domenica 19 maggio 2019

Il cliente (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 06/04/2018 Qui - Finzione e realtà, violenza e bontà, vendetta e perdono, onta e onore, cultura e ignoranza, formalità e spontaneità, indifferenza e solidarietà, sono solo alcune delle dicotomie messe in campo dal film Il cliente di Asghar Farhadi. Il regista iraniano di Una separazione (già Premio Oscar per il Miglior Film Straniero) torna a Teheran (dopo Il passato, girato in Francia ed in francese) ed affronta (come spesso è solito fare) la complessità delle relazioni umane, in particolare all'interno della coppia come nei due film precedenti. Non a caso questo film del 2016 analizza il dramma di una famiglia iraniana di classe media. E quindi viene mostrato come un singolo evento (una misteriosa aggressione) sconvolga gli equilibri e gli animi dei protagonisti (tra ricerca del colpevole e desiderio di dimenticare), facendo emergere parti nascoste del loro carattere, che neanche loro conoscevano. Come spesso gli accade infatti, un po' per strategia un po' per mestiere, a Farhadi piace mettere i personaggi al centro di tensioni crescenti, per quanto accade all'esterno ma soprattutto all'interno delle relazioni tra persone. Era così in About Elly, il film che lo rivelò anche in Italia, e soprattutto nei suoi due successivi, e ancor di più nel precedente a questo con Bérénice Bejo, dove gli scontri tra i personaggi erano molto esasperati. Qui all'inizio sembra diverso, a parte la casa pericolante (si vede fuori una gru che sta effettuando dei lavori) che spinge tutti a lasciare le loro abitazioni, gli amici aiutano la coppia (una coppia di coniugi e attori facenti parte di una compagnia teatrale, lui è anche insegnante) a portar via le cose, un attore più anziano offre loro a condizioni di favore un suo appartamento che si è appena liberato. Certo, quella stanza chiusa zeppa di vestiti e oggetti della precedente inquilina prima li irrita e un po' li inquieta. Là ci viveva una donna, che non trova un'altra sistemazione e quindi non si decide a venire a riprendersi la sua roba. E che intanto non risponde alle telefonate, o se lo fa minaccia. Quella donna, si scoprirà, fa un mestiere "disonorevole", e una sera, credendola ancora lì, si farà vivo un suo cliente.
Ma di quello che succederà, essendo le storie di Farhadi sempre venate di thriller, non è il caso di svelare troppo, diciamo che un "fatto" drammatico (ma non si capisce fino a che punto, per i troppi non detti tra moglie e marito) scatena la crisi nella coppia, una crisi in cui i due reagiscono in modo diverso, mentre le distanze aumentano progressivamente. In scena, intanto, la pièce Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller sembra echeggiare le loro inadeguatezze e le loro perdite di certezze. Il film, che ha vinto a Cannes 2016 il premio per la miglior interpretazione maschile e quello per la sceneggiatura (e il Premio Oscar 2017 per il Miglior Film Straniero, secondo per il regista iraniano), è abile perciò nel portare i personaggi sempre sul punto di crollare, e a creare anche suspense nello svelare sempre nuovi punti di vista e verità, sul comportamento della donna, vittima di violenza terrorizzata e desiderosa di dimenticare quanto avvenuto (senza neppure far denunce alla polizia), ma anche non del tutto trasparente con il marito, su quello del marito, che vuole giustizia (o vendetta?) ma che sembra maggiormente turbato dal fatto che i vicini (cortesi ma invadenti) sappiano quel che è successo e che eventuali illazioni possano recar danno alla loro reputazione, sul colpevole, che a un certo punto Emad crede di aver individuato, mentre la verità è molto più intricata. Il film per questo ha indiscutibilmente un valore universale, anche se l'ambiente e la cultura locali sono imprescindibili per comprendere a fondo le scelte che compiono i due protagonisti, due protagonisti affiatati perché compagni nella vita e nel lavoro. Ma poi avviene l'evento inatteso e sconvolgente che viola la loro intimità fisica e morale.
La vittima è a un primo sguardo solo lei. In un primo tempo, infatti, nel film sembra proporsi il tema della condizione femminile e della violenza sulle donne, ma poi l'inquadratura si allarga e diventa altro. Piano piano è la coppia che viene investita da una violenza incredibile, e nel cammino della giustizia fa scelte che incontrano solidarietà e ostilità. E in tutto questo il personaggio più presente e inquietante è quello che non si palesa mai. In questo contesto niente è come sembra. Ogni tinta della realtà non è solo nera o solo bianca ma incontra l'intera gamma dei grigi. In più, vittima e carnefice giocano in maniera inattesa e spiazzante un gioco di inversione di ruoli e parallelismi. In questo senso è una pellicola piuttosto amara, con un finale sospeso, certo possiamo immaginare cosa sia successo ma il regista preferisce non svelarcelo. Mentre efficacemente mostra con quanta facilità e sofferenza un rapporto possa essere gravemente minato, quanto possa essere instabile, anche quando non si direbbe. E per mostrarcelo in modo funzionale sviscera l'animo umano secondo più punti di vista, chi subisce un trauma, chi vive accanto a chi lo subisce e chi compie l'azione riprovevole. Il regista mette così in evidenza (facendoci riflettere sulle mille sfumature di cui son fatti i rapporti umani, sulla loro preziosità e sull'importanza di preservarli, perché basta un niente per fare di un perfetto castello di carte un mucchio di polvere) il senso di paura, debolezza e terrore che si insinua in chi subisce un torto persino all'interno della propria abitazione, il senso di insoddisfazione perenne di chi vive con chi soffre, dove qualsiasi cosa faccia non va bene, perché non c'è niente che davvero dia pace a chi è sconvolto, e infine il senso di colpa e desolazione di chi sbaglia. Tre punti di vista differenti che non riescono a conciliarsi.
