domenica 12 maggio 2019

Ghost in the Shell (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 05/03/2018 Qui - E' qualcosa che non faccio quasi mai (vedere o scoprire le origini di un prodotto o di una pellicola), ma poiché mai come in questo caso, come in occasione del live action di Ghost in the Shell, lo storico anime di Mamoru Oshii del 1995 (a sua volta trasposto dal manga di Masamune Shirow del 1989), non potevo non vedere l'originale e il suo sequel, dato che non l'avevo mai visto. Sì, vi sembrerà strano ma non mi aveva mai attirato e in seguito non l'ho mai recuperato, in ogni caso l'ho visto e mi è moderatamente piaciuto (entrambi, anche se più il primo). Moderatamente perché, se da un lato l'anime Ghost in the Shell, uno straordinario prodotto cyberpunk di indubbia potenza e qualità, mi ha conquistato con il suo appeal visivo, ricco di dettagli e sfumature decisamente accattivanti, compresa una colonna sonora davvero azzeccata, essa non l'ha fatto nel suo tema principale, ovvero le implicazioni filosofiche, morali ed intellettuali, che certamente mi sono arrivate, ma che non mi hanno entusiasmato perché prolisse ed anche un po' noiose (soprattutto nel suo sequel L'Attacco dei Cyborg, dove l'azione latita parecchio). E quindi pur facendo forse un torto ai fan storici del franchise (che probabilmente saranno rimasti delusi), devo, soprattutto soggettivamente parlando ammettere che, questa versione del 2017 diretta dal semi sconosciuto Rupert Sanders, regista del solo passabile fantasy Biancaneve e il cacciatore, seppur tradisce la profondità di contenuti per privilegiare l'esperienza visiva ed essere accessibile ad un pubblico più vasto, mi ha convinto proprio perché elimina in parte (perché non poteva ovviamente rinunciare in toto ad una riflessione morale sul ruolo etico della scienza) sia l'aspetto filosofico che le parti più "morte" dell'originale (miscelando con cura e abilità scene del primo e del secondo anime di Oshii e aggiungendoci altresì piccole modifiche personali). Il film infatti, semplificando il messaggio esistenziale delle opere originarie e concentrandosi sul versante visivo, e proponendosi perciò come pellicola di mero intrattenimento, regala un'esperienza videoludica e filmica (molto) appagante, interessante e coinvolgente.
E per far questo, il progetto personalmente condivisibile del regista, mette in atto un sentito omaggio al manga originale e alle più recenti trasposizioni cinematografiche, Ghost in the Shell del 1995 e Ghost in the Shell 2: Innocence. La pellicola, infatti, attinge elementi da entrambi i film citati, permettendoci di entrare in quel vortice di ricordi che la memoria (anche a distanza di una settimana) non può far altro che far emergere in esso. Questo, ovviamente, se si conoscono tutti i vari lavori legati al manga originale. Lo spettatore si renderà conto (e anch'io di certo non lo nego) infatti, che la sceneggiatura non contiene grandi sorprese. Per chi invece non conosce l'opera in tutte le sue forme, è bene dire che ne potrebbe restarne sorpreso, soprattutto in positivo, ma anche in negativo se rimangono esterrefatti o prevenuti nel constatare come tutto assomigli a Matrix, Ex Machina e I, Robot, o anche al videogioco Deus Ex (e a tutti i prodotti cyberpunk e fantascientifici tra uomo e macchine). Ma sono questi prodotti che hanno preso ispirazione da Ghost in the Shell per realizzare i loro film e giochi e non il contrario. Quello che si vede infatti era già stato "inventato" prima. Tuttavia è altrettanto vero notare che è Ghost in the Shell ad aver preso anch'esso ispirazione da Terminator ma soprattutto da Blade Runner. Anche perché l'opera, ci parla di un "cyborg" che combatte contro le macchine "fuorviate" e molto simili sono le atmosfere, l'aspetto visivo, con quel capolavoro (distopico e cinematografico) di Ridley Scott, ricco di immagini straordinarie e immaginifiche. L'atmosfera distopica del film è infatti resa suggestiva da un production design (come in quel bellissimo film) curatissimo nei dettagli.
