mercoledì 31 luglio 2019

Ben is Back (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 31/07/2019 Qui
Tema e genere: Una vicenda lacrimevole e sofferta: una storia di tossicodipendenza in cui il coraggio di una madre dovrà fare i salti mortali e sudare sette camicie per tentare di rimettere insieme i cocci dell'esistenza del figlio, irrimediabilmente schiavo della droga, equamente diviso tra bugie e fughe da casa.
Trama: Ben, ragazzo tossicodipendente, torna a casa per le feste di Natale. Per la madre una grande gioia ma anche tante preoccupazioni.
RecensioneBen is Back, presentato al Toronto International Film Festival l'anno scorso, è un film più di attori che di storia, in cui tutto sommato succede poco (ma l'inizio, molto bello, sembra una versione contemporanea della parabola del figliol prodigo). Lo dirige senza squilli Peter Hedges, buon regista di film non indimenticabili (questo è il quarto in 15 anni) tra cui L'amore secondo Dan con Steve Carell, anche se il suo exploit rimane quello giovanile, il romanzo What's Eating Gilbert Grape da cui trasse lui stesso la sceneggiatura di quel più che discreto film che era Buon compleanno Mr. Grape (diretto da Lasse Hallström), semmai colpisce maggiormente la fotografia spesso cupa, anche perché molto avviene in una notte (terribile). Il film mette a confronto una madre e un figlio, interpretati rispettivamente da una toccante e credibilissima Julia Roberts (che fa davvero pensare a cosa può vivere una madre davanti a una tale prova) e da un misurato Lucas Hedges (figlio del regista), il bravo attore emergente lanciato da Manchester by the Sea e che poi a seguire ha recitato in un tanti altri film tra cui Tre manifesti a Ebbing, Missouri e Lady Bird. A rimanere nel cuore è soprattutto la figura della madre, certo non impeccabile (in una scena augura la morte al medico, ormai con l'Alzheimer, cui imputa la tossicodipendenza del figlio perché gli prescrisse con leggerezza antidolorifici). E sempre sul punto di saltare per aria, come in alcune terribili, emozionanti scene di scontro con Ben. Una madre addolorata ma sempre pronta a riabbracciare quel figlio che continua a sbagliare. Una madre costretta a un'angosciata peregrinazione notturna, in cerca del figlio smarrito (e anche qui, forse involontaria, sembra di scorgere tratti di parabole evangeliche), che pur di ritrovarlo è pronta a lasciarsi alle spalle tutto quanto, anche le sue paure e i suoi dolori. Un viaggio notturno (a tratti faticoso per lo spettatore, ma anche pieno di tensione fino a un finale intensissimo e commovente) che sembra una discesa agli inferi, dove potrebbe spingersi una madre per recuperare il proprio figlio.
Regia: Artisticamente nato come sceneggiatore (anche in drammi quali About a Boy), Peter Hedges in Ben is Back, il suo quarto film da regista, tratta nuovamente temi a lui più congeniali come le problematiche adolescenziali e i rapporti tra genitori e figli. E lo fa nuovamente e dannatamente bene, già da una delle primissime scene, quando il personaggio di Julia Roberts, sorpresa, corre ad abbracciare il figlio, scappato dalla comunità di recupero il giorno della vigilia di Natale, si capisce come il film prepara davanti a sé un terreno per costruirci su un dramma dal forte impatto emotivo. Ed è quello che accade, anche perché Peter Hedges, complice anche l'azzeccata scelta di ambientare la storia nell'arco di un'unica giornata, tratteggia molto bene il rapporto tra madre e figlio che, complice un furto la notte della vigilia di Natale, si prende completamente la scena da metà film in poi. Infine si concede anche uno stoccata alle politiche americane in fatto di cura dei tossicodipendenti con le farmacie che vendono qualsiasi tipo di medicinale che può creare dipendenza e si rifiutano di concedere quelli capaci di salvare da un'overdose. E insomma non male a questo giro.

Il mio Godard (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 31/07/2019 Qui
Tema e genere: Commedia drammatica biografica incentrata sul rapporto sentimentale e lavorativo tra il regista Jean-Luc Godard e l'attrice Anne Wiazemsky, e basata sulla biografia Un an après della stessa Anne Wiazemsky.
Trama: La vicenda amorosa tra Jean-Luc Godard, regista intellettuale sulla cresta dell'onda, e la giovanissima attrice Anne Wiazemsky, sullo sfondo della Contestazione sessantottina.
RecensioneMichel Hazanavicius dopo il trionfo di The Artist, dopo il bellico ed impegnato The Search, torna alla regia con un biopic su Jean-Luc Godard nel periodo del 1968, subito dopo aver girato La cinese, un biopic (che in parte smonta il mito del regista francese) che parla di sentimenti e rivoluzione in tono di commedia. Infatti Il mio Godard parla al tempo stesso di sentimenti e rivoluzione. Da un lato c'è la storia d'amore tra un supposto genio e una ragazza borghese d'ottimi natali, che non può che snodarsi tra gli alti e bassi di qualunque storia d'amore, dall'altro c'è il racconto d'un cineasta che sceglie di ripudiare tutto ciò cui in cui ha creduto, non solo disconoscendo i suoi vecchi film, ma dissolvendo l'immagine di sé in un'identità collettiva. Un film insomma meno stimolante rispetto al vincitore del premio oscar nel 2011, ma che non merita di essere sottovalutato. Perché certo, il film è filtrato più dall'ottica di lei che non di lui, e questo può spiegare il ritratto particolarmente aspro che si fa del regista francese, che sicuramente ha sempre avuto un caratteraccio e lo ha dimostrato in mille occasioni lungo tutta la sua carriera, caratteraccio che qui è amplificato in negativo dall'amarezza di una donna delusa e in un certo senso tradita nel suo sogno d'amore, ma la stravaganza e la creatività (pieno di trovate evidenti) con cui viene visto ha grande fascino stilistico e non solo. Girato ricorrendo spesso ad alcuni stilemi tipici di Godard come le sovra-impressioni o gli effetti di straniamento brechtiano (comunque fantastici bisogna dirlo), il film ha un andamento piuttosto discontinuo, alternando alcune scene più interessanti come la rievocazione del Maggio sessantottino a Parigi o la fondazione del Gruppo Dziga Vertov con Jean-Pierre Gorin che avrebbe dato il via al cinema più politicizzato di Godard, ma anche scene da commedia non sempre appropriate in cui il regista appare in una chiave oltranzista che a tratti rischia di scivolare nella facile macchietta, anche in certi momenti più gravi. Restano all'attivo l'interpretazione di Louis Garrel che ci mette uno sforzo mimetico non indifferente, una confezione che si avvale di una fotografia smagliante, ma la sostanza che si stringe non è eccessiva e anche sul rapporto di coppia fra Godard e la Wiazemsky si finisce per avere una panoramica volutamente parziale, non si sa quanto affidabile o quanto dettata da un certo rancore della Wiazemsky verso il mostro sacro da sbeffeggiare in maniera non proprio corretta ed elegante. La Wiazemsky è scomparsa poco tempo, e questa può essere anche un'occasione per ricordarla o per scoprirla per chi non la conoscesse, in tal senso Stacy Martin le assomiglia abbastanza, magari è anche più bella, e ne dà un'interpretazione non memorabile ma che ne rende bene il distacco e la sfrontatezza. Tanto che a mio avviso sono loro uno dei punti di forza dell'opera, insieme anche ed inoltre ad un uso eccezionale del sonoro, una rappresentazione filologica e onesta del cineasta francese che non sfiora neanche un secondo le trappole dell'agiografia. Perché il regista appunto non è tenero con Godard, non lo è con lui né con la protagonista. Ma mentre la passività di Anne si stempera in virtù della sua beata incoscienza, il personaggio di Godard assume più i contorni del villain che dell'eroe, accecato com'è dalla sua foga auto-riflessiva. La stessa foga auto-riflessiva che il film restituisce senza freni e senza filtri e che definisce il nucleo concettuale e formale dell'opera. Un'opera nel complesso abbastanza divertente che giocando sul mito di Godard stesso offre un tipo di operazione molto vicina alla parodia, una parodia brillante, interessante ed (inutile negarlo) alquanto intrigante.

