Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 29/03/2017 Qui - Candidato agli ultimissimi Premi Oscar come miglior film straniero, rappresentante la Danimarca, ma senza risultarne vincitore, Land of Mine: Sotto la sabbia (Under sandet), film del 2015 diretto da Martin Zandvliet, è un film crudo, spiazzante e doloroso, che rievoca una pagina di Storia poco conosciuta, eventi realmente accaduti poco trattati nei libri, quella di un massacro silenzioso, alquanto spietato ma ottimamente raccontato con ritmi serrati e scelte stilistiche efficaci. Land of Mine infatti, racconta la poco nota vicenda storica dello sminamento di centinaia di chilometri di costa danese, per portare a termine il quale vennero utilizzati al termine della Seconda Guerra Mondiale, clandestinamente e fuori dalle Convenzioni belliche, duemila prigionieri tedeschi per lo più giovanissimi, che per metà sarebbero morti o rimasti mutilati durante le operazioni di bonifica. E il film tratta questa drammatica pagina come pena di contrappasso contro gli sconfitti, prevedendo non solo il conseguente capovolgimento dei ruoli tra le parti, con i soldati nazisti prigionieri e oppressi e i loro colleghi danesi carcerieri e aguzzini, ma anche la perfetta ri-ambientazione invertita degli elementi materiali e psicologici, come la casa-dormitorio modello lager, i lavori forzati, la denutrizione, le umiliazioni e le sofferenze psicologiche. Certo, siamo lontani dagli orrori dei campi di sterminio nazisti, manca la fredda e folle logica dello sterminio a determinare la stessa cupezza e crudeltà da girone infernale dei lager, tuttavia anche qui non mancano né la crudezza descrittiva, né gli accenti sadici e disumani che le circostanze impongono. Sappiamo bene infatti che 'i colpi di coda' sono tremendi e quando le guerre finiscono tutto il lavoro sporco prima dei vari rientri a casa è un momento dolente dove rabbie, frustrazioni e violenze gratuite si abbattono sui sopravvissuti.
A farne le spese difatti sono un gruppo di ragazzi tedeschi che non solo devono sminare le spiagge, ma soprattutto devono sottomettersi ad ogni tipo di sopruso da parte dei loro aguzzini. Assistiamo quindi e come già detto ad un ribaltamento dei ruoli dove le vittime, in questo caso i Danesi, si trasformano in carnefici, riservando lo stesso trattamento ricevuto nei 5 anni di occupazione ai, in questo caso, incolpevoli soldati nazisti, troppo giovani e inesperti per aver commesso qualsivoglia crimine. Disumana è la guerra e disumani sono i soldati, i vinti sono vinti e vanno umiliati al di là di quello che hanno fatto loro stessi o coloro che li hanno comandati. Siamo sempre insomma all'interno dell'argomentazione sulla 'banalità del male' tanto bene descritta da Hanna Arendt e tanto bene vista in tantissimi film. Qui però, e per una volta tanto al cinema (e forse mai un'altra ci sarà), i nazisti vinti diventano vittime, ragazzini giovanissimi arruolati probabilmente all'ultimo, senza alcuna esperienza bellica. Addirittura non si sa più chi siano le vittime del Nazismo, a parte i sei milioni di ebrei ammazzati, forse lo sono anche gli stessi tedeschi, sembrerebbe essere la tesi del film. È proprio qui che il regista danese ha il coraggio di vedere la tirannia e la cattiveria di chi ha vinto (anche se sono gli stessi danesi a essere descritti così) di descriverne il potere dell'umiliazione (tremenda la scena in cui i soldati danesi pisciano sui ragazzi tedeschi che purtroppo è tristemente utilizzata da infami anche in periodi di pace), vedere il trattare un ragazzo tedesco come fosse un cane, farlo giocare con la palla e farlo abbaiare, tutte violenze gratuite che l'animo umano purtroppo riesce a tirare fuori in disparate circostanze (questi sono i temi centrali del film). L'orrore e la disumanità della guerra, anche quand'essa è già finita, la cattiveria e il sentimento di vendetta del genere umano senza limiti e senza bandiere, che qui sono invero resi in modo molto crudo e realistico.