L'azione difatti, si svolge in una città orientale, dai palazzi che si innalzano senza soluzione di continuità, con una popolazione degna di un formicaio e gigantesche pubblicità animate tridimensionali (gli esterni sono stati girati a Hong Kong, truccata con una robusta dose di CGI). Un ambiente dove la realtà e il virtuale si corteggiano e si mescolano, dove la gente si fa impiantare protesi e potenziamenti cibernetici per migliorare aspetto e prestazioni. Ed è in questo mondo che vive il maggiore Kusanagi (Scarlett Joahnsson), il cui cervello dopo un incidente viene impiantato nella struttura di un cyborg. Solo il suo corpo infatti, come vediamo dalle scene che illustrano la sua realizzazione sotto la guida della dottoressa Ouelet, interpretata da Juliette Binoche, che lasciano (come straordinariamente visto nell'originale, anche perché tante sono le scene "rifatte" praticamente uguali) veramente a bocca aperta, è sintetico e meccanico (all'interno c'è la coscienza di un essere umano). Una vita che, per quanto avventurosa possa essere per il maggiore Kusanagi e per la sua Sezione 9 occupata a combattere i cyber terroristi, non la protegge dalle domande sulla sua vita passata e dai suoi ricordi (un tema già toccato da Robocop nel lontano 1987). Assieme a lei spiccano Batou, dagli occhi artificiali (l'attore danese Pilou Asbæk) e il loro capo Daisuke Aramaki (l'attore e regista giapponese Takeshi Kitano, l'unico a esprimersi sempre e solo in giapponese e artefice di alcune delle scene più riuscite). La Sezione 9 è sulle tracce di un pericolosissimo hacker di nome Kuze (Michael Pitt), che ha come scopo la distruzione della Hanka Robotics, la società che produce corpi cyborg (come quello di Kusanagi). Ma più si addentra nelle indagini, più il maggiore capisce che c'è un mistero nella sua vita, che la Hanka stessa tiene nascosto, tanto che scoperta la verità molte sue certezze crolleranno.
Il film, come detto, punta moltissimo sull'estetica (impianto visivo portentoso), ma intavola altresì e a carte scoperte il dramma del distacco tra corpo ed anima, tra involucro esterno e ricordi. Appunto il "Ghost" e lo "Shell". Una dicotomia che avvince ed affascina, gettata con veemenza all'interno di un mondo algido ed oscuro, grazie al lavoro su atmosfere e location, tutte perfettamente ricostruite in digitale. Anche perché grazie anche a questo, finalmente comprendiamo cosa sia realmente il Ghost. È vero che nella traduzione originale il termine significa fantasma, ma nel film assume una valenza simbolica e porta lo spettatore a chiedersi se un ibrido possa davvero avere una coscienza e un'anima propria. Seguendo la narrazione e il cambio di atteggiamento della protagonista, è chiaro che il personaggio del Maggiore qualcosa di umano ce l'ha e non è solo il cervello. In Ghost in the Shell viene affrontato anche il tema della ricerca della propria identità e l'importanza di avere ricordi che ti possano aiutare a capire chi tu realmente sia. Dopotutto al centro della storia c'è sempre la stessa domanda e all'epicentro della storia un tema concettuale. La prima è, come già visto in altri film simili, potrà la Macchina superare l'Uomo, superare il suo creatore? E soprattutto potrà una macchina sviluppare una coscienza pari a quella umana? Essere dotata di un'anima propria? Nel caso di Ghost come appurato la risposta è affermativa dal momento che subito sappiamo che Major è un esemplare unico, una fusione funzionale tra l'uomo (il cervello) e la macchina (il corpo, l'involucro) ma le tematiche sono trattate in modo dignitoso e supportate da un'apparato visivo unico e originale che riesce a non sminuire o banalizzare tali quesiti.