L'incredibile viaggio del fachiro (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 31/07/2019 Qui
Tema e genere: Un film picaresco su un avventuriero coraggioso alla ricerca della propria strada.
Trama: Aja è un giovane che vive di espedienti a Mumbai. Alla morte della madre decide di intraprendere un viaggio alla ricerca del padre che non ha mai conosciuto. Ma qualcosa va storto e si ritrova a girovagare per l'Europa nel tentativo di raggiungere Parigi e di conseguenza l'amore.
Recensione: Tratto dal romanzo L'incredibile viaggio del fachiro che restò chiuso in un armadio Ikea del francese Romain Puértolas, il film del regista franco-belga-indiano Ken Scott cerca di sfruttare l'onda di altri film ambientati in india come The Millionaire o Vita di Pi. La trasposizione cinematografica può contare anche su un cast di nomi importanti, come Bérénice BejoGerard Jugnot e l'attore indiano Dhanush, molto famoso in patria. Il film vorrebbe mantenersi su un clima da racconto rocambolesco, con il povero Aja che finalmente riesce a partire dall'India per la Francia con un visto turistico per cercare un padre che non sa neanche se esista veramente. Nella tanto agognata Parigi incontra una ragazza nel famoso negozio di mobili con cui imbastisce una scenetta di vita coniugale, si ferma di nascosto per la notte addormentandosi in un armadio che però viene impacchettato e spedito in Inghilterra. Così Aja si trova a girare per l'Europa senza documenti, potendo contare solo sul suo talento di narratore e sulla benevolenza della gente che incontra. Amore, pericoli, solitudine e successo in una viaggi che tocca Gran Bretagna, Francia e Italia per poi tornare al paese d'origine, l'India. Peccato che il regista non sappia decidersi su che registro mantenersi: il film oscilla sempre tra momenti che vorrebbero essere comici (ma non troppo) o romantici (ma poco comici) in scenari (spesso visibilmente digitali) che alla fine danno un effetto straniante, un po' alla Monty Python (ma meno divertente). Troppo studiato nelle situazioni per risultare spontaneo, spesso troppo sdolcinato per essere credibile, Lo straordinario viaggio del fachiro è una simpatica favoletta senza troppe alzate d'ingegno, che vorrebbe essere edificante per aiutare a comprendere culture differenti e difendere i migranti, ma anche gli argomenti seri rimangono a un livello molto esile. Meglio godersi le scenette e i (comunque) bravi attori. Sono loro infatti a far sì che questa fiaba moderna riesca nella sua leggerezza ad emozionare (bello il messaggio del karma, inteso come destino e di come un individuo può riscattarsi grazie all'accettazione e alla fantasia con cui gioca le sue "carte") e divertire (anche se la credibilità, al contrario di Easy: Un viaggio facile facile è minore) almeno un po', anzi, di più, tanto da meritare la sufficienza.

Contrattempo (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 31/07/2019 Qui
Tema e genere: Thriller spagnolo in salsa poliziesca che mette in atto un giallo del quale Hitchcock ed Agatha Christie ne andrebbero probabilmente fieri.
Trama: Adrián Doria è un imprenditore di successo che, accusato di omicidio, continua a dichiararsi non colpevole. Per difendersi, contatta l'avvocato Virginia Goodman, con cui lavora una notte intera per trovare un cavillo che permetta di farlo uscire dal carcere. L'emergere di un nuovo testimone che lo accusa mette però a repentaglio la strategia individuata.
Recensione: Il nume tutelare è sicuramente Alfred Hitchcock, per via delle furbizie di messa in scena e della precisione narrativa, capace di regalare colpi di scena in serie fino ad un finale che ribalta continuamente le prospettive e le carte in tavole (un po' come ha sempre fatto Agatha Christie). E pensare che tutto comincia solo da un "piccolo" contrattempo, dal quale si originano tutta una serie di effetti a catena che hanno del vertiginoso. Solo una si rivelerà essere (ovviamente) la verità, alla fine, ma lungo tutta la durata del film il regista nonché sceneggiatore si diverte a scompaginare continuamente le carte, congegnando colpi di scena su colpi di scena, distribuendo indizi e seminando dubbi. Costruisce un intreccio apparentemente insolvibile che induce continuamente "fuori strada", non concede di distrarsi neppure per un secondo, e costringe di conseguenza a tenere ben alta l'attenzione (e già questo è un bel merito, per un film che in fin dei conti non ambisce ad essere nulla più che, ottimo, intrattenimento). Non bastasse che in Contratiempo (da titolo originale) ogni minimo dettaglio è da ricordare con attenzione poiché fondamentale e illuminante ai fini degli eventi, costantemente sospesi su un ciglio morale dove gli individui danno il meglio e il peggio di loro stessi a seconda del contesto. Contrattempo è forse un po' poco plausibile (in particolare in certi suoi rivolgimenti, via via sempre più contorti), a tratti prevedibile (ma, importante sottolinearlo, mai sugli aspetti essenziali, il che fa capire una volta in più con quale maestria sia stato architettato un meccanismo che conduce continuamente lo spettatore fuori strada), ma in ultima analisi estremamente coinvolgente (al netto di un inizio un po' lento) e capace di tenere incollati allo schermo. E la rivelazione finale è del tutto inaspettata (a posteriori, ma solo a posteriori, ci si rende conto di quanti indizi siano stati in realtà abilmente disseminati a suggerire l'esito finale, ma nel mentre della visione non se ne ha praticamente sentore, e allo sciogliersi dell'intreccio non si può che rimanere sbalorditi). Diffidare, dunque, di chiunque dica si tratti di un film smaccatamente prevedibile. Scricchiola, qua e là, questo Contrat­tempo, è vero, ma si può tranquillamente affermare che non lo faccia mai nei momenti salienti, nonostante sia indubbiamente anche merito del cast se il risultato finale si rivela così avvincente. Tanto che (questo sì prevedibile) qualcuno ne faccia un remake non è cosa impossibile, anzi, è già stato fatto, e perlopiù con Riccardo ScamarcioIl testimone invisibile infatti (del 2018), con anche Miriam Leone e Fabrizio Bentivoglio, è l'ennesimo esempio di quante poche idee originali ci siano in Italia una settimana sì e l'altra anche. Ed ovviamente lo eviterò, mentre da vedere e consigliare è l'originale.

Obbligo o verità (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 31/07/2019 Qui
Tema e genere: Thriller sovrannaturale/horror, prodotto dalla solita casa di produzione di Jason Blum, la Blumhouse, simpatico e inquietante, che mescola l'idea di maledizione persecutrice al gioco di società.
Trama: Obbligo o verità, un innocuo gioco tra amici, si trasforma in qualcosa di mortale quando qualcuno (o qualcosa) inizia a punire coloro che dicono una bugia o si rifiutano di mettere in mostra il loro coraggio.
RecensioneObbligo o Verità, com'è facile già intuire, s'ispira molto a horror come Final Destination. Uno spirito tenta di sterminare un gruppo di ragazzi. In questo non c'è nulla di male, ma nel corso del film è semplicissimo dedurre le vittime del gioco, in pochi secondi. Chiaramente, l'intrattenimento non è nell'ansia di vedere i protagonisti sopravvivere al gioco, quanto nel vedere in quale modo fantasioso moriranno. Obbligo o Verità non richiede grandi caratterizzazioni dei personaggi: infatti, tutti i protagonisti in scena (in Messico per festeggiare il loro ultimo Spring Break), al di là delle due amiche Olivia e Mackie, appaiono come maschere. E come sempre, altro aspetto imposto al genere prevede un cast di attori tutti bellissimi, forse perché vederli morire male e come mosche soddisfa una sorta di rivalsa sociale dei comuni mortali. Obbligo o Verità riesce comunque a fare una cosa: intrattenere. Privo di vere e proprie scene morte o inutili ai fini della trama, è difficile annoiarsi. L'azione è infatti gestita bene e le scene horror sono ben costruite, sebbene qualche effetto speciale sul finale avrebbe meritato un budget maggiore. Il grande difetto del film è però la sua aderenza a un genere visto e rivisto. Per chi è abituato a questo filone e magari s'aspetta qualcosa di nuovo, la delusione è dietro l'angolo. Tutti gli avvenimenti sono telefonati e non c'è alcuna velleità di stupire il pubblico con qualcosa di diverso rispetto a quanto vediamo ormai da anni sul grande schermo. Già nei minuti dedicati alle introduzioni dei personaggi sappiamo già a chi dedicare un gesto della croce e a chi no, riponendo qualche speranza nella loro possibile sopravvivenza. Interessanti però alcune cose. Innanzitutto il messaggio (forse forzato ma comunque efficace) del regista sulla pericolosità di giochi (le challenge di internet) tanto divertenti quanto stupidi, ma soprattutto buona è la scelta della rappresentazione del male, che può colpire ovunque, in qualunque momento, tramite qualunque persona. La pellicola del regista di Kick-Ass 2 decide semplicemente di deformare i volti delle persone ignare coinvolte dal demone, donandole un ghigno deformato che rappresenta la principale fonte creepy dell'intera opera. In Obbligo o Verità non troviamo laghi di sangue finto o tentativi di Jumpscare forzati, che spesso rovinano la riuscita del film, siamo più vicini alle parti di un thriller che di un vero e proprio horror, e questo è un bene. Bene anche l'altro messaggio, più nascosto, che spesso dire la verità a chi ci vuole bene può essere molto più spaventoso dell'affrontare la morte stessa, rendendo questo misterioso e oscuro demone allegoria della mancanza di sincerità che pervade la nostra quotidianità, portandoci a nasconderci dietro a una maschera, a uno specchio che distorce il nostro essere come i volti che circondano i protagonisti, ricordando loro la semplice regola del gioco, truth or dare. E quindi, anche se Obbligo o Verità rappresenta l'ennesimo capitolo di un filone horror ormai davvero abusato, è questo un film a tratti ben riuscito, che mantiene un ritmo narrativo costante e poco noioso, riuscendo così a farsi apprezzare.

