venerdì 17 maggio 2019

Il condominio dei cuori infranti (2015)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 03/04/2018 Qui - Film delicato, riflessivo e positivo, adatto a chi ama (ma non solo) il cinema francese senza fronzoli e incentrato sulle piccole storie quotidiane, questo è Il condominio dei cuori infranti (Asphalte), una commedia tenera e sorprendente, una commedia (nonostante il titolo faccia temere di ritrovarsi in un'altra innocua e inconsistente commedia sentimentale) agrodolce capace di far riflettere sull'importanza delle nostre stesse esistenze, ed in grado di far divertire lo spettatore attraverso dialoghi semplici e diretti. Ambientato in chiave surreale nel condominio di una banlieue francese, fatiscente insieme al prevedibile circondario, il film del regista Samuel Benchetrit infatti (prendendo spunto dalla propria raccolta di racconti Chroniques de l'asphalte), intreccia con rigore tre storie rappresentative della commedia umana. La storia di tre solitudini, tre cadute, tre incontri e tre risalite. Tre storie, sapientemente intrecciate, che miscelano in misura diversa realismo e surrealismo, senza mai eccedere, che coniugano divertimento e malinconia senza forzature e stridori. Tre storie, profondamente umane, splendidamente raccontate, che con pochi accenni riescono a restituire pienamente il vissuto di sei personaggi, sei esseri umani, che accidentalmente si incrociano, interagiscono, si confrontano. Sei forme diverse di solitudine che proprio attraverso la difficoltà del dialogo trovano il modo di comunicare, di giungere ad una autentica comprensione dell'altro. Girando in 4:3 (formato ritenuto più idoneo del comune 16:9 a contenere gli spazi ristretti degli interni), con uno stile minimalista fatto di camera prevalentemente fissa, dialoghi asciutti e concisi, musiche non invadenti, e situazioni al limite del surreale, e permettendosi anche calzanti citazioni filmiche, il regista mette difatti in fila una sequenza di bozzetti "umani" nei quali l'umorismo caustico è servito in un lieve ed equilibrato mix di malinconia ed assurdo.
Giacché in questo piccolo film delizioso, la banalità del quotidiano cede progressivamente il posto all'assurdo, fino a creare un'atmosfera surreale. E per far ciò il regista ci trasporta in un mondo dove l'asfalto e la solitudine della banlieue parigina si mescolano all'armonia e alla bellezza espresse dall'animo dei protagonisti, personaggi comuni ma di grande spessore che ci ricordano come spesso le storie migliori possano nascere anche dalla quotidianità più banale e scontata. Non a caso Il condominio dei cuori infranti trasforma in poesia la banalità del quotidiano (di quelle vite anonime di inquilini che si trascinano nella monotonia e nella consuetudine delle futili beghe condominiali), sospendendo i suoi protagonisti tra prigione del reale e sogno di fuga. Anche perché il condominio è quel che può essere, luogo di un'umanità mortificata e dimessa (dove nulla di buono sembra poter succedere), e difatti in questa favola delicata, un po' tenera, un po' comica, un po' disperata, ambientata in un grigio e degradato condominio in una grigia degradata periferia, e su uno sfondo di colori spenti e gessati, di asfalto corroso, di cieli nuvolosi e lividi, di graffiti rabbiosi, di bandoni di latta che sbattono al vento in modo sinistro, non c'è via di fuga dalla realtà. Le loro esistenze si svolgono infatti piatte e isolate, senza alcun significativo avvenimento, fino a che all'improvviso alcune cose incredibili e surreali si manifestano davanti ai nostri occhi increduli ma subito conquistati. D'altronde nel suo quasi perfetto minimalismo, a volte assurdo, spesso poetico, le storie degli abitanti di un condominio di banlieu (alcune decisamente nonsense, altre malinconiche) si intrecciano ottimamente in un film (questo del 2015) quasi corale (ma si tratta di un coro di pochi elementi, tre coppie di personaggi appunto) che rimanda, per certi aspetti, alla cinematografia dello svedese Roy Andersson (quello di Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza).
Ma se nel cinema svedese è il rigore formale ed etico a prevalere, fino a sconfinare nell'assoluto assurdo, qui l'empatia con i protagonisti non solo porta ad accettare anche le situazioni più improponibili, ma anche a partecipare dell'assurdo stesso e a trepidare per chi lo vive. E bastano pochi dialoghi composti da poche parole, spesso incerte e mal articolate, per definire le varie personalità imperfette e insicure che entrano gradualmente in contatto tra loro, riscoprendo così il piacere della compagnia, della condivisione e dell'amicizia, oltre che la fiducia in se stessi. Non a caso in una continua discontinuità di scene che sottolinea la disintegrazione dello sfondo, accentuata dal funambolico giustapporsi di banale quotidiano e surreale, di comico e tragico, il regista punta la sua camera fissa sui visi e i movimenti scomposti dei suoi personaggi e lentamente li porta a svelare il filo di umanità che dà coerenza e senso alle loro vite e li riscatta dalla loro condizione di reietti. L'impossibile perciò diventa possibile, e lo squallore si dimentica (anche se è sempre lì, insidioso, come un'irrimediabile perdita d'acqua del lavandino), quando degli essere umani, contro ogni previsione e ogni logica, si vengono incontro, sull'onda di un sentimento che li porta l'uno verso l'altro per capirsi, aiutarsi, amarsi, anche se l'inizio non è dei più felici. Comunque si parte da situazioni e caratteri quotidiani, il condomino del primo piano che non paga le spese d'ascensore e finisce su una carrozzina a rotelle, impossibilitato a scendere le scale, l'anziana vedova con un figlio carcerato, che sorride sempre e ha una parola gentile per tutti, l'adolescente che passa tutto il giorno da solo perché la madre lavora. Poi, questi personaggi così banali si trovano coinvolti in situazioni straordinarie (o quasi).
L'invalido (Gustave Kervern), costretto a usare l'ascensore solo nottetempo quando i vicini non possono vederlo, si innamora di una stranita infermiera di notte (