martedì 14 maggio 2019

T2: Trainspotting (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 09/03/2018 Qui - Era il 1996 quando nelle sale usciva Trainspotting, pellicola diretta da un giovane ma già talentuoso Danny Boyle (che negli anni a venire vincerà meritatamente un Oscar per The Millionaire). Il film, tratto dall'omonimo romanzo dello scozzese Irvine Welsh, segnò un'intera generazione portando sullo schermo in modo del tutto originale ed inedito le vicissitudini di un gruppo di ragazzi di Edimburgo, uniti non solo dall'amicizia ma soprattutto dalla comune dipendenza dall'eroina. In un mix originalissimo infatti, si intrecciavano appunto le vicende di quattro personaggi, alle prese con problemi di dipendenza, violenza, microcriminalità, sentimento e morti paradossali ed inquietanti e al centro protagonista assoluta l'eroina, con tutti i suoi annessi e connessi, aveva anche un passo e un tratto assolutamente originali, soprattutto per il tema trattato. Potente e smodato, estremo in tutti i sensi, con una colonna sonora convulsa e frastornante, perfettamente in linea, con quella storia di tossicodipendenza, fuori dalle righe e dai cliché. Il sequel (del 2017) con lo stesso regista, intitolato T2: Trainspotting, che riprende la storia dei quattro personaggi, dopo vent'anni, non ha però più niente del tono dissacratorio e trasgressivo della pellicola precedente. Perché certo, Boyle ci fa rivivere le suggestive atmosfere che ci avevano affascinato e coinvolto nel primo film (che io personalmente comunque non ritengo un mio cult, anche perché a rivederlo oggi, per la prima volta da quando è uscito nel 1996, è un film di bruttezza epocale, e poi a parte alcune "incredibili" scene poco lo si ricorda), ma questo sequel molto meno irriverente e scorretto del primo, altresì più operazione commerciale che nostalgica, non è un film completamente riuscito. Perché anche se tuttavia la nostalgia è perennemente presente in questo secondo episodio (ben costruito senz'altro, ma, al contrario del primo, troppo conformista), quest'operazione nostalgia non arriva ai fasti dell'originale, vive certamente di momenti, di qualche lampo ma la trama complessiva non convince.
Le peripezie di Mark, Sick Boy, Spud e Begbie vengono infatti compresse in una sceneggiatura francamente poco esaltante, fatta più di episodi incollati tra loro e quasi tutta mirata a far esplodere le emozioni contrastanti che la gang nutre nei confronti di Mark, fuggito ad Amsterdam per le ragioni che tutti conoscono e/o dovrebbero conoscere. Ma se, vent'anni fa, i protagonisti, nella loro deriva, riuscivano ad essere accattivanti, qui appaiono volutamente ridicoli, non più figure tragiche ma patetiche. Il film è quindi per buona parte una commedia surreale, quasi demenziale, che abbandona l'estetica lisergica e decadente del prototipo per muoversi in un presente di luci artificiali e nella patina di giornate assolate. La colonna sonora che era stata uno dei punti di forza dell'originale, ripropone alcuni di quei brani aggiungendone di più attuali a sintetizzare lo spirito del film. La stessa struttura cede alle convenzioni, procede più con la testa che con la pancia e bada fin troppo all'intreccio delle relazioni, ora più complicate, tra i quattro protagonisti. La storia che si sviluppa difatti, quella di Mark Renton che torna ad Edimburgo, sua madre nel frattempo è morta, mentre suo padre vive da solo nella casa di famiglia, quella di Daniel "Spud" Murphy che è ancora un tossicodipendente sull'orlo del suicidio, salvato in extremis proprio da Mark, quella di Simon "Sick Boy" Williamson che vive di espedienti, che fa prostituire la sua ragazza per filmare le sue "gesta erotiche" per poi ricattare gli ingenui depravati, padri di famiglia e notabili, e che infine distrattamente gestisce un pub lasciatogli in eredità da sua zia, quella di Francis "Franco" Begbie, che sta invece scontando una lunga pena detentiva, ma che scappa con un piccolo trucco dalla prigione, e quindi tutti si ritroveranno insieme dopo tanto tempo (anche se più che una rimpatriata, sarà un duro scontro) è per buona parte ordinaria e scontata, priva di invenzioni e trovate geniali.