Cuori puri (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 31/07/2019 Qui
Tema e genere: Dramma romantico tra due ragazzi di diversa estrazione presentato in anteprima al "Quinzaine del Réalisateurs" del Festival di Cannes 2017.
Trama: L'incontro tra un ragazzo di borgata e una ragazza che vive un percorso di castità.
Recensione: Ambientato in una Roma del disagio sempre più frequentata dal cinema italiano, Cuori puri (opera prima di Roberto De Paolis) innesta in questo contesto un sotto-tema particolare, con l'incontro tra il classico ragazzo "di borgata" e una giovane che cerca di vivere la propria giovinezza e insieme la propria fede. A tratti il film ricorda vagamente il recente La ragazza del mondo: là c'era una comunità di Testimoni di Geova, qui una comunità cattolica che dà luce al gruppo "Beati i puri di cuore" (che si ispira a gruppi realmente esistenti), pur molto meno rigido e certamente non aggressivo nel rapporto con la ragazza. Anzi, il sacerdote (reso bene da Stefano Fresi, in genere utilizzato in parti brillanti) è una figura piuttosto dolce e comprensiva verso i giovani, cui parla di perdono prima che di peccato (ma comunque lo sguardo su di lui è bonariamente distante, come se fosse una figura nobile ma fuori dal mondo). Piuttosto, è la madre di Agnese con la sua durezza e mancanza di rispetto verso la sua libertà (pur con l'umanità che riesce a darle Barbora Bobulova) a ricordare quel tipo di genitore dai principi ottusamente ferrei. I mondi agli antipodi di Cuori puri finiscono inevitabilmente per incontrarsi: e conta meno il dipanarsi della vicenda sentimentale, che si sviluppa con qualche prevedibilità, quanto la descrizione dei caratteri e dei rispettivi ambienti. Simone rimedia un posto da custode d'un parcheggio: e la precarietà del lavoro, lo squallore del luogo, la complessità della convivenza con la comunità del campo rom che vive lì vicino sono indagate con uno sguardo cinematografico che si prende i tempi giusti, raccontando una storia e insieme fotografando una realtà umana e sociale, senza didatticismi o spiriti di denuncia posticci. Roberto De Paolis la stessa attenzione la ripone nella descrizione del mondo di Agnese, una comunità di credenti ritratti per una volta non come fanatici bigotti, come dimostra appunto il personaggio di Stefano Fresi. Simone guarda i rom dall'altro lato dell'inferriata che li separa: e all'inizio accade lo stesso con Agnese, a sottolineare l'estraneità tra due mondi che trovano un punto di contatto nei cuori puri del titolo, nella sostanziale bontà di entrambi, che De Paolis registra con sguardo affettuoso e i due attori, bravi, interpretano con giusto smarrimento e fragilità (Simone Liberati e Selene Caramazza, entrambi non professionisti). E se le musiche ogni tanto aggiungono sottolineature che stonano col realismo dell'assunto, sono bravi nella loro naturalezza gli attori, tra cui è da segnalare Edoardo Pesce nel ruolo d'un criminale di mezza tacca meno sentimentale di Simone. Nel complesso film bello ma non bellissimo.

martedì 30 luglio 2019

Johnny English colpisce ancora (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/07/2019 Qui
Tema e genere: Terzo episodio della saga comico-spionistica sull'agente segreto più imbranato del mondo.
Trama: Un hacker ha smascherato l'identità di tutti gli agenti segreti britannici. Occorre richiamare Johnny English in vista di un importante incontro internazionale.
Recensione: Terzo capitolo della saga con protagonista il celebre comico britannico Rowan Atkinson, famoso per la serie televisiva Mr. Bean (1990-1995), questa nuova avventura conferma i limiti dei precedenti episodi della trilogia, abbastanza distanziati nel tempo dal 2003 a oggi, senza ulteriori sussulti né scossoni. A farla ancora una volta da padrone è l'elementare, per quanto simpatica, comicità british dell'attore, tutta giocata su mimiche facciali basiche e strizzate d'occhio pirotecniche e avvitate su stesse, ma l'efficacia di molte situazioni ridanciane è ai minimi storici (si veda la sprecata sequenza in discoteca) e l'ironia del film, per quanto in partenza gradevole, fatica a mascherare la pochezza sfilacciata dell'insieme, in gran parte accomodato sulla base di scenette cucite insieme a fatica. Rowan Atkinson è come sempre sornione nell'incarnare direttamente una parodia vivente di Bond e degli spy movie, dalla guida goffa e l'idiozia incalcolabile, ma non bastano i tentativi di aggiornamento delle varie situazioni (i telefoni cellulari come false armi) e le location di lusso come Antibes e la Costa Azzurra, tra aragoste, tic e demenzialità spinta, per tenere in piedi la baracca. Non funziona la prevedibilità delle azioni del protagonista e l'antagonista è chiaro fin dal principio. Abbiamo la bella Ophelia, che l'agente English crede di poter sedurre, senza alcuna credibilità. L'unica scena davvero memorabile è quando Johnny prova la realtà aumentata facendo interagire realtà e virtuale. In questa situazione le capacità attoriali del protagonista sono sfruttate al meglio e la sua mimica funziona perfettamente nel paradosso. Ma nel complesso la pellicola al massimo raggiunge la mediocrità, anche perché i personaggi nuovi non convincono affatto mentre quelli già conosciuti appaiono ormai stanchi di esserci, inoltre la componente d'azione delude risultando piuttosto minimale, poco presente e del tutto priva di mordente. Ci si diverte almeno un pochino, ma obbiettivamente è ben poca cosa.

Rachel (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/07/2019 Qui
Tema e genere: Dramma romantico in costume adattamento di un famoso romanzo.
Trama: Un giovane è deciso ad avere giustizia per la morte del suo amato cugino, che si sentiva perseguitato dall'affascinante donna che aveva appena sposato. Ma quando conoscerà la vedova, ogni cosa cambierà.
Recensione: Nella sua ultima fatica Roger Michell, già regista del famoso Notting Hill, si concede al suo grande amore per i film in costume adattando il noto romanzo Mia cugina Rachele di Daphne du Maurier. L'opera era già stata trasposta nel 1952, quando Henry Koster ne aveva fatto un film con protagonisti Olivia de Havilland e Richard Burton, in questa nuova versione troviamo invece l'altrettanto brava (e bella) Rachel Weisz nei panni della femme fatale e un Sam Claflin come sempre poco convincente, che interpreta il giovane e ingenuo Philip. Il film è romanzescamente diviso in tre parti, tramite le quali si snoda una storia, che si annuncia però come prevedibilissima sin dalle prime scene. Ma non solo, anche piuttosto fredda. Il risultato è così un film romantico in costume piuttosto convenzionale e patinato, calibrato in ogni sua singola componente ma complessivamente piuttosto rigido e monocorde. Sfumato e tetro, incentrato sui tema della fascinazione, dell'idealizzazione e del desiderio a distanza, fino ad approdare a un finale ancor più cupo e mesto delle premesse, il film di Michell non si segnala per particolari guizzi, è estremamente succube tanto di una confezione imbalsamata quanto di una sorgente letteraria probabilmente di buon livello, che al cinema finisce però per risultare illustrativa tanto nelle sottolineature visive quanto nella restituzione del sentimento e delle dinamiche attrattive. Si salva unicamente appunto per la bella fotografia e la buona performance della protagonista. Sprecati gli altri attori e paradossalmente più il film calca la mano sul sentimentalismo e più lascia indifferenti. Nell'economia del film sono sbagliati e ripetitivi persino i ritmi e le situazioni del finale, sospeso e sbrigativo in una domanda che ha l'ambizione di elevarsi a metafora sulla natura umana, ma che rimane saldamente ancorata a terra, inadeguata al contesto e al livello del resto della pellicola. Un livello comunque mediocre, come la pellicola alla fine dei conti.
Regia: Dall'inizio era chiaro che si sarebbero qui mischiati elementi quali thriller, amour fou e desiderio in un intreccio possibilmente torbido e avvincente. Elementi che purtroppo Roger Michell non riesce a restituire in questa versione cinematografica, più preoccupato della forma a discapito delle emozioni, come spesso accade nel cinema inglese.

Dark Night (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/07/2019 Qui
Tema e genere: Film drammatico liberamente ispirato ad un tragico fatto di cronaca avvenuto in America, in Colorado, nel 2012.
Trama: Un paesaggio di periferia fa da inevitabile testimone agli eventi che culminano in un massacro in un cineplex. Nel corso di una sola giornata, dal sorgere del sole fino a mezzanotte, sei sconosciuti (tra cui il cecchino) condividono il loro incubo americano.
Recensione: Prende spunto dalla strage di Aurora, costata la vita a dodici persone che stavano assistendo alla prima de Il cavaliere oscuro - Il ritorno (2012), per mettere in scena una nuova tragedia all'indomani della precedente. Il regista e sceneggiatore Tim Sutton tenta di dar vita a un'opera "totale" nel suo freddo minimalismo, finisce però per cadere in un autocompiacimento fastidioso in cui la storia e i dialoghi sono pressoché inesistenti. Dark Night è infatti un continuo alternarsi delle quotidianità pre-massacro di alcune delle potenziali vittime e dell'attentatore, che vorrebbe sfruttare la forza delle immagini (fotograficamente ispirate ma vuote di contenuto) per riflettere sulle contraddizioni dell'America moderna, dall'ossessione per i videogiochi e i selfie al fanatismo per le armi da fuoco, ma il tentativo è al grado zero di emozione ed empatia e non raggiunge il pubblico, quello che avrebbe dovuto condurre a spunti di riflessione. Gli ottanta minuti di visione risultano così un esercizio di stile che pecca di superbia e annulla il significato. Sutton insomma "gioca col fuoco" e si prende qualche rischio, e il risultato finale forse non vale poi così tanto la pena. Dark Night è infatti una sorta di non-film, un vezzo autoriale che pecca di superbia dimenticandosi proprio del pubblico stesso a cui è rivolto, un docu-film pregno di compiacimento in cui lo stile iperrealista delle immagini diventa l'unico tratto distintivo degli ottanta minuti di visione. Dark Night paga soprattutto un montaggio che passa senza continuità logica da una figura all'altra, dimenticandosi di costruire un background atto a identificare le varie personalità coinvolte: se da un lato questo serve a imprimere una sorta di aura universale in cui identificare gran parte dell'adolescenza contemporanea, dall'altro nega qualsiasi coinvolgimento empatico ed emotivo, lasciando una sensazione di statica freddezza che accompagna anche le fasi finali del racconto, con l'attuazione della violenza lasciata all'immaginazione dello spettatore alla comparsa di uno schermo nero seguito dalle riprese di un cielo terso dal sapore apocalittico. E non è ciò o l'assenza di un climax significativo a rendere Dark Night indigeribile, è proprio l'irreperibilità di qualsivoglia spunto seducente a dargli forma aliena per il cinema stesso. Molto buone fotografia e musiche, ma questi momenti "rubati" e accorpati tra loro senza alcun disegno preciso non comprendo come possano suscitare il minimo interesse.

