segue, lo controlla sui social network, è estremamente gelosa delle sue amicizie (in particolar modo quella con Jules, Sarah Bolgerla Bella Addormentata nella serie C'era una volta), Bess, è però a sua volta 'stalkerata' da Jeffrey, che praticamente si apposta fuori da casa sua e le crea romantiche compilation. Come se non bastasse nel negozio dove lavora c'è anche Andie (Caitriona Balfe, Claire di Outlander), che apparentemente ha una relazione con un altro collega. In questo turbinio di cose, Scott viene perseguitato da un'ammiratrice misteriosa (ma chi è delle tre? o quattro?), e quello che all'inizio sembra un gioco, si trasforma però in un pericolo mortale, che porterà al finale, in cui tutti i ruoli si ribalteranno.

Jackie & Ryan (2014)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 16/02/2017 Qui - Jackie & Ryan, film del 2014 scritto e diretto da Ami Canaan Mann, alla sua seconda opera da regista, è un emozionante, semplice e musicalmente eccelso, dramma/comedy romantico. La regista infatti ci racconta una storia romantica agrodolce sagomando il personaggio di Ryan ai grandi del periodo del Folk Rock che girovagavano per l'America come cavalieri erranti invece a quello di Jackie ritaglia il ruolo di donna forte, una persona da cui poter sempre tornare, una ragazza dal viso dolce con un passato da cantante pop e un divorzio in corso, che deve lottare per avere l'affidamento della figlia, che il marito le vuol strappare via. Ryan al contempo è un musicista di strada che viaggia di nascosto sui treni merci e suona dove capita, e deve convincere se stesso che le canzoni che scrive meritano di essere ascoltate. Il loro incontro casuale difatti li porta a crescere insieme, sentimentalmente e anche nella convinzione di poter combattere e vincere le proprie battaglie. Non sanno se il loro rapporto durerà, ma sanno che è stato ed è importante per entrambi. Nei film di Ami Canaan Mann l'ambientazione, il luogo dove si svolge la storia narrata è un altro personaggio, e non di minore importanza. Lo era il Texas depresso e arido del suo precedente film (Le paludi della morte), lo è lo Utah di questo film, montagnoso e innevato. La musica, essenziale alla storia e al paesaggio, incornicia in modo egregio questa vicenda, e ai pregi del film si aggiungono una recitazione calibrata, quella di Ben Barnes, fin troppo 'pulito' per interpretare questo ruolo (anche se effettivamente fa parte di quegli attori che sembrano sempre più giovani di quanto siano), che però riesce a gestirlo e ad essere convincente (lontano dall'imbronciato e istrionico Settimo Figlio), e Katherine Heigl, non del tutto credibile ma ugualmente brava e infine una fotografia suggestiva, che alterna paesaggi sconfinati dell'America suburbana mostrati quasi sotto forma d'istantanea a momenti di puro movimenti come i treni merci sempre in movimento. Fondamentale ovviamente la colonna sonora che ci accompagna per tutta lo storia con canzoni originali e di repertorio Folk Rock. C'è la musica, infatti, al centro del film, intesa come paesaggio dell'anima che si va ad aggiungere oltre alle vedute panoramiche del paesaggio americano al patio di casa, nel silenzio che suggerisce le giuste parole alle canzoni.

Outcast: L'ultimo templare (2014)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 16/02/2017 Qui - Outcast: L'ultimo templare (Outcast) è un film d'azione del 2014 che segna l'esordio dietro la macchina da presa di Nick Powell che in passato ha offerto al mondo hollywoodiano i suoi servigi come stuntman in numerosissimi film. Questa pellicola è una tipica trama in stile asiatico, l'imperatore in procinto di morire si trova a dover scegliere il suo successore fra i 2 suoi figli, un bambino ed un guerriero, ovviamente sceglierà l'infante scatenando una disputa fra i 2, dove il piccolo sarà costretto a scappare con la sorella ed il sigillo reale mentre il fratello sanguinario scatenerà una caccia all'uomo dichiarando il bambino come uccisore del padre e fuggiasco. Qui le strade dei fuggitivi si incroceranno con quelle di una templare fuggito dopo la presa di Gerusalemme che cerca di dimenticare il suo sanguinario passato. La cosa che più colpisce di Outcast è la presenza nel cast di Nicolas Cage e Hayden Christensen, entrambi templari fuggiti dopo a guerra e pentiti delle loro azioni, due attori dal curriculum di film blockbuster ed a caccia di soldi facili in un film che si è dimostrato largamente mediocre (diamo l'attenuante al regista alle prime armi).