Giacché, meno sovversivo, feroce e soprattutto orfano della freschezza del primo capitolo quello proposto da Boyle (in cui manca altresì lo spirito anarchico e punk del primo film, manca la rabbia, manca la grande vibrante energia che c'era) è insomma un quadro sociale sempre border line ma più contenuto, la rabbia sembra essersi quietata e il luridume ripulito, tutto per mettere in atto una riflessione amara sulle occasioni infrante dai tradimenti (vero mantra della pellicola) ma non solo, anche sull'impossibilità, alla fine, di riscattarsi totalmente, soprattutto se si è nati a Leith. La rimpatriata tuttavia non delude totalmente, vero che lo humor nero non si fonde con efficacia alla disperazione, la soundtrack non incide come in precedenza e i caratteri sono resi in maniera molto meno sfumata, al tempo stesso però i pregi sono legati alla capacità di nascondere le mancanze di un esile soggetto grazie al solito stile tanto frenetico quanto inconfondibile, con Boyle abile a mantenere una forte amarezza di fondo alimentata da rimpianti e ricordi, utilizzando (forse troppo) l'auto-celebrazione (effettuata tramite astute clip prese dal primo film) in maniera sfacciata ma efficace, anche se la potenza visiva lascia il posto a una retorica verbosità. Tuttavia quello che davvero dispiace è che di Trainspotting ritroviamo l'involucro, ma certamente non l'anima. Certo, inizialmente è tutto sommato piacevole rincontrare i protagonisti del primo film, invecchiati ma nella sostanza uguali a come li ricordavamo, ed è anche grazie alla bravura del cast se alcune sequenze fanno ridere di gusto, Ewan McGregor (mal sfruttato in La Bella e la Bestia) e Jonny Lee Miller sono ancora un ottimo duo, Robert Carlyle porta all'estremo gli scatti d'ira del suo personaggio (C'era una volta docet), ed Ewen Bremner (visto pochissimo tempo fa in Wonder Woman) nel ruolo di Spud dimostra una fisicità da comico slapstick, ma, man mano che il film va avanti però, sembra che la sceneggiatura voglia trovare a tutti i costi una "morale della favola", e lo fa aggrappandosi a una serie di cliché fuori contesto sul tema dell'amicizia, del tradimento e delle seconde occasioni.
Diversi spunti narrativi nuovi (come i flashback un po' stucchevoli dell'infanzia vissuta insieme di Renton e Sick Boy, tentativo forzato di approfondire il tema di un rapporto su cui già si era detto tutto) appaiono poco coerenti coi personaggi e il mondo cui appartengono, un mondo che era stato delineato chiaramente nella pellicola originale, e che pare difficile ignorare, dal momento che (per l'appunto) viene evocato in continuazione. Il risultato quindi è un po' fiacco e sembra ci sia davvero poco da raccontare. Anche perché si resta indifferenti per quasi tutta la durata, pochissimi momenti onirici, quasi nulla (eppure in qualche modo erano stati la fortuna del primo film). Il regista insomma, stavolta non lascia il segno, dopo aver creato un cult vent'anni prima, riporta la ciurma degli attori originari, ad una resa dei conti mai davvero convincente. Anche perché, come detto, la storia appare "tirata", con qualche "escamotage" da giustificare le varie azioni dei personaggi, ma nulla di più e pertanto, sebbene gli attori siano sempre perfettamente calati nei propri ruoli e rendano appunto il film divertente ed ironico in svariate sue parti (anche se insipida seppur bella è Anjela Nedyalkova, mentre bello è stata rivedere Kelly Macdonald, che all'epoca attirava attenzioni con la sua giovinezza), T2 sicuramente manca di quell'originalità, nonché crudo realismo che contraddistingueva e rendeva unico il primo capitolo. Proprio perché l'aria malinconica di quegli anni '90 ormai passati, porta il regista inevitabilmente ad allungare la pellicola con piccole dosi di scene passate, per accompagnare un presente che altrimenti stenterebbe a decollare. Dopotutto a volte sembra non sappia dove vuole andare, in più certi personaggi sono sacrificati, soprattutto Begbie (da quando si chiama Franco? Non si chiamava Francis?) a cui viene dedicato più tempo, però sfruttato malissimo, con la grande ossessione di pestare a morte Renton e qualche buco nello script.
Non tutto comunque e fortunatamente è dimenticabile, perché i momenti godibili ci sono, il salvataggio di Spud dal suicidio con la metafora del grattacielo, il concerto improvvisato di Rent e Sick Boy ad un raduno di protestanti (esilarante), il monologo di Renton (un bravissimo Ewan McGregor, la sua gran carriera cominciò proprio 21 anni fa) scatenandosi sul mondo d'oggi, in particolare i social network, e l'ultimissima scena finale di Rent alle prese con una nuova versione di Lust for Life (The Prodigy Remix). Ho apprezzato anche questo discostarsi dall'eroina del primo film, non avrebbe avuto senso (ed era comunque un aspetto che non ho proprio mai amato), anche se c'è qualche rimando tipo il personaggio di Spud ancora invischiato. Ma fondamentalmente il film è poco più di un esercizio di stile con rimandi e autocitazione al primo capitolo. Non possiede quella forza, sia narrativa, sia stilistica, che come messaggio generazionale che ha avuto il primo film. Il regista insomma, non è riuscito né a costruire né, di conseguenza, a raggiungere il pregio ed il grande successo ottenuto dalla sua prima pellicola. Perché questo storico sequel (che come già detto non gode di un intreccio particolarmente rilevante) appare infatti sospeso tra la nostalgia ossessiva (e non del tutto funzionante) del suo predecessore e l'incapacità di mettere a fuoco ciò che lo rendeva così significativo, fino al punto da trasformarsi nel suo opposto, un film quasi inutile. Quasi, perché in ogni caso, T2: Trainspotting è un più che sufficiente prodotto che non delude gli affezionati non pretenziosi. Dopotutto nostalgico, incosciente, appunto inutile e sbagliato, con sprazzi di grandiosità e altri di scarsa qualità (e utilità), questo è il cinema di Danny Boyle (regista dell'interessante ma poco convinto biopic Steve Jobs), questo è il codesto sequel, che io francamente non sono riuscito né ad amare, né ad odiare fino in fondo. Anche perché mi sento di consigliarlo (seppur con riserva) non solo a chi ha apprezzato (soprattutto ai nostalgici) il primo. Voto: 6,5