Amiche di sangue (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/07/2019 Qui
Tema e genere: Thriller psicologico che si sviluppa in quattro capitoli interpretato principalmente da Anya Taylor-Joy e Olivia Cooke.
Trama: Due adolescenti con disturbi psicologici si riavvicinano dopo anni di lontananza e assieme pianificano l'omicidio del patrigno di una delle due.
Recensione: È un film strano, Amiche di sangue, non del tutto riuscito e che non sembra aver chiaro dove andare a parare, se nella commedia nera, nella satira sociale o nel thriller, anche perché in realtà al contrario di una commedia nera qualsiasi si prende anche troppo sul serio, oltretutto il film si muove su un meccanismo già visto mille volte, che cerca di nobilitarsi con una rappresentazione asettica e un finale (relativamente) non conciliante. Però bisogna dire che l'esordiente Cory Finley sa dove piazzare la macchia da presa ed è molto preparato tecnicamente, soprattutto grazie allo stile, questa è un'opera che si guarda con grande interesse. Purtroppo tuttavia, Amiche di sangue sembra mancare di profondità nel raccontare le sue due protagoniste, personaggi per cui è molto difficile provare un minimo sindacale di simpatia, e non per la loro condizione di assoluto privilegio (sono ricche e viziate), ma perché non sono definite da altro se non i loro aspetti più evidenti e superficiali: Amanda è sociopatica e Lily è capricciosa. La colpa non è delle due attrici: la Taylor-Joy di The Witch ormai non è più né una promessa né una sorpresa, data la sua costante presenza come nuova musa del cinema indipendente e la Cooke, al contrario, rivela delle qualità recitative insospettabili, soprattutto in un ruolo per lei non consueto. Il problema è di scrittura perché, nonostante Finley sia bravissimo, nei primi minuti, a impostare un'atmosfera di aridità emotiva sotto la patina degli ambienti di lusso splendidamente fotografati in cui si muovono e tramano le due ragazze, non vuole o non può spingersi fino alle più estreme conseguenze e, così facendo, lascia che siano le due attrici a riempire i vuoti lasciati da una caratterizzazione molto, troppo leggera. Il vuoto emotivo va bene, è voluto e anche ricercato da un punto di vista stilistico, con un approccio gelido e sempre distante dai personaggi, ma al di là del cinismo, Amiche di sangue non riesce ad andare e, alla lunga, perde anche qualche colpo nel ritmo, sempre abbastanza seduto, a dire la verità, e non è necessariamente un difetto: l'impressione generale è che la storia narrata andasse bene per un corto e non avesse abbastanza forza per reggere la durata di un lungometraggio. Per esempio: tutta la vicenda legata al personaggio di Anton Yelchin non va da nessuna parte e, a parte il piacere di vederlo in un film e un paio di dialoghi azzeccati tra lui e Amanda, non ha una vera e propria ragione d'essere, se non allungare il minutaggio. Si tratta comunque di un esordio interessante e di un regista da tenere d'occhio in futuro, sperando che la prossima pellicola abbia dalla sua una sceneggiatura (scritta da lui o meno) di migliore fattura e che il tutto riesca ad avere una valenza maggiore di questa occasione invece leggermente persa.

Escape Plan 2 (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/07/2019 Qui
Tema e genere: Prison movie sequel del film del 2013 Escape Plan - Fuga dall'inferno.
Trama: Anni dopo essere riuscito ad evadere da una prigione dalla quale era considerato impossibile scappare via, Ray Breslin ha messo in piedi un nuovo team di esperti di massima sicurezza. Quando però uno dei componenti della squadra scompare all'interno di una struttura ultra tecnologica, Breslin insieme a Trent DeRosa dovrà trovare un modo per accedere a quella che è considerata la prigione meglio nascosta del mondo, trovare il suo uomo e portarlo al sicuro.
Recensione: Nel 2013 fece la sua comparsa un film intitolato Escape Plan diretto da Mikael Håfström, un titolo che poteva benissimo finire nel dimenticatoio, se non fosse per la sua peculiarità, protagonisti del film erano infatti Sylvester Stallone e Arnold Schwarzenegger, per la prima volta insieme come coppia buddy style in un film, nel suo insieme la pellicola divertì il pubblico ed ecco quindi arrivare anni dopo un sequel, Escape Plan 2 - Ritorno all'Inferno (Escape Plan 2: Hades), un sequel che però non ha nulla in comune col suo abbastanza riuscito e (più o meno) convincente predecessore. Nel primo avevamo una storia articolata ma (abbastanza) convincente e godibile dove il peso della trama non ricadeva per forza sul piano action e sugli scontri corpo a corpo sfruttando così l'intelligenza e le capacità di adattamento dei due reclusi protagonisti che devono mettere dettagliatamente a punto un piano per evadere da un carcere di massima sicurezza. In questo secondo capitolo (di una purtroppo già confermata trilogia, anzi, il terzo è già al cinema) invece, diretto non più da Hafstrom ma da Steven C. Miller (regista anche del mediocre Extraction, evitati tutti gli altri usciti dopo), abbiamo una trama debolissima che ricalca e ricopia quella del primo film (con detenuto, Shu, in carcere di massima sicurezza munita dei più ingegnosi sistemi high tech dalla quale è impossibile evadere) ma mancano gli ingredienti essenziali che la rendano una storia godibile ed apprezzabile, manca il pathos, manca l'originalità, la suspense e mancano specialmente dei protagonisti carismatici ai quali affezionarsi e connettersi su livello emotivo. Il finale è sin troppo scontato e prevedibile e non riscatta affatto i minuti preceduti neanche con l'entrata in scena di Stallone che salva il suo team come un vero deus ex machina e svela il funzionamento dell'inespugnabile prigione nell'atto finale. Escape Plan 2 si riduce così ad essere soltanto un prodotto muscoloso e muscolare che fa leva sugli appassionati di arti marziali e delle lotte corpo a corpo, le quali certamente non mancano, ma fatica a convincere o appagare il resto del pubblico, anche quello con aspettative bassissime. Non aiuta nemmeno l'ambientazione low cost troppo statica, scura e buia dove si svolge il 90% dell'azione, scandita da fastidiose luci al neon verdi e rosse che poco centrano con la ricostruzione di un carcere seppur di stampo moderno e super tecnologico. Come commentare poi la scelta dei personaggi secondari che gravitano attorno al già indifferente Shu? Inespressivi, monotoni, disinteressati, scialbi e annoiati. Si ritorna allora a ribadire il concetto che al film manca il pathos e la convinzione necessaria a voler creare un prodotto mediocre ma decoroso in segno di rispetto per gli attori stessi (prima) e il pubblico (poi). Peccato.

Chiudi gli occhi (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/07/2019 Qui
Tema e genere: Thriller melodrammatico che sviscera un rapporto di coppia abbastanza insolito.
Trama: Cieca dopo un incidente avvenuto quando era bambina, Gina (Blake Lively) fa affidamento al marito James (Jason Clarke) per i suoi occhi. Quando un trapianto di cornea cambia drasticamente la sua vita, la donna inizierà a vedere la relazione sotto una nuova luce.
Recensione: Il buon Marc Forster (cui si vuol bene, sia chiaro: è il regista di World War Z e del sottovalutato 007 Quantum of Solace, la cui unica colpa è stata quella di uscire dopo Casino Royale) ha messo su uno psico-thriller dalle premesse intriganti, che però inizia a fallire lentamente (e miseramente) subito dopo aver posto i suoi interrogativi, per dissolversi progressivamente man mano che ci si avvicinerà ai titoli di coda. Pedante e poco credibile, Chiudi gli occhi racconta di un rapporto (quasi) idilliaco tra marito e moglie, che sembra pian piano trasformarsi in un incubo quando lei riacquista la vista e (attraverso un simbolismo infantile) riesce finalmente a "vedere" l'uomo che ha convissuto con lei per tanto tempo. Peccato che se le premesse potevano quantomeno incuriosire, il risultato è inconcludente e spocchioso, tanto che nella seconda parte la sceneggiatura gira a vuoto, indecisa su quale strada prendere e procede verso un finale totalmente grossolano. Recitato male e scritto peggio, il film mostra anche tutti i limiti di una regia forzatamente virtuosa, che cerca a tutti i costi di colpire con scelte visive sopra le righe ed effetti di luce ambiziosi. Il problema è che Forster non riesce mai a mantenersi in controllo e finisce per dare vita a un lungometraggio noioso e supponente, ricattatorio e mai capace di emozionare in maniera spontanea. La (ri)presa di coscienza e della propria vita di Gina con il recupero della vista e le ossessioni del marito non sono sufficienti a tenere lo spettatore desto per la durata dell'opera. Non è un vero thriller, non è un vero dramma psicologico, è una occasione lasciata a metà sulle onde di immagini accattivanti ma vuote. Anche i momenti morbosi sono espressione di una fotografia fascinosa ma fredda. Peccato.