The Machine (2013)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 16/02/2017 Qui - Prima di Ex-Machina e Westworld c'era The Machine, film del 2013 diretto da Caradog W. James, che per certi versi li ricorda molto, anche nello stile chic del secondo o claustrofobico del primo, oltre ovviamente al binomio uomo-macchina che torna puntuale, anche se un po' fuori tempo, ma non certo così in ritardo da risultare superato, come è prassi e costume che accada nei pressi della più gloriosa serie B, alla quale in qualche modo appartiene questa produzione inglese a basso budget, ma di buona fattura e costruzione. Il film infatti, ambientato nel futuro, che narra la storia di due scienziati impegnati nella creazione di una intelligenza artificiale e combattuti tra le crudeli esigenze della committenza militare e la propria coscienza, riesce a farsi rispettare, anche se qualitativamente povero. Povero come l'introduzione che ci informa solo che due superpotenze si sfidavano (e, stando al film, si sfideranno ancora fino a sfiorare la collisione più nefasta e apocalittica) tenendo in ostaggio il resto del mondo. Per questo un brillante scienziato mette a punto una 'macchina' che possa costituire un connubio, una sintesi integrata tra la mente umana e la meccanica più sofisticata. Le ragioni del brillante e giovane studioso si annidano in vicende strettamente private e drammatiche, che in qualche modo trovano una giustificazione anche morale, ma che tuttavia finiscono in secondo piano rispetto agli interessi ben più stolti e calcolati che guidano i finanziatori biechi e sordidi di quel rivoluzionario ed avveniristico progetto. Una avvenente e giovane ricercatrice finisce così per divenire, causa un drammatico incidente, da primaria collaboratrice dell'uomo, a vera e propria cavia di un progetto che travalica i confini dell'etica e della ragionevolezza, fino ad una ribellione (prevedibile ma mai così giustificata) che nasce dal fondo di una coscienza che finisce per avere la meglio sui più amorali fini economico-bellici che guidano invece i 'cattivi'.

lunedì 25 febbraio 2019

Freeheld (2015)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 14/02/2017 Qui - Freeheld, film del 2015 diretto da Peter Sollett, è un film del tutto diverso da Carol, dal titolo completo infatti, Freeheld: Amore, giustizia, uguaglianza, risulta evidente che il film, tratto da una storia vera, parla dell'ennesima (seppur sempre importante) battaglia per la parità dei diritti dei gay, e lo fa in modo convenzionale. Ma la battaglia di Laurel Hester, un duro detective di polizia e di Dane Wells, un meccanico, è al di fuori degli schemi, anche cinematografici, perché sono due donne e il loro rapporto non ha nulla di teatrale, anzi, il lavoro di Laurel, interpretata da una ottima Julianne Moore, richiede discrezione, la polizia di un paese del New Jersey è maschilista, eterosessuale, per definizione. Ma il cancro di Laurel le chiede di uscire allo scoperto per consentire a Dane di fruire della sua pensione e, così, di pagare le rate del mutuo contratto per comprare la casa in cui vivono insieme. Ma il consiglio comunale rigetta la domanda del detective ed inizia una lunga battaglia politica in cui emergono le contraddizioni della provincia americana, solo recentemente superata definitivamente con una sentenza della Corte suprema. Freeheld è un film con un ritmo narrativo deliberatamente lento, in cui l'unica nota di colore la dà Steve Carrell che interpreta un attivista gay, che non priva comunque lo spettatore dell'interesse per la storia. Film che dà poco spazio all'aspetto sentimentale e sembra più un documentario per la sua asetticità. Non è perfetto, ovviamente, ha anche un certo sapore di tv-movie, e di sicuro non rimarrà certo nella storia del Cinema, il film ha infatti i suoi limiti, ok, ma ha anche tanti meriti, per lo meno di aver toccato con sensibilità un argomento che non andrebbe trascurato, i diritti civili pieni, con tutti i suoi risvolti, delle coppie di fatto, da quelle omosessuali fino a tutti i vari tipi che possono capitare nella vita delle persone. Pellicola in molti frangenti didascalica e non è detto che questo sia un difetto, perché solo così il regista ci porta per mano fin dentro alla 'fogna' dove non tutti hanno gli stessi diritti e ci sbatte in faccia una realtà purtroppo vera. Per merito e in conseguenza di questa storia vera, resa nota da un precedente documentario di Cynthia Wade (Premio Oscar per il Miglior cortometraggio documentario nel 2008), dopo sette anni le cose sono cambiate prima nella contea del New Jersey e poi in tutti gli States, ma tanti altri cittadini in precedenza non hanno potuto godere dei benefici derivanti da nuove e civili leggi.

