giovedì 3 gennaio 2019

Amy (2015)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 18/06/2016 Qui - Amy è l'emozionante documentario sulla vita della cantante Amy Winehouse, vincitrice di sei Grammy Awardsmorta per avvelenamento da alcol nel luglio 2011 a soli 27 anni. Il film del 2015 diretto da Asif Kapadia ha vinto l'Oscar 2016 come miglior documentario. Un documentario (molto osteggiato dalla famiglia e dai genitori) che mostra la vita della cantautrice britannica, comprendendo anche video ed interviste inedite insieme ad alcuni brani inascoltati. Il film è quindi un documentario musicale che narra la rapida ascesa e caduta di Amy Winehouse utilizzando immagini reali tratte da situazioni pubbliche e private. Il film è il risultato di questo montaggio, intercalato dai brani di maggiore successo della cantante. Dalla narrazione emergono potentemente il talento e la vitalità di Amy, ma anche le sue fragilità umane, le sue insicurezze che il "travolgente" successo metterà a nudo ed esacerberà. A dispetto della tematica non si tratta di un film triste. Le scene più toccanti sono senza dubbio quella del concerto a Belgrado, poco prima della fine, con Amy alterata saltellante per il palco e incapace di qualsiasi performance, e quella finale, col corpo di Amy portato fuori dalla sua casa londinese su una barella coperta da un drappo violaceo alla presenza dei fan increduli. Tutte scene reali, perché di fiction in questo film non c'è nulla. Amy Winehouse interpreta se stessa, ma non si tratta di un'interpretazione filmica: quelli che vediamo sono spezzoni autentici di vita che scorre, riorganizzati e montati a posteriori a costruire una vicenda. Una vicenda che ha scosso prepotentemente il mondo della musica, la tormentata esistenza di una ragazzina dal talento musicale eccezionale, una voce da jazz che Tony Bennet paragonò a quella di Ella Fitzgerald e di Billie Holliday, che già a 14 anni vocalizzava sull'Happy Birthday cantato per la festa di un'amica coetanea in una scena sorprendente con cui ha inizio il film, ma anche autrice delle parole e della musica delle sue canzoni: così ci viene presentata, nella prima parte appunto del documentario (dal titolo originale) Amy Winehouse: the girl behind the name. Dal titolo si capisce come il film, più che puntare sui misteri della sua morte infatti, punta essenzialmente a delineare il percorso di Amy dalle origini di una passione che progressivamente diventa la sua unica valvola di sfogo in una vita che pullula di dipendenze, disturbi e conflitti interiori. Puntando al cuore dello spettatore tanto che la musica viene lasciata parlare da sola senza che nessuno la dissezioni dal punto di vista tecnico. Lei che nata in un sobborgo londinese da una famiglia di origine ebrea, soffre moltissimo quando il padre abbandona la famiglia facendo sì che proprio da questo momento per lei iniziasse un'esistenza fortemente marcata e caratterizzata dalla mancanza di punti fermi dal punti di vista sentimentale e dalla continua ricerca di affetti stabili e sinceri.
Crescendo, intorno all'età della sua adolescenza, esattamente intorno ai suoi quattordici anni, ella comincia a rivelare una passione, ma soprattutto un talento straordinario, per il canto e la musica, con una netta propensione per il genere jazz. Inizia così a scrivere testi di canzoni e musiche che ben presto vengono notate da personaggi dell'ambiente musicale e delle case discografiche e che nel corso degli anni le chiederanno di collaborare e lavorare per loro. Inizia così la rapida ascesa della cantante che nel frattempo, in disaccordo con la propria madre, va a vivere da sola con delle amiche in un piccolo appartamento. L'amore sempre eccessivo e poco controllato che Amy poi sempre proverà per alcuni ragazzi e soprattutto per quel giovane sbandato (Blake Fielder, maestro e compagno di droghe e abiezioni), anch'egli segnato  da un'infanzia poco serena, e che diverrà in seguito anche suo marito per poi finire addirittura un periodo in carcere, la porterà, insieme al successo repentino, troppo grande ed ingestibile per lei, ed alle oppressioni continue dello star system, sostenute peraltro fortemente dalla figura paterna (il padre Mitch) nel frattempo rifattosi vivo con la figlia (non appena si dimostrò remunerativa), a fare uso pesante di droghe di vario genere (pastiglie, marijuana, hascisc, eroina ed abbondanti dosi d'alcool), mettendo più volte e  fortemente a rischio la propria vita, sino all'estremo giorno, quel famoso, appunto, 23 Luglio del 2011, in cui il cuore della cantante non è riuscito più a reggere. La ricostruzione del progressivo processo di autodistruzione è cronologicamente ordinata, con momenti divertenti e felici come alla consegna dei Grammy, ma altrettanti di terrore quando doveva esibirsi di fronte alle grandi folle. Con un montaggio sapiente e discreto, vediamo i suoi