lunedì 29 luglio 2019

La truffa dei Logan (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 29/07/2019 Qui
Tema e genere: Una divertente commedia su una rapina impossibile, con un cast d'eccezione.
Trama: Il colpo grosso dei due fratelli Logan e della loro banda durante la Coca-Cola 600, la leggendaria corsa della Charlotte Motor Speedway.
Recensione: Qualche anno fa Steven Soderbergh un po' a sorpresa aveva annunciato a soli 50 anni il suo addio dal mondo del cinema, promessa non mantenuta fortunatamente, anzi, ha pure raddoppiato un anno dopo a questo film datato 2017 con l'esperimento abbastanza riuscito di Unsane, un thriller alquanto controverso (in positivo). Non è controverso invece, ma onesto e sincero, La truffa dei Logan (Logan Lucky), una sorta di versione basso proletaria della trilogia di Ocean, la famosa e squisita (come cinema d'intrattenimento degli anni 2000) saga di film ladreschi che negava tutte le regole del genere, pur rispettandole. Infatti, dove là tutto era glamour, i ladri erano belli e intelligenti e i luoghi erano cartoline da favola, qui sono brutti, storpi e abbastanza stupidi, anche nella colonna sonora (curata entrambe dallo stesso compositore David Holmes) dove ai concerti alla Frank Sinatra si sostituisce il folk di John Denver. Anche la struttura è diversa e opposta: la genialità della trilogia stava nel sovraccumulo di narrazione, piste vere e false, colpi di scena, situazioni per poi togliere totalmente qualsiasi spessore ai personaggi riducendoli a maschere da feuilleton muto e realizzare così film di azione essenziale. Ne La truffa dei Logan invece la linea narrativa principale è piuttosto semplice, quello che interessano sono proprio le divagazioni dal centro: l'orso nella foresta, la rivolta in prigione, la guardiana extra large, i piloti delle auto, tutti episodi che esulano dal filone principale e che il regista maneggia con l'abilità di illusionista, per sviare l'attenzione, distrarre e poter far avvenire così la magia. Altra differenza strutturale sono i personaggi: non più figure, maschere, ma persone vere (da segnalare Riley Keough, vera nipote di Elvis Presley e perfetta ragazza del Sud), ma soprattutto Jimmy (un eccellente Channing Tatum l'unico membro del cast ad aver già più volte lavorato con il regista), vero motore narrativo e chiave di volta dell'intera struttura, perché il perno di tutto è proprio il suo amore per la figlia e il desiderio di volerle restare ancora accanto, cui fanno da grandiose spalle Adam Driver e un inedito e divertentissimo Daniel Craig. Sullo sfondo poi c'è tutta la povertà (non solo materiale) di certa provincia e dell'America di oggi, come raramente si vede nel cinema di Hollywood. L'America lontana dalle grandi città viene descritta come un luogo misero, abitata da persone o troppo stupide o frustrate dai fallimenti e da un Paese che non sembra voler avere clemenza, il tutto delineato e rappresentato senza però mai perdere di vista la sua natura più squisitamente leggera. Perché l'handicap fisico dei due protagonisti, insieme all'ambientazione profondamente rurale, diventa sì il grandangolo attraverso il quale il regista ci mostra un'America piegata da una crisi profonda, valoriale prima ancora che economica, ma dove il furto non rappresenta più, come in Ocean's Eleven, un lussuoso esercizio di stile, bensì un mero mezzo per garantirsi la sopravvivenza. Il risultato è un cocktail con le giuste parti di realtà e fantasia, in dosi non perfette ma sufficienti per intrattenere e divertire, anche grazie al ritmo mai lento. Perché per quanto però sia piacevole e ben congegnato, La truffa dei Logan contiene alcune imperfezioni.

Vice - L'uomo nell'ombra (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 26/07/2019 Qui
Tema e genere: Atipico film biografico che segue la storia di Dick Cheney, interpretato da Christian Bale, dalla sua ascesa politica fino al ruolo di vicepresidente degli Stati Uniti d'America. 
Trama: La vera storia di Dick Cheney, il vice-presidente più potente della storia americana, considerato da molti il "vero numero uno" della Casa Bianca durante l'amministrazione di George W. Bush, e di come le sue politiche abbiano cambiato il mondo.
Recensione: Narrato a volte in prima persona rivolgendosi direttamente al pubblico (un espediente già efficacemente usato dal regista nel suo film precedente), a volte da un uomo il cui ruolo si scoprirà solo alla fine con un bel colpo di scena, Vice - L'uomo nell'ombra, che segna il ritorno del regista Adam McKay dopo aver colpito pubblico e l'Academy con La grande scommessa, che tratta di un racconto di una parte della storia recente degli Stati Uniti, ma non c'entra la crisi economica, il film è infatti incentrato sulla figura di Dick Cheney, che nell'amministrazione di George W. Bush è diventato il vicepresidente più potente di sempre, è la storia (si potrebbe così dire) di una vocazione, una chiamata al potere, che Cheney sente fin da giovane e che trova la sua sponda e il suo sostegno in una moglie che da subito lo indirizza e lo sprona. Tanto Cheney è devoto alla famiglia e affettuoso con le figlie, tanto è spregiudicato nel suo comportamento pubblico: intrighi, scandali, gioco sporco, scelte che favoriscono smaccatamente i ricchi e potenti, le deportazioni e torture indiscriminate dopo la tragedia dell'11 settembre, tutto, dal bombardamento della Cambogia alla dichiarazione di guerra all'Iraq, nonostante sapesse benissimo della inesistenza delle famose armi di distruzione di massa. La tesi del regista premio Oscar per la miglior sceneggiatura non originale nel 2016 per quel originalissimo ed interessante film che è La grande scommessa, è che l'America sia governata da dinastie, le scelte politiche dagli anni '60 in poi sono state affidate a un ristrettissimo gruppo di persone. Un altro paese sarebbe stato possibile, suggerisce il regista quando a metà del film fa partire i titoli di coda, come se Cheney fosse stato sconfitto, ma non è stato così. La vicenda raccontata da Vice - L'uomo nell'ombra è quindi una pagina importantissima della storia recente non solo degli Stati Uniti, ma del mondo intero. L'influenza di Dick Cheney sulle vicende del primo decennio del XXI secolo è stato fortissima, in particolare per quanto riguarda l'entrata in guerra contro l'Iraq. Tra i momenti più terrificanti per la loro fredda lucidità ci sono sicuramente i focus group utilizzati per decidere la terminologia da usare per spostare l'opinione pubblica. Adam McKay insomma non risparmia nessun colpo a Cheney, ma neanche a tutti gli altri, non la classe dirigente, i ricchi, i militari, ma nemmeno la gente comune, esemplare la scena di un focus group nel quale, dopo un'accesa discussione, un liberal e un conservatore vengono alle mani sulle sorti del paese, mentre una donna è interessata solo a cosa danno al cinema, come dire, anche in America ognuno ha i governanti che si merita. La sua figura è però quella più pressata, attaccata infatti da ogni fronte, mostrandone i lati più viscidi e oscuri, creando il ritratto di un uomo davvero senza scrupoli, pronto davvero a tutto per ottenere il potere. Dall'altra parte George W. Bush, apparentemente un completo inetto, che viene facilmente raggirato dalle parole di Cheney. Una rappresentazione non certo imparziale, ma è chiaro che non sia mai stato questo l'obiettivo di McKay. Alla storia meramente politica si intreccia anche ben altro, ovvero la particolare storia d'amore tra l'inconcludente e insicuro Dick e la bella e carismatica Lynne, che poi si evolve nell'amore incondizionato verso le figlie, oltre a piccole sotto-trame di spionaggio. Perché, se il Dick Cheney politico è spietato e cinico, l'uomo sa essere un padre protettivo e amorevole, che rinuncia a correre per le presidenziali per evitare stravolgimenti nella vita della figlia minore (mi fermo qui per evitare spoiler).