Carol (2015)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 14/02/2017 Qui - Carol, film del 2015 diretto da Todd Haynes, a sua volta prodotto da una sceneggiatura di Phyllis Nagy basata sul romanzo The Price of Salt della scrittrice americana Patricia Highsmith, è un elegante e raffinato film romantico, un tiepido romance tra donne di diversa estrazione sociale nella New York degli anni '50. Un film affascinante e aggraziato come l'accurata ed elegante ricostruzione d'epoca, ma la storia d'amore soffoca sotto la ricercatezza formale. Il film infatti, ambientato nella New York del 1952 (e interpretato da un cast femminile eccezionale, Cate Blanchett, Rooney Mara, Sarah Paulson), che segue la storia di una giovane aspirante fotografa, Therese Belivet, e il suo rapporto con un'incantevole donna, Carol Aird, alle prese con un difficile divorzio, è leggermente noioso e abbastanza superficiale. Questo perché, a dispetto di una confezione in verità assai curata e ricercata, che certo non manca di eleganza e senso dell'inquadratura, non emoziona più di tanto e non coinvolge granché. Nell'incontro tra la ricca e sofisticata Carol e la giovane commessa Therese si percepiscono a fatica lo stupore, la curiosità, il turbamento che si provano quando ci si trova di fronte a una persona che appare diversa dalle altre, prima ancora di capire il perché. O meglio, si seguono razionalmente i passaggi logici ma non si avvertono sotto pelle, forse perché tutto è fin troppo chiaramente pianificato dall'inizio, troppo velocemente dobbiamo intuire che qualcosa succederà tra le due protagoniste, troppo facilmente convergono l'una verso l'altra appena conosciutesi, così come eccezionalmente subitanei sono gli sguardi concupiscenti di Carol verso Therese (sguardi in verità attraversati da lampi quasi diabolici, coi quali Cate Blanchett cerca di compensare l'accademica compostezza delle scene, con effetto finale forse un po' distorto). In parte la velocità di crociera è giustificata dal fatto che Carol è una donna già consapevole della propria natura sentimentale mentre Therese si trova per la prima volta così colpita da un'altra donna, ma il ruolo trascinante della prima non impedisce di soffrire la mancanza di tutti quei momenti iniziali di distanza, noncuranza e involontarietà che pure nella realtà sono basilari elementi nella costruzione di relazioni anche importanti e che in una sceneggiatura concedono il tempo necessario agli spettatori per conoscere i personaggi e potersi interessare a loro.