Tre punti di vista importanti ed emotivamente coinvolgenti, purtroppo però, seppur la narrazione è tesa e coinvolgente per l'affastellarsi dei fatti, essi e la pellicola non suscita(no) empatia. La sceneggiatura a tal proposito forse delude un po', perché l'eccessivo aggrovigliarsi e ripetersi di avvenimenti e stati emotivi non riesce a raggiungere come dovrebbe il pur attento spettatore, specie nella parte finale, anche per l'intrecciarsi delle scene di teatro con quelle della realtà che in questo caso non aiuta. Di certo a esser discretamente perfetta è la regia (anche perché interessante è la ricerca e l'identificazione del cliente che fortunatamente comporta un'accelerazione dei ritmi e uno slittamento della pellicola verso il thriller), con riprese a spalla e alcune dall'alto, oltre ai primi piani, quasi a significare il tumulto nell'animo dei personaggi (in tal senso ancora una volta ottima le complessità dell'animo umano sviscerate dal regista), convincente è la prova attoriale di Shahab Hosseini (Palma d'Oro a Cannes), anche se Taraneh Alidoosti non è da meno in un personaggio mite e sfortunato, consapevole delle assurde differenze che ancora oggi esistono tra i due sessi in Iran. Inoltre il film è efficace nel proporre uno spaccato di un paese che conosciamo quasi esclusivamente tramite il punto di vista dell'Occidente, tuttavia pecca, a mio giudizio, di alcuni squilibri che lo rendono, a tratti, poco convincente. La parte finale (compreso lo scioglimento che richiama alla lontana la fatalità e la catarsi delle tragedie classiche) appare un po' forzata e introduce una notazione dissonante rispetto all'impianto generale della pellicola. Le analogie tra la quotidianità dei personaggi e la pièce teatrale, pur suggestive, risultano imperfette e poco immediate. Sul film, inoltre, grava lo spettro della censura (o più semplicemente della cultura), la narrazione è reticente, allusiva, sfiora i temi senza affrontarli direttamente. Non si capisce se la donna è stata aggredita o anche violentata, il dubbio resta.
Un altro limite lo si trova sempre nella parte finale, in cui la vicenda si appesantisce per eccesso di "crudeltà", verso i personaggi e verso lo spettatore, funzionale alla "morale" severa che ne vuol cavare l'autore, ma un po' troppo punitiva. In tal senso l'asciuttezza di About Elly e soprattutto del coinvolgente La separazione, che pure non faceva affatto sconti, fanno pensare che maggior equilibrio e misura siano anche più efficaci. Senza dimenticare un doppiaggio di alcuni personaggi a dir poco fastidioso (anche dell'unico che ho visto in più film rispetto ad altri, il Babak Karimi oltre a quelli con Farhadi di ExLast Minute Marocco). Fortunatamente, il doppiaggio mediocre non tocca i protagonisti, che risultano (come detto) validi anche dal punto di vista attoriale. In sintesi, un film interessante, ma un po' squilibrato strutturalmente e non compiutamente risolto. Gli elementi non sempre si integrano tra di loro e la narrazione a volte scricchiola e perde fluidità. Tuttavia rimane comunque una prova in larga parte convincente, in particolare grazie ed appunto alla prova di tutti gli interpreti e al parallelo tra vita e teatro, e alle qualità di regista dell'autore iraniano, che oltre tutto fa trapelare anche stavolta tra le righe il suo giudizio sulla situazione del suo Paese (l'accenno alla censura dell'opera, con tre punti che non superano il vaglio della commissione, e pure il palazzo abbandonato, pieno di crepe, che sembra aver valore metaforico), anche se con più controllo sul finale quello che è un buon film poteva risultare notevolissimo. Nel complesso infatti ampiamente sopra la sufficienza. Tutto per un film certamente intenso, duro e potente da vedere e consigliare, seppur l'Oscar avrei preferito a questo punto l'avesse vinto Land of Mine o chissà un altro dei 3 dei 5 che ancora non ho visto, anche perché sinceramente definire questo film capolavoro è sbagliato. Voto: 7