The Strangers: Prey at Night (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 24/07/2019 Qui
Tema e genere: Atipico home invasion, thriller horror sequel di The Strangers.
Trama: Il viaggio on the road (un viaggio in una località presumibilmente di villeggiatura) di una famiglia prende una piega pericolosa quando, arrivando in uno sperduto parcheggio per passare la notte, trovano il deserto più assoluto. Mentre il buio lentamente scende, tre psicopatici mascherati fanno visita alla famiglia testandone ogni limite e mettendone a dura prova la sopravvivenza.
Recensione: A dieci anni di distanza dal primo The Strangers, uno degli horror/home invasion più atipici e al tempo stesso più riusciti dell'ultimo decennio (anche se molto più riuscito e bello sarà You're Next pochi anni dopo), ecco arrivare il suo sequel. Il regista Bryan Bertino (che resta alla sceneggiatura) lascia questa volta la cabina di regia al giovane rampante collega Johannes Roberts, che col genere si era già cimentato grazie a pellicole quali La Foresta dei Dannati e The Other Side of the Door, e reduce da uno dei migliori film sugli squali fatti negli ultimi anni (47 Metri). La grande intuizione narrativa che aveva reso così "speciale" il primo The Strangers viene ripresa anche in questo sequel: mettere da parte qualsiasi tipo di rappresentazione orrorifica canonica per catturare l'attenzione dello spettatore lentamente, attraverso una straordinaria costruzione della tensione. Com'era già accaduto nel primo film, anche in The Strangers: Prey at Night la paura (tanto nei personaggi quanto nello spettatore) nasce dall'impossibilità di comprendere le motivazioni alla base degli attacchi del folle trio di assassini (gli sconosciuti del titolo) composto da Dollface, Pin-Up e L'Uomo con la Maschera. The Strangers: Prey at Night infatti, riprende quasi pedissequamente la struttura narrativa del suo predecessore, nonostante i problemi di coppia lascino il posto a quelli di un'intera famiglia, e l'azione diventi meno claustrofobica, spostandosi oltre i limiti domestici imposti dal primo film. Nel mirino dei tre misteriosi serial killer troviamo questa volta difatti, una famiglia disfunzionale composta da Mike, sua moglie Cindy e i loro due figli adolescenti, Luke e Kinsey. I quattro, giunti in un camping abbandonato per una breve gita familiare, diventeranno ben presto il bersaglio dei tre psicopatici mascherati, con intenti omicidi ancora più inspiegabili di quanto visto in passato. Ma pur essendo perfettamente in linea col suo predecessore è, per certi versi, anche migliore. La sceneggiatura segue sì le regole dello slasher, ma cerca di sorprendere lo spettatore quando possibile, e ci riesce, anche perché questo è uno slasher che non ti dà un momento di tregua dall'appeal affascinante. Le atmosfere stranianti e l'isolamento significante del primo episodio qui vengono ribaltate infatti in un film, che paga un debito evidente all'horror anni '80, per estetica e scelte musicali (ecco, un altro grande pregio è l'eccellente utilizzo della colonna sonora anni '80 che creano contrasti sfiziosi e geniali), che chiariscono subito le intenzioni di Roberts. Ovvero quelle che il suo sarà un film molto diverso da quello del 2008: minimalismo e atmosfere claustrofobiche vengono sostituite di sana pianta da un approccio più pop, più fresco, più ansiogeno e (cosa a cui ormai abbiamo fatto il callo) più nostalgico. The Strangers: Prey at Night, con le sue scelte musicali e i suoi tempi nel montaggio, guarda infatti più agli slasher degli anni '70, come Halloween di John Carpenter, allontanando da sé i montaggi forsennati e riducendo l'ironia all'osso, compensando con una colonna sonora pop anni '80. Ma oltre ad un taglio stilistico diverso, siamo di fronte anche ad un cambio di prospettiva: luogo di scontro tra gli Strangers e le vittime non è più una semplice casa, ma è un intero trailer park, che dà di fatto a Roberts mano libera, permettendogli di gestire la vicenda un po' come gli pare. E questo è un bene. Il tributo da pagare al film precedente è quello che azzoppa tutta la prima parte di Prey at Night, troppo impacciata e lenta, bloccata tra una riproposizione pari pari di alcuni elementi (la lampadina, la ragazza che bussa alla porta e chiede di Tamara) e i risibili "scazzi" famigliari dei protagonisti. Poi però scatta la violenza, il sangue inizia a scorrere, partono gli inseguimenti e le cose iniziano a farsi interessanti. Come interessante è appunto questo sequel, che non si propone come copia carbone del prototipo, ma riesce ad andare a un livello (di terrore) successivo, ricordando (in parte) quello che è stato fatto con La notte del giudizio e i suoi sequel.

lunedì 22 luglio 2019

Dieci bellissimi coetanei (I miei 10 film preferiti del 1985)

Post pubblicato su Pietro Saba World il 15/07/2019 Qui - Ancora film, ancora Cinema ed ancora un Tag di GramonHill dopo quello de Il film che... di poco tempo fa. E' lui infatti l'artefice di tutto, che dopo aver diffuso nella blogosfera quell'interessantissima catena, ne ha proposto un'altra (stavolta di sua invenzione) altrettanto bella. Una catena che appunto, stando al titolo, si predispone come l'occasione agli appassionati e a tutti, di andare alla ricerca dei film usciti nel proprio anno di nascita, e individuare quelli che sono piaciuti di più. Una catena a cui partecipo non solo perché mi interessava proporlo, ma perché nominato da SamSimon (e da Moz, seppur non in modo specifico). Ma bando alle ciance, io sono nato nel 1985, come dovreste già sapere, e quindi ecco i miei dieci film preferiti (di quelli visti) di quell'anno.

10. L'anno del dragone di Michael Cimino con Mickey Rourke
E' stata probabilmente dell'attore statunitense la migliore interpretazione in assoluto al pari The Wrestler, perché in questo controverso (doveroso infatti segnalare le cinque candidature di questa pellicola per i cosiddetti Oscar al contrario, ovvero i Razzie Awards) ma ottimo thriller poliziesco,
un torbido ritratto della criminalità e della corruzione newyorkese, egli offre una notevole prova.
Notevole anche la prova del regista, autore del capolavoro Il cacciatore, scomparso 3 anni fa.

domenica 21 luglio 2019

Revenge (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 00000000 Qui
Tema e genere: Primo rape and revenge a essere diretto da una regista donna, la francese Coralie Fargeat.
Trama: Prodotto dalla Midnight Factory, il film parla di una ragazza Jen, che viene invitata da un uomo molto ricco ad una battuta di caccia. Il week end, si trasforma in un vero è proprio incubo. Jen viene violentata e poi uccisa (almeno così sembra), fino a che non si sveglierà e vorrà vendetta.
Recensione: Si veste di rosa la voglia di rivalsa e la lotta contro la violenza fisica e psicologica in Revenge, il primo rape and revenge movie diretto da una donna, Coralie Fargeat, che vede Matilda Lutz (vista nel mediocre The Ring 3 e nel mediocre L'estate addosso di Muccino) nei panni di una giovane e ingenua donna all'apparente mercé dei desideri maschili. Nella pellicola, infatti, seguiamo le angoscianti vicende della sexy e sfacciata Jen interpretata dalla Lutz che, invitata dal suo ricco amante Richard (Kevin Janssens) alla tradizionale battuta di caccia nel deserto organizzata dall'uomo con due amici, Stan (Vincent Colombe) e Dimitri (Guillarme Bouchède), si ritrova presto ad essere assoggettata al desiderio degli uomini e a dover ricorrere a tutta la sua forza per fronteggiare, in una spietata caccia all'uomo, quello che si era prospettato come un week end di relax e di passione. Un nome del genere per un film appartenente al filone rape and revenge potrebbe risultare, ai più, insipido e banale. Così sarebbe se solo esso non fosse così diretto, efficace e d'impatto. La regista francese, difatti, meglio non avrebbe potuto denominare la sua opera cruda se non col titolo Revenge. La vendetta stessa, la quale altro non è che l'emblema stesso che viene qui portato in scena. Sì perché Revenge è un film estremamente diretto e viscerale. Un film d'esperienza, che non colpisce lo spettatore per intrighi narrativi o per la forza del racconto, ma per il coinvolgimento sensoriale che crea, tutto è infatti amplificato in Revenge, tutto è sensoriale, volutamente eclatante e meno realistico, dai paesaggi mozzafiato ai rumori dei passi o dei mezzi utilizzati dai personaggi, fino all'essenzialità dei dialoghi tra i protagonisti, forse il vero tallone d'Achille della pellicola. Un film dalla marcata personalità dal punto di vista visivo, si vede che la regista cerca la sua dimensione pulp, con scelte registiche e sceniche spesso sopra le righe ma mai prive di carattere e significato. Una fotografia sgargiante (e satura), un continuo indugiare sul dettaglio violento, sulla sofferenza fisica, senza mai esasperare i toni. È quel tipo di violenza che dà una parte crea tensione dall'altra la stempera, rendendosi per lo più delle volte il catartico exploit dei momenti più importanti del film. Insomma, è quel tipo di violenza filmica, che piace, perché ha il suo perché. E lo spettatore, proprio grazie al gioco di luci e musica e ad un mix di adrenalina e cruda violenza, riesce a vivere completamente il vissuto della protagonista. Perché nonostante le scene pulp sovrastino fin troppo lo sviluppo di Revenge, essi contribuiscono a ricreare la giusta dose di suspense e di partecipazione emotiva nei confronti della protagonista (merito della presenza scenica e del talento di Matilda Lutz che, in questo genere di film, riesce ad emergere anche nelle sequenze meno strutturate dal punto di vista narrativo). Punto nevralgico e unica, vera forza di Revenge è proprio un racconto semplice ed essenziale che punta tutto sulla trasformazione della protagonista che, da preda, diventa predatrice, sovvertendo lo stereotipo della donna/oggetto con comportamenti e azioni spesso al limite del reale. Poco importa però se la credibilità degli eventi narrati lascia molto a desiderare, perché il film osa quando sfrutta il potenziale del genere horror, e funziona egregiamente, infatti la seconda parte, che simboleggia la maturità di Jen attraverso una rinascita, seppur poco credibile sul piano narrativo, è un'arena di sangue, dove a scandire il ritmo dell'opera sono troncamenti, amputazioni e fiumi di sangue.