Perfetti sconosciuti (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 10/02/2017 Qui - Ho atteso forse troppo per vedere Perfetti sconosciuti, commedia italiana del 2016 diretta da Paolo Genovese, film tanto elogiato, e anche premiato, ma meglio tardi che mai. Ed è solo grazie a Sky che nonostante ultimamente nutro qualche dubbio sui film italiani, ho visto questo film, poiché a parte rare eccezioni non sempre mi sorprendono in positivo, le tante commedie italiane, ma in questo caso è diverso perché qui siamo di fronte a una dramedy/teatrale interessante e sicuramente riuscita, anche se devo ammettere che qui siamo ugualmente di fronte alla solita comedy/drama italiana di oggi. Dato che l'idea anche se buona, non è proprio originalissima, negli ultimi anni infatti le cene fra amici sono diventate il nuovo topos della commedia italiana e francese (Cena tra Amici, Il nome del Figlio ed altri), un modo per rappresentare l'intimità più che l'azione, e dare la possibilità ai personaggi (chiusi in una sorta di unità di tempo e di luogo) di battagliare dialetticamente fra di loro. Ma poiché tutto si svolge in maniera brillante ed azzeccata, ed erano anni che non vedevo un film (italiano) così, tutto azzeccato, idea, sceneggiatura, interpretazione, mi ha davvero sorpreso, anche se alla fine della visione non posso fare a meno di avere quella rabbia per alcune piccole (o grandi) cose che non mi sono piaciute e che fanno di questo film di Genovese un prodotto riuscito sì ma non fino in fondo. Di sicuro però, questo è un film che ha il suo senso, girato bene, montato meglio e interpretato ancor meglio. Un film, una "cena delle beffe" che guarda all'attualità e vanta una scrittura precisa, disincantata e comica al punto giusto. Paolo Genovese infatti, dirige una commedia sull'amicizia, sull'amore e sul tradimento, che porterà quattro coppie di amici a confrontarsi e a scoprire di essere 'perfetti sconosciuti' (come da titolo). Difatti durante una cena, un gruppo di amici decide di fare una specie di gioco della verità mettendo i loro cellulari sul tavolo, e per la durata della cena, messaggi e telefonate sono condivisi tra loro, mettendo a conoscenza l'un l'altro dei propri segreti più profondi. E qui il film prende il volo, ognuno ha qualche segreto più o meno importante da nascondere o forse, da rivelare.

The Young Messiah (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 08/02/2017 Qui - The Young Messiah, film del 2016 diretto da Cyrus Nowrasteh, è invece, una pellicola del tutto diversa nella sceneggiatura (non del tema spirituale di base) dal precedente ma nel risultato, leggermente artificioso, superficiale e meno convincente. Film, dramma a sfondo religioso, che, insieme alla sorella del regista Betsy Giffen Nowrasteh (che ha scritto la sceneggiatura insieme a lui), adattando un romanzo della scrittrice Anne Rice (diventata celebre per la serie di romanzi horror "Le cronache dei vampiri", 11 volumi da cui sono stati tratti i film Intervista col vampiro diretto nel 1994 da Neil Jordan con protagonisti Brad Pitt e Tom Cruise e il sequel La regina dei dannati diretto nel 2002 da Michael Rymer e interpretato da Stuart Townsend e Aaliyah) offre una nuova prospettiva sull'infanzia di Gesù. Il romanzo in questione usato per lo script è comunque "Christ the Lord: Out of Egypt" che è stato pubblicato nel 2005. Il libro è però il primo volume della trilogia "The Life of Christ" a cui sono seguiti "Christ the Lord: Road to Cana" edito nel 2008 e "Christ the Lord: The Kingdom of Heaven" la cui data di pubblicazione non è stata ancora annunciata. Ma prima di addentrarci ecco il motivo che mi ha spinto a vedere in ogni caso questo film, ovvero la sola presenza di Sean Bean che interpreta Severus (un soldato romano incaricato per una missione 'complicata'), che fortunatamente non muore, perché è l'unico che conoscevo, gli altri, David Bradley (anziano Rabbino), Jonathan Bailey (Re Erode), Isabelle Adriani (Seleni), Christian McKay (Cleopa) e Adam Greaves-Neal nel ruolo di Gesù, erano e sono del tutto sconosciuti. Allora, The Young Messiah (come se il titolo non è chiaro), segue la storia coinvolgente (quella vera certo, del film non tantissimo) e unica di un Gesù di sette anni e della sua famiglia che arriva ad una più completa comprensione della sua natura e del suo scopo divino. La storia è raccontata dalla prospettiva dell'infanzia e di come lui e la sua famiglia partono dall'Egitto per tornare a casa a Nazareth dopo la morte di Re Erode (artefice del famoso massacro d'innocenti). Ignorano, però, che il figlio di Erode è determinato a seguire la volontà del padre di vedere Gesù morto. Ma nonostante ciò la trama, segue soprattutto il giovane Gesù mentre cresce e prende consapevolezza della sua identità religiosa.