quaderni con le parole scritte a mano, profonde e talora profetiche, tra cuoricini e cancellature, poi mentre la sua mente si ottenebra, il cuore si indebolisce e il corpo si assottiglia. Il tutto accompagnato dalle testimonianze di chi è entrato in qualche modo in contatto con la cantante (amici, colleghi, medici) puntando a ricostruirne la personalità. Al racconto partecipano oltre che ai 'cattivi', tra cui anche il suo manager dai pochi scrupoli Raye Cosbert, anche i ''buoni'', tra cui figurano le amiche di una vita e il primo manager (e amico) Nick Shymansky, l'unico che probabilmente aveva a cuore la sua salute, l'unico che suggerì di andare in riabilitazione prima che tutto e tutti l'avvolgessero. Una scelta a due facce, perché probabilmente la sua carriera non sarebbe mai decollata difatti 'Rehab' (una delle sue canzoni più famose) è stata incisa proprio per il rifiuto (anche del padre) di andare a disintossicarsi, cosa che farà dopo quando il successo e la sua carriera, partita anche con 'Back to black' (canzone incisa dopo la rottura da quello sbandato che sarà suo marito), sarà messa a rischio dalla sua pericolosa condotta. Poiché come in tante vicende simili, l'artista è in balia della propria anima tormentata, tendenzialmente depressa e autodistruttiva (da cui la bulimia accompagnata all'abuso di alcool) che viene tenuta a bada solo fra le note, in cui tutte le insicurezze vengono riversate scrivendo testi che sono confessioni senza remore.
In Amy la sovrabbondanza di materiale inedito è quasi frastornante: prima che l'esistenza della star inglese diventasse scrutinio quotidiano da parte di fotografi, giornalisti, fan e tabloid, c'era una ragazzetta bruna che si concedeva quotidianamente alle videocamere casalinghe e all'obiettivo dei cellulari di amici. Da tutto il materiale che Kapadia ha raccolto e sapientemente riunito infatti, Amy, la ragazza "maledetta", fuori dagli schemi, dal trucco pesante e dai capelli accotonati ed avvezza ad un continuo uso di sostanze stupefacenti ed alcool congiunte a crisi di vera e propria natura bulimica, si rivela, invece, essere una persona alquanto fragile, una vera vittima in quanto psicologicamente assai debole ed instabile. Troppo sensibile e colpita nella sua infanzia dalla mancanza di solidi ed importanti affetti familiari a cui poter fare riferimento e dotata di un talento canoro e musicale fuori dal comune, Amy si dirigerà vorticosamente verso un'annunciata ed inevitabile tragica rovina divenendo, purtroppo per lei, solo uno strumento nelle mani di coloro che per questioni prettamente economiche saranno incuranti ed insensibili alle sue reali esigenze, contribuendo così alla sua prematura fine. Difatti il successo del secondo album con il suo appeal pop di ascendenza Motown getta Amy nel vortice della popolarità dal quale cerca di proteggersi fra le braccia e nella farmacia di Blake: è l’inizio della fine, accelerata dalla cecità del management. Di lei, pertanto ci restano ormai solo così i suoi favolosi albums, la sua indimenticabile ed ineguagliabile voce e questo documentario profondamente toccante testimonianza più o meno diretta di un'esistenza bruciata troppo in fretta. "Amy" pertanto rende bene l'idea che molto spesso dietro ad una grande carriera e ad un enorme talento si nasconda una grande umiltà e soprattutto un cuore fragile pronto a spezzarsi alle prime difficoltà. Il successo ha portato un'eccessiva attenzione dei media nei suoi confronti, che combinata a uno stile di vita difficile e precario ha contribuito alla sua tragica scomparsa. Lei che, artista dal talento unico, ha scritto e cantato con il cuore usando la sua voce per analizzare i propri problemi con onestà, rivelandosi come una delle artiste più originali e amate dell'era moderna. Un documentario potente dove la narrazione procede lineare, cronologica, e noi osserviamo, quasi troppo da vicino, la parabola di un corpo che cresce e muta, da banale si fa iconico, poi si consuma, si disfa. Comunque se la prima parte scorre piacevolmente e viene resa in modo interessante, la seconda è forse un po' troppo improntata ad impressionare lo spettatore più che ad emozionarlo rendendo un po' pesante il tutto attraverso immagini che la ritraggono nei periodi peggiori e continue riprese di lei attaccata e derisa dai media. Un effetto dell'insistenza del lato gossip, che ebbe comunque la sua triste importanza, fa sì che un gran senso di malinconia, di rimpianto pervade il doc. Un doc dove il regista non approfondisce troppo là dove si potrebbe inventare ma piuttosto cerca di restituirci l’immagine della fanciulla piena di energia e talento, quale era e poteva tornare ad essere ancora. Toccante quanto basta, informativo senza varcare la soglia del rispetto. Perché nonostante le fragilità, la solitudine della fine, la voce e le canzoni di Amy risuoneranno in eterno. Voto: 7