Easy - Un viaggio facile facile (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 10/07/2019 Qui
Tema e genere: Commedia on the road dai risvolti malinconici.
Trama: Un ex pilota aspirante campione, da anni depresso e obeso, accetta una strana richiesta dal fratello: portare in Ucraina la bara di un operaio morto per un incidente sul lavoro. Tutto facile? Mica tanto.
Recensione: Ancora un pilota protagonista al cinema, dopo il Loris De Martino di Veloce come il vento. Ancora una storia di fallimento, benché raccontata con toni lievi da Andrea Magnani. E ancora una bella sorpresa, da un cinema italiano che sempre più spesso si adagia e indugia su temi banali e stereotipi, tanto che ultimamente lo evito più frequentemente di prima. Ma in questo caso mai scelta fu più giusta, perché davvero riuscito è questo film. Un film di una leggerezza inusitata ma nello stesso tempo di una dolcezza interiore che non t'aspetti, tutto con un passo asciutto, sornione, con poche parole e niente virtuosismi inutili di macchina. Un divertimento mai sguaiato, incantevole e, soffusamente, surreale. Impaginato con un bello stile visivo, che a tratti ricorda i western, e accompagnato da un umorismo surreale tra Aki Kaurismaki e il cinema nordico (per minimalismo espressivo, vedi Virgin Mountain), l'opera prima (dopo tanti corti e documentari) di Andrea Magnani è infatti un'operina interessante e ben fatta (una pellicola deliziosa dall'atmosfera insolita e immediatamente riconoscibile), che si poggia sull'eccellente prova di Nicola Nocella (che si rivelò nel 2010 con Il figlio più piccolo di Pupi Avati), affiancato da un Libero De Rienzo un po' troppo uguale ad altri suoi ruoli nei panni del fratello, mentre il cameo di Barbara Bouchet si fa apprezzare, anche per autoironia. Una piccola opera che ha il coraggio di distaccarsi dai generi più in voga nel panorama cinematografico italiano, un road movie dalle atmosfere quasi scandinave, che attraverso un sottilissimo umorismo, una forte componente visiva, ma soprattutto un'interpretazione straordinaria, riesce a sorprendere. Easy - Un viaggio facile facile difatti, che racconta di un viaggio (nell'est Europa) costellato da una serie incredibile di sciagurati eventi e tanti paradossali inconvenienti, fa sorridere e fa riflettere. Tanto è vero si sorride, ci si lascia coinvolgere dagli eventi e si viene indotti in piccole riflessioni catartiche, utili a rendere questo Easy un viaggio di emozioni e sensazioni diverse facili da assimilare. Giacché questo viaggio pieno di ostacoli, quasi surreale, mette in primo piano, tra le altre cose, il tentativo di dare una scossa alla propria vita, sprofondata in uno stato di confusione cronica, come quella del protagonista incapace di cambiare "marcia". E insomma una pellicola (riuscita e convincente) che ricorda più il cinema estero che quello italiano. Una commedia sottile, triste e faticosa, ma ottimista. Porta sullo schermo un cinema indipendente che trae la sua forza da un soggetto accattivante e una realizzazione elegante. Un piacevole (desolato in tutti i sensi) viaggio a fianco di Easy, la bara di Taras e un carro funebre che si guadagna un posto tra i mezzi di locomozione più iconici in un road movie. Eppure, c'è qualcosa di troppo scritto e programmatico nella storia, che si innerva in tanti piccoli episodi cui si fatica a credere nonostante i disagi mentali di Isidoro. Mentre la voluta lievità del film si scontra a volte con scene sopra le righe o dovrebbero far ridere e non ce la fanno, con un umorismo più "imitativo" che originale e, soprattutto, efficace. Mentre il progressivo affondo emotivo porta a un finale meno toccante di quanto poteva essere. Un discreto esordio, con un ottimo protagonista e un gusto universale per il racconto, ma che vorrebbe essere poetico e risulta un po' forzato e a tratti irritante. Anche se il finale ha un bel guizzo, di quelli che migliorano un film non perfetto, ma anche che fanno pensare a come poteva essere più robusta tutta l'operazione con un po' più di cura. Tuttavia anche così, è innegabile non elogiare questa operazione, un'operazione originale ed interessante, ma soprattutto bella, simpatica ed ironicamente malinconica. Semplicemente irresistibile.

The Wife - Vivere nell'ombra (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 08/07/2019 Qui
Tema e genere: La forza delle donne nella società contemporanea, sullo sfondo l'America, la cultura e la spocchia degli intellettuali. Questo racconta The Wife - Vivere nell'ombra, opera cinematografica di Bjorn Runge, che fra la Svezia e gli Stati Uniti mostra l'abnegazione della protagonista femminile verso il proprio marito e la sua carriera letteraria.
Trama: Joan Castleman è stata per quarant'anni la moglie perfetta. All'ombra del carismatico marito Joe, ne ha favorito la carriera da scrittore e ne ha ignorato l'infedeltà, accettando compromessi e bugie. Joan, però, ha raggiunto il suo livello massimo di sopportazione e, alla vigilia del premio Nobel al marito, decide di riprendersi in mano la sua esistenza, riscoprendosi come donna. Tutto questo rivelando una sconcertante verità.
Recensione: Presentato al Toronto International Film Festival, The Wife segna il ritorno della sei volte candidata all'Oscar Glenn Close con un ruolo alla sua altezza, peccato le manchi attorno un film altrettanto brillante. Un film che chiaramente vuole cavalcare l'onda dell'odierna rivendicazione femminile, che ci vuole ricordare per l'ennesima volta che dietro ogni grande uomo c'è sempre una donna ancora più grande, ma se è vero che lo fa piuttosto smaccatamente è altrettanto vero che, nel farlo, dimostra una classe innegabile, come quella dell'attrice settantenne, che tuttavia non bastano a far superare alla pellicola la sufficienza. Anche perché ho già visto una storia simile a questa qualche settimana fa, nel brutto Mary Shelley - Un amore immortale di Haifaa Al-Mansour, ma soprattutto facilmente intuibile è il segreto rivelatorio. Come se non bastasse, del lato oscuro del Premio Nobel, simbolo principe della "casta" degli scrittori con la s maiuscola, è già stato detto abbastanza. Bjorn Runge arriva infatti un po' tardi alla festa, preceduto (e ampiamente superato) da Il cittadino illustre di Mariano Cohn e Gastón Duprat. L'operazione di fondo è difatti la stessa: tentare di catturare appieno lo spirito di una persona autentica nella sua genialità ma guastata dalla consapevolezza di esserlo, la cui dignità letteraria non uguaglia quella ben più modesta di essere umano. Il regista si basa sul romanzo di Meg Wolitzer e inserisce la figura della moglie nell'ombra in questa riflessione sull'egocentrismo e la falsità dietro il mito dell'autore. Attraverso di essa tenta di stimare quanta parte del successo di una figura di questo tipo derivi dai sacrifici e dalla sopportazione (per non dire del talento) di chi sta attorno a lui. La scelta di Glenn Close costituisce però una sorta di spoiler in un film che sbaglia completamente i tempi della propria narrazione. The Wife indugia troppo nel squarciare il velo finissimo posto su un colpo di scena che è tutt'altro che inaspettato, finendo per risultare lento e tedioso in un paio di passaggi. Per fortuna ha dalla sua una brillante Glenn Close, che salva tutto il salvabile e trascina il film nel territorio della sufficienza. Quando il film non riesce a cambiare marcia, l'attrice riesce a costruire con il suo personaggio un crescendo altrimenti inesistente. Tanto lei diventa via via più carismatica e irresistibile, tanto il film si fa anticlimatico, seguendo sempre il sentiero tracciato da altri, fino a naturale conclusione. La condanna di The Wife - Vivere nell'ombra è suscitare paragoni con film di gran lunga più riusciti: Il cittadino illustre in ambito letterario, molti altri per quanto riguarda le zone grigie dell'amore in terza età.

Ready Player One (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 05/07/2019 Qui
Tema e genere: Film di fantascienza distopico diretto da Steven Spielberg, adattamento cinematografico del romanzo omonimo del 2010 scritto da Ernest Cline.
Trama: In un futuro prossimo, un giovane emarginato di nome Wade Watts fugge dalla sue fatiche quotidiane accedendo a un gioco per computer chiamato Oasis. Morendo, il fondatore milionario del gioco lascia la sua fortuna come premio di una caccia al tesoro all'interno dell'Oasis. Watts prende parte così alla competizione dove si ritroverà a doversi confrontare (realmente e virtualmente) con nemici disposti a tutto pur di mettere le mani sulla fortuna.
Recensione: Avete mai sognato di salire sulla DeLorean di Ritorno al futuro, sfidare la Batmobile, il GMC dell'A-Team, fare a sportellate con Christine, la macchina infernale, sfrecciare davanti alle autovetture di "Speed Racer" e "Mad Max", mentre si è inseguiti dal T-Rex e da King Kong? In Oasis tutto è possibile. L'ultima fatica del papà di E.T. Steven Spielberg è l'adattamento cinematografico di un famoso romanzo di Ernest Cline. L'eterno Willy Wonka della pellicola made in U.S.A. ci regala un meraviglioso, immenso omaggio alla Cultura Pop che egli stesso ha contribuito a creare. Gli anni '80, i videogiochi, gli anime giapponesi, i manga, i fumetti Marvel e DC, i robottoni, i giochi di ruolo, il cinema cult e i sottogeneri sci-fi, la fantascienza, il fantasy, gli horror, i telefilm…tutto questo e molto altro ancora, dà vita a Ready Player One. Non una semplice operazione di nostalgia però, non è soltanto una caccia all'easter egg (come si chiamano in gergo tutte quelle piccole sorprese che spesso vengono disseminati in film e videogiochi), ogni elemento estraneo è infatti inserito con estrema cognizione di causa e mai lasciato al caso, per tutti e 140 i minuti del film, questo è un film vero e proprio, con una trama appassionante, sequenze esaltanti e dei personaggi che catturano sin da subito l'attenzione dello spettatore. Un film che parte con un piccolo spiegone (è anche giusto così), ma non abbiate paura, sono pochi minuti di intrattenimento prima del tripudio di luci e colori. Parte infatti Jump dei Van Halen e si dissipano i dubbi, si sta per assistere a qualcosa di epico. Si intuisce difatti subito quanto Ready Player One metterà alla prova i nostri battiti cardiaci e la nostra capacità di resistere alla potenza di uno tsunami di citazioni e riferimenti che spaziano dagli anni '70 ai '90 con un battito di ciglia o giusto il tempo di caricare un "hadoken". In tal senso Ready Player One, film diretto dal maestro Steven Spielberg, è un'opera che rappresenta nel miglior modo possibile il concetto di intrattenimento nel mondo del cinema. Il cineasta americano confeziona infatti un prodotto il cui unico scopo è far divertire lo spettatore attraverso un vero e proprio inno al citazionismo di tutto quello che era svago e divertimento nei mitici anni '80 e '90. L'opera è costruita senza critica a chi vede in Oasis l'unico modo in cui stare bene, non c'è giudizio nei confronti di chi ritiene che quello che succede nella realtà virtuale sia più importante di quello che accade nella vita reale. Anzi, la struttura narrativa è creata per comprendere questi bisogni di evasione, di leggerezza e di magia, a volte soffocati da una vita troppo dura e frenetica per permetterci di essere veramente liberi e felici (c'è infatti un umana comprensione per chi evade da una realtà priva di speranze, dove sognare è impossibile). L'impianto cinematografico è costruito per far godere lo spettatore. I protagonisti principali sono gli effetti visivi, affascinanti e suggestivi, che lasciano il pubblico in più di un'occasione con il fiato sospeso. Regia e montaggio lavorano di supporto e sono costruiti per regalare un ritmo sempre incalzante e coinvolgente: tutta la sequenza costruita nell'albergo di Shining è veramente interessante. Spielberg mantiene il lavoro su livelli costanti ed il film non subisce mai momenti di stanca, nonostante la sua importante durata (sono circa 140 minuti di proiezione). Ovviamente qualche difetto il film ce l'ha ed i principali stanno tutti nella sceneggiatura, che, forse per lasciare completamente spazio allo svago ed all'intrattenimento, tende ad essere un po' superficiale, senza approfondire mai nemmeno uno dei temi che tocca di volta in volta. Probabilmente però la scelta di creare un film che altro non è che un mega contenitore di immagini, il cui scopo è quello di affascinare lo spettatore, richiedeva questo tipo di approccio e sinceramente a chi scrive la cosa non è dispiaciuta per niente.