Risorto (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 08/02/2017 Qui - Risorto (Risen), film del 2016 diretto da Kevin Reynolds, che ispirandosi al Nuovo Testamento, narra gli eventi, la storia biblica ed epica della resurrezione di Cristo, dall'altro lato della barricata, ossia dal punto di vista di un soldato romano, che a seguito della crocifissione e morte di Gesù Cristo, vengono (insieme al suo aiutante Lucio) istruiti da Ponzio Pilato per assicurarsi che i seguaci radicali di Gesù non rubino il suo corpo e in seguito dichiarino la sua risurrezione. Ma il cadavere sparisce e Clavio avvia un'indagine che mette progressivamente in dubbio le sue certezze di scettico e si fa ad un certo punto ricerca di altro genere, interrogativo che gli cambia la vita. Risorto, è una pellicola interessante sotto alcuni aspetti, dato che la prima parte fa pensare molto a L'inchiesta del 1986 (Damiano Damiani) e della successiva versione televisiva di Giulio Base del 2006con un Joseph Fiennes sfregiato nel labbro inferiore che interroga, anche con durezza, i credenti e le guardie al sepolcro con il classico scetticismo dei romani, accanto all'ex-Draco Malfoy Tom Felton. Insomma, in attesa di "La Resurrezione" di Mel Gibson, la versione di Kevin Reynolds è di fatto un remake di quel film. Poi però, dopo una prima parte eccezionale (nonostante alcune inevitabili suggestioni da "gladiatore"), dove sembra quasi di assistere ad un "giallo" (il tono da indagine difatti regge piuttosto bene), con l'indagine appunto di Clavio volta a raccogliere gli indizi utili alla 'causa', c'è il colpo di scena che trasforma il tutto in una fiction religiosa come tante, cambiando troppo radicalmente, tanto che nel secondo tempo in effetti ci sono alcuni segni di fiacca e di minor convinzione. Certo, bisogna uscire dall'impasse del post mortem, l'idea del tribuno che riesce ad agganciare tramite la Maddalena il gruppo degli apostoli, e che progressivamente si interroga fino ad ammettere di non essere più lo stesso uomo, il suo cammino di crisi, sulla carta sarebbe onesta e interessante ma la realizzazione è a singhiozzo e i contatti con il resuscitato Jeshua (anche più volte chiamato il figlio di JavhèGeova, cosa che difatti assolve il film da essere propagandistico, poiché cosa mai riconosciuta dalla Chiesa) poco convincenti.