In ogni caso, si parla soprattutto di quattordici giovani tedeschi (di cui nel frattempo impariamo i nomi, le provenienze e i desideri), chiamati a riparare i danni provocati in tempo di guerra. Guerra di cui tema viene affrontato dal lato della vendetta e dell'espiazione nei confronti delle (innumerevoli) colpe dell'esercito nazista, ma che questi ragazzi effettivamente non hanno, loro e noi anche che, di fronte a un branco di dimessi e spauriti adolescenti, malvestiti con ciò che resta delle loro un tempo terrificanti divise, sia lo spettatore che il sergente-neo-kapò danese non possono allora non commuoversi fino all'indulgenza e all'assoluzione, deponendo l'odio e il senso della vendetta per provare compassione quando non anche simpatia verso i loro visi teneri e ancora imberbi. Situazioni e fatti ottimamente, come detto, narrati, adottando uno sguardo lucido e realistico, teso a prediligere la crudezza essenziale degli accadimenti, spesso insostenibile, dribblando con successo la stucchevole retorica sentimentalistica perennemente in agguato. Si mantiene rigoroso e asciutto per tutto il tempo, ma la ragionata secchezza dello stile non diviene un deterrente per l'umana compassione e tantomeno impedisce alla carica empatica di fare il suo dirompente ingresso in scena. In questo modo la pellicola non si raffredda, permettendo la compenetrazione emotiva da parte dello spettatore, letteralmente incastrato nella storia, attraversato/torturato da una tensione che gli mozza il respiro e che raramente gli concede tregua. Tensione che, in verità, dovrebbe scemare dato che il film è sfacciatamente prevedibile. Ogni svolta drammatica ed ogni episodio di morte ivi presenti possono, infatti, essere calcolati con largo anticipo e con precisione infinitesimale. Perché mai, allora, l'atmosfera così tesa da essere tagliata con un coltello continua a mantenersi alta e difficilmente gestibile?
Proprio quello che potrebbe apparire il difetto maggiore dell'opera di Martin Zandvliet si rivela, inaspettatamente, il suo punto di forza, la sua ragione d'essere e la sua capacità di rimanere imbrigliata negli occhi e nella mente dello spettatore ben oltre la visione. Perché Land of mine ci sbatte in faccia la verità, la sicurezza della morte. Ogni istante che i ragazzi passano a maneggiar esplosivi è l'istante ideale per lasciarci la pelle. Sappiamo che moriranno, lo abbiamo sempre saputo, fin dall'inizio, non ci resta che guardarli in azione e aspettare, impotenti, che arrivi, ineluttabile, il momento estremo. Anche se, quando accade, ci sorprendiamo lo stesso impreparati. Tuttavia, la crudezza dell'opera offre spazio a soluzioni visivamente meno sconvolgenti, dove la morte in atto è volutamente lasciata fuori quadro. Per rintracciare i corpi senza vita un istante dopo. O non raggiungerli affatto, limitandosi, per esempio, a mostrarci da lontano l'esplosione. Oppure, scegliendo d'intervenire sul sonoro azzerando il volume, così da neutralizzare il boato assordante (emotivamente devastante) della deflagrazione, come avviene in uno dei segmenti più toccanti e, anche per mezzo di tale accorgimento, più belli e poetici del film. Difatti, tra solenni paesaggi di desolate spiagge avvolte da folate di vento, poetiche sono le inquadrature dall'alto, come anche una corsa spensierata dei ragazzi-soldato tra le dune di sabbia o una festosa partita di calcio sulla spiaggia selvaggia, ed infine alcune sequenze drammatiche delle dilanianti esplosioni di mine e altre di grande intensità emotiva nel rapporto psicologico tra custode e prigionieri. Gli attori poi sono tutti (più o meno) sconosciuti al grande pubblico e questo aggiunge ancora più credibilità e verosimiglianza con i personaggi interpretati. Poiché Land Of Mine è un capolavoro di verismo senza retorica o pietismo, duro e angosciante e al tempo stesso dolce e vibrante di umanità. Le lunghe spiagge insomma, incontaminate che assomigliano al deserto, i tramonti sull'oceano, le intemperie sui volti impauriti dei ragazzi che rischiano la vita in ogni frazione di secondo, sono le splendide immagini di questo film molto duro, dove nessuno si salva da errori del comportamento. Il finale, forse un po' appiccicato, ha il gusto del gesto riparatorio non solo nei confronti dei sensi di colpa del sergente, ma anche dello spettatore che è rimasto un'ora e mezza in apnea con il mal di stomaco. Perché in definitiva, Land of Mine ammutolisce, anche se una visione sofferta è necessaria, tanto che lo consiglierei a tutte le scuole che studiano il periodo nazista e la Seconda guerra mondiale, per scoprire come la guerra (in tutte le sue forme) cambia le persone e sempre in negativo. Voto: 7,5