Slender Man (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 03/07/2019 Qui
Tema e genere: Horror basato sull'omonimo personaggio creato da Victor Surge, protagonista di racconti dell'orrore, videogiochi, film e vicende di cronaca.
Trama: In una piccola città del Massachusetts, quattro studentesse liceali eseguono un rituale nel tentativo di sfatare la tradizione dello Slender Man. Quando uno di loro scompare misteriosamente, il resto delle compagne inizia a sospettare che lo Slender Man sia entrato in azione.
Recensione: Ispirato ad una leggenda metropolitana che ha avuto larga eco in rete nell'ultimo decennio, questo fiacco horror si avvale di espedienti scontati per tentare di sopperire alle mancanze di sceneggiatura e regia. All'interno del vasto immaginario legato al mondo del paranormale dalle tinte fosche negli ultimi anni si è affacciato un misterioso essere dall'aspetto filiforme e privo di volto, che risiede nei boschi ed è capace di soggiogare giovani anime portandole a perdere la cognizione della realtà e a sacrificare altre vite in suo onore. Tale essere ribattezzato Slender Man, è in verità stato inventato da un semplice fotografo esperto di editing, ma è divenuto talmente popolare da comparire in diversi creepypasta, racconti dell'orrore trasmessi sul web, sia in forma di testo che di immagini (foto e video). Purtroppo la sua "esistenza" è salita anche alla ribalta della cronaca nera, quando nel 2014 due ragazzine tredicenni del Wisconsin tentarono di uccidere una loro coetanea, dicendosi obbligate a farlo proprio da tale oscuro figuro. Dunque l'idea di incentrare un film su questo ambiguo personaggio non poteva che essere colta al volo anche dal cinema horror, e avrebbe potuto rappresentare una qualche novità, specialmente in un periodo in cui imperversano remake e sequel. A conti fatti, però, la debolezza della sceneggiatura e la scarsa inventiva della regia, fanno di questa produzione un qualcosa di dimenticabile, mai veramente intrigante o spaventoso. La storia si sviluppa attorno a quattro amiche di scuole adolescenti di un piccolo paesino americano, alle prese con problemi familiari e prime cotte, che una sera per gioco decidono di guardare un video in rete per evocare questo fantomatico Slender Man. Il loro scetticismo verrà ben presto smentito da una serie di eventi inquietanti, in primis l'improvvisa e inspiegabile scomparsa di una di loro, e poi strane ombre e apparizioni, tra i boschi e tra le mura di casa. E quindi il film ci presenta la solita entità negativa dalle origini anonime e superficiali, con le solite mosse sbagliate e i soliti comportamenti poco plausibili dei protagonisti. Insomma le solite cose viste e straviste portate su schermo senza un reale quid in più. Perché anche se il problema più grosso di Slender Man di Sylvain White è che si tratta di un film dell'orrore che fa spesso orrore ma mai paura, errore già di per se imperdonabile per un film appartenente a questo genere che poi diventa doppiamente grave se si pensa che il materiale di partenza è una delle più famose ed inquietanti leggende metropolitane moderne, a colpire è l'incapacità di proporre un qualcosa di vagamente originale e interessante. Tanto che, giusto per non farsi mancare niente, quella proposta da Slender Man è una storia che sembra pescare a piene mani da due titoli cult del genere come Candyman e The Ring (indovinate perché?). Come se la mancanza di originalità non fosse già un problema sufficiente, a questo si deve aggiungere anche numerosi buchi di sceneggiatura, tanto che da un certo punto del film in poi alcuni personaggi sembra quasi che spariscano direttamente dal copione. Non una spiegazione sul loro destino, non un cenno nemmeno dagli altri protagonisti. Semplicemente non se ne parla più e basta. Anche da un punto di vista degli effetti speciali, ci troviamo di fronte ad un prodotto scialbo e senza mordente, con risvolti involontariamente comici. Le scene deputate a spaventare infatti, non solo sono prevedibili, ma possono anche regalare una meravigliosa nausea da disorientamento.

I primitivi (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 01/07/2019 Qui
Tema e genere: Questo film d'animazione del 2018 prodotto con l'incredibile tecnica della Stop motion ci racconta una storia di riscatto sociale, dove ci viene mostrato che non sempre il progresso tecnologico corrisponde esattamente ad un progresso sociale, anzi in alcuni casi è esattamente l'opposto.
Trama: I Primitivi racconta la storia di due mondi che si scontrano: quello pacifico dell'Età della Pietra e quello dell'Età del Bronzo, primo caso di industrializzazione dell'uomo. La necessità di nuove miniere porta il regime del Bronzo ad invadere le terre remote dei semplici abitanti di una valle verdeggiante e a requisirne le terre. Il protagonista, Dag, ottiene di sfidare l'oppressivo regime dell'Età del Bronzo in una partita a...calcio! Solamente vincendo la sfida contro la squadra più forte dell'Età del Bronzo, il Real Bronzio, i nostri eroi potranno tornare in possesso delle loro terre.
Recensione: Dopo Galline in Fuga, Wallace & Gromit: La maledizione del coniglio mannaro, Giù per il tubo, Pirati! e Shaun: Vita da pecora, gli Aardman Studios continuano la loro personalissima strada nell'animazione di qualità e lo fanno ancora insistendo sulla tecnica della stop motion (nel loro specifico, la claymotion, con pupazzi di plastilina), sempre dannatamente affascinante anche se ormai praticata pochissimo dagli studi cinematografici, visto l'impegno di tempo e manodopera che implica (ultimamente però qualcosa sta cambiando). Come accaduto in passato, anche I Primitivi predilige una storia semplice e immediata che possa arrivare con grande facilità a un pubblico di bambini, senza però andare mai a discapito dell'intrattenimento per adulti e così le situazioni divertenti e i personaggi sopra le righe sono sempre inseriti in contesti incredibilmente ben strutturati a livello narrativo e forti di un umorismo tipicamente britannico che fa sghignazzare a denti stretti anche l'adulto più smaliziato (anche se le trovate, sia nelle situazioni, nei protagonisti, negli elementi scenici e in alcuni giochi di parole, sono, ahimè, spesso non molto efficaci nella localizzazione in italiano). Tra gag talmente sceme da risultare irresistibili (molte con protagonista il cinghiale Grugno, fedele compagno di Dag, doppiato, si fa per dire, dato che non parla, dal regista stesso), con un masso cacciatore provetto, un coniglio impaziente di essere mangiato e una mamma primitiva pronta a mettere in imbarazzo il proprio figlio primitivo, il film di Nick Park (che fa sorridere più che ridere, data la leggerezza e la spensieratezza delle gag disseminate per tutto il film) si dirige presto in una direzione "nobile" che mette in evidenza la lotta per far valere i diritti degli oppressi. Oppressi che prendono immediatamente le sembianze dei cavernicoli dell'età della pietra, scacciati dalle proprie terre dalla "civiltà" che avanza inesorabilmente. Non di meno viene evidenziato il fondamentale apporto femminile alla società, a volte ingiustamente sottovalutato, come nel caso di Ginna, promettente calciatrice ma impossibilità a praticare il suo sport preferito in quanto le donne sono escluse dai campi di calcio. Tuttavia, e poiché la storia de I Primitivi è quasi un grande classico del cinema sportivo: un gruppo di sprovveduti è costretto a confrontarsi con una realtà che, sulla carta, pare davvero imbattibile, l'originalità è ben poca. Fortunatamente questo non è però un film che si basa sulla storia. Ciò che convince sono le trovate sceniche e quei piccoli pezzi di genio che spuntano qua e là nel film, autentiche firme d'autore.