The Hateful Eight (2015)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 06/02/2017 Qui - Il fattore più sorprendente del cinema di Quentin Tarantino è la sua capacità di mettere in scena, con estrema e ammirabile originalità, delle tipologie di trame sostanzialmente vecchie e ormai standardizzate in 120 anni di vita della settima arte. La vicenda che ci presenta in questo suo ottavo lungometraggio, intitolato The Hateful Eight (2015, visto in anteprima su Sky grazie ad Extra ma andrà comunque in onda stasera 6 febbraio 2017 su Sky Cinema Uno e sul canale speciale Hits dedicato a Tarantino) è difatti un retaggio e un mescolamento di strutture narrative e archetipi che già sono stati portati sul grande schermo in passato da altri registi, niente di così nuovo e sensazionale quindi se analizziamo la grammatica del film o se studiamo le strutture soggiacenti che ne plasmano la forma e danno vita ai contenuti. Ma questo suo ispirarsi a altre pellicole va oltre la citazione (e l'autocitazione) fine a se stessa, Tarantino infatti sa bene come utilizzare il cinema che più ama, sa rimescolare tra loro le varie situazioni e le singole trame, sfornando sempre un prodotto nuovo e dall'aspetto accattivante. Lo aveva fatto in passato e lo ha fatto ancora adesso in questo splendido western che va di diritto a collocarsi tra le più belle pellicole che abbia mai girato, anche se non a livello degli altri suoi capolavori. E nel giocare a mescolare tra loro i vari ingredienti, Tarantino riesce così a generare una creatura del tutto particolare, a fondare addirittura un nuovo genere, essa si traveste da Western, ma di quel preciso cinema non porta che l'estetica ed i suoni, la musica del maestro Ennio Morricone (vincitore per di un Premio Oscar più che meritato) e qualche riferimento storico piazzato accuratamente nei momenti opportuni. La storia degli 8 protagonisti è un thriller in tutto e per tutto, che prende forma sequenza dopo sequenza fino a palesarsi come tale una volta che la vicenda giunge ad una precisa maturazione e tocca le vette più alte di pathos. Il film si apre benissimo con un lungo piano sequenza accompagnato dalla superba colonna sonora di Morricone, che fa già presagire le atmosfere horror\thriller che ci aspettano. Poi si prosegue con una serie di dialoghi, forse un po' prolissi (che capisco possano stancare un po'), tra i primi quattro protagonisti, durante i quali vengono chiariti fatti e relazioni che diverranno poi essenziali per il resto del film. Finalmente si arriva al vero cuore pulsante del film, l'emporio di Minnie (probabilmente un nome "disneyano" non a caso), in cui si svolgerà tutto il resto del film, dove un cacciatore di taglie sta portando la sua prigioniera a Red Rock per consegnarla alla giustizia ma dove all'interno della locanda stessa trova degli strani individui e sente lo strano sentore che nessuno è chi dice di essere, e da qui in poi sarà paranoia e suspense costante, fino allo scoppiettante e violentissimo finale che ci ripaga della lunga attesa (per la cronaca è persino più violento di quanto prevedessi, e più "divertente", sono sicuro che Tarantino era euforico mentre lo girava).

domenica 24 febbraio 2019

The Pills: Sempre meglio che lavorare (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 02/02/2017 Qui - The Pills: Sempre meglio che lavorare, è un film del 2016 scritto, diretto e interpretato dal trio romano The Pills (che al massimo due volte ho visto un loro video su Youtube), composto da Matteo Corradini, Luigi Di Capua e Luca Vecchi, al loro esordio sul grande schermo. Un esordio abbastanza anonimo, se non fosse che il trio, nonostante la poca esperienza riescono nell'impresa di passare da Youtube al grande schermo in modo davvero discreto, con un film dall'assunto originale e dalla trama scorrevole e divertente. Il film infatti fa fare molte risate, franche e rumorose. L'ironia è intelligente, la comicità mai banale, e già il primo fotogramma ci mostra un'idea originale. Quella di tre bambini, Luca, Luigi e Matteo che da piccoli hanno giurato solennemente di non lavorare, mai. A quasi trent'anni i tre mantengono fede alla promessa fatta, condividendo un appartamento di Roma Sud senza svolgere alcuna attività produttiva, bevendo litri di caffè e cazzeggiando intorno al tavolo della cucina. Ma Luigi viene colto da una "crisi di mezza età" e cerca di tornare ai tempi delle occupazioni liceali, Matteo scopre che il padre posta foto su Instagram per dare una svolta creativa alla sua vita di idraulico, e Luca si innamora di una ragazza che trova eccitante che lui lavori. Nella prova d'esordio del collettivo The Pills ci sono tante cose, troppe probabilmente, i consueti e divertenti sketch, le continue parodie e citazioni cinematografiche, le scene dei Pills bambini (ripetute però fino alla noia), le musiche insistenti e pervasive a riempire buchi e sfilacciature di sceneggiatura.