D'altronde in Ghost in the Shell, ci sono sia i debiti momenti di introspezione e quelli filosofici, entrambi che invitano il pubblico a soffermarsi e pensare su quello che veramente potrebbe succedere nel futuro prossimo, non tanto la fusione tra uomo e macchina quanto il dominio assoluto e incontrovertibile della rete in ogni aspetto della vita umana, in grado di manipolare o azzerare le vite altrui, innestare false memorie ed infine spersonalizzare gli individui. E qui arriviamo al tema centrale, la ricerca di se stessi, della propria identità, di ciò che ci rende persone uniche e ci distingue dalle macchine. Ritrovare se stessi, riscoprendo la propria anima e ancor di più, arrivare alla consapevolezza che l'anima, lo spirito, prevalgono sul nostro corpo, il quale naturale o artificiale che sia è soltanto un'involucro che non rispecchia quel che siamo veramente. Filosofia e spunti etici dunque (seppur "annacquati") non mancano, ma in Ghost in the Shell detiene una rappresentanza corposa anche la parte action (e in cui la regia brilla di più con riprese aeree, slow motion, giochi di luce ed effetti speciali che rapiscono lo spettatore). Coreografie d'azione, inseguimenti e sparatorie ben gestite e con un uso misurato degli effetti speciali (tranne che nella parte finale) garantiscono infatti il divertimento del pubblico, mentre non mancano alcuni riusciti colpi di scena e una giusta dose di mistero e suspense che avvolge la storia. Ci sono anche momenti dove la tenerezza e la commozione raggiungono inaspettatamente alti livelli per uno sci-fi action movie (su tutte, la scena tra madre e figlia).
Il live action possiede anche un buon ritmo, pur se non adrenalinico come quello degli action a cui siamo abituati, ma anche scene di grande impatto come quella della disturbante fuoriuscita di zampe da ragno cyber dal corpo di una geisha escort robot incaricata di distruggere i membri della Hanka Robotics. Questo grazie ovviamente all'alto livello tecnologico raggiunto nel film, rappresentato in modo impeccabile e verosimile grazie all'ausilio di effetti speciali all'avanguardia che portano lo spettatore ad una nuova esperienza visiva e sensoriale. Il tutto mentre seguiamo l'appassionante vicenda (altresì convincente con una colonna sonora accattivante e molto coinvolgente che contribuisce alla riuscita del progetto che gode anche di dialoghi semplici e brevi, ma diretti e spesso incisivi) di una cyborg che lotta non tanto per salvare il mondo quanto per definire il suo posto nel mondo e riappropriarsi della sua identità. Un'identità che risalta soprattutto grazie all'interpretazione convincente, in un ruolo che le calza a pennello, di Scarlett Johansson, che conferisce la giusta aria cyberpunk alla protagonista. E pensare che quando venne annunciato il cast, ci furono polemiche sul fatto che per interpretare una donna orientale la scelta cadesse su un'attrice americana, e può darsi certamente che il ruolo avrebbe potuto essere ricoperto egregiamente da un'interprete cinese o giapponese, ma bisogna ammettere però che l'aver già recitato negli anni scorsi ruoli similari in Under the Skin, in Lei (anche se solo con la voce) e in Lucy la rende un interprete assolutamente adatta e credibile.
Lei infatti è bravissima a passare, anche perché la sua performance non è particolarmente impegnativa dal punto di vista espressivo, dall'inespressività robotica alla sensibilità emotiva, facendo così intravvedere dubbi e tormenti che attraversano lo sguardo da dura del suo personaggio. Un personaggio che insieme a, e con, Juliette Binoche (anche lei poco empatica) riescono a dare il giusto peso al loro personaggio e a regalare momenti ricchi di intensità. Come intenso è il ruolo (del dannato e sofferente Haze, vero cavallo di Troia del film) di Michael Pitt, senza ovviamente dimenticare le discrete prove di tutti i comprimari. L'unico neo di tutto il progetto, come già accennato all'inizio, è l'aver banalizzato la costruzione filosofica di Shirow, depauperandone il potere evocativo e preferendo una risposta più etica e conservatrice agli interrogativi che erano la colonna portante del franchise. Ma messe da parte queste perplessità, il live action è una trasposizione adulta e dai toni cupi talmente rispettosa da poter accontentare sia i proseliti (purché siano disposti a scendere a patti con l'inevitabile tradimento insito in questo tipo di operazioni) sia gli spettatori (e anche gli appassionati di anime) dallo sguardo vergine (che spero siano allettati da questo primo approccio a recuperare l'opera originale come ho fatto io). Perché quest'opera ammaliante, che si lascia guardare, personalmente l'ho trovato apprezzabilissima e godibilissima sia come forma che contenuti. Voto: 7+