Franny (2015)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 02/02/2017 Qui - Franny (The Benefactor), film indipendente del 2015 scritto e diretto da Andrew Renzi, si basa essenzialmente su un segreto inconfessabile, peccato che questo sia solo un piccolo pretesto del film, dato che così inconfessabile non è. Il film infatti racconta di un milionario filantropico, Franny (Richard Gere), sopra le righe, senza famiglia, né lavoro, che sentendosi responsabile di qualcosa che non ha fatto volontariamente (la tragica scomparsa dei suoi più cari amici avvenuta in un'incidente automobilistico) è convinto di poter alleviare il suo senso di colpa (nei confronti della figlia della coppia di amici a cui però non interessa addossare colpe che lui non ha) con i soldi e la morfina. E quando dopo cinque anni, Olivia (Dakota Fanning) ritorna nella sua vita, per non perdere anche lei, è costretto a mettere a nudo il suo dolore e le sue debolezze. E per fare ciò si immischia nella vita di lei e del suo marito, nel tentativo di rivivere il suo passato, regalandogli case e attenzioni che loro non vogliono, mentre lui dipendente dalla morfina finisce in un vortice allucinato. Franny, opera prima del regista esordiente Renzi (un cognome una garanzia..), è un'opera confusionaria, spacciata come dramma psicologico, poiché ci sono evidenti falle nella sceneggiatura, falle che diventano voragini, tante domande e nessuna risposta. Franny può quindi definirsi un film introspettivo drammatico non riuscito. Lo spettatore infatti è portato a vivere il dramma ed i sensi di colpa del protagonista ma allo stesso tempo ne resta escluso.

13 Hours: The Secret Soldiers of Benghazi (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 02/02/2017 Qui - 13 Hours: The Secret Soldiers of Benghazi (o semplicemente 13 Hours), film del 2016 co-prodotto e diretto da Michael Bay, è un serrato e avvincente film d'azione che, prendendo spunto da fatti realmente accaduti l'11 settembre 2012, quando un gruppo di militanti islamici attaccò il consolato statunitense a Bengasi in Libia, adatta per il cinema il libro 13 Hours di Mitchell Zuckoff, e lo fa in modo eccezionale dato che il sanguinoso scontro a fuoco avvenuto nella Libia post-Gheddafi viene ottimamente ricostruito attraverso uno spettacolare assedio, ovvero l'assalto al distaccamento statunitense in terra libica, da parte di miliziani, che costò la vita all'ambasciatore USA, anche se in termini di perdite, il quadro avrebbe potuto essere ben più pesante se non fossero intervenuti dei contractors, i soldati non ufficiali "in affitto" da parte di privati (in sostanza, dei mercenari, ma in una chiave diversa). Una squadra di sicurezza composta da sei membri infatti lotterà fino all'ultimo per difendere i loro compatrioti. 13 Hours: The Secret Soldiers of Benghazi è un film anomalo per la cinematografia di Michael Bay, solitamente dedito a 'spettacoloni' di pura finzione, ma "13 Hours" immettendosi nella scia di pellicole come "Black Hawk Down" e narrando una sconfitta, all'atto pratico e valorizzando il valore della resistenza contro un nemico in condizioni di vantaggio e in territorio sfavorevole, realizza un'opera sorprendente. 144 minuti di tensione profonda, con una perizia tecnica che lascia sbalorditi, con un montaggio che tiene le fila della narrazione, grazie anche ad una sceneggiatura che pur stereotipando un po' i caratteri (con personaggi abbastanza stereotipati anche se funzionali al racconto), contribuisce a creare un senso di smarrimento totale, dove non si capisce chi siano i buoni e chi i cattivi. I 144 minuti infatti reggono proprio per il ritmo e la buona qualità del racconto, perché a differenza di molti titoli bellici americani, non si va a cercare la retorica a tutti i costi e, anzi, secondo quale punto di vista o chiave di lettura si adoperi per analizzarlo, il film di Bay tende a sottolineare la grave difficoltà di operare contro un terrorismo più organizzato del solito, e uno dei temi ricorrenti della storia è appunto il non avere idea di chi dei locali incontrati via via sia nemico o alleato. E quindi via via che il racconto scorre, e l'assedio stringe, la regia tiene in tensione lo spettatore con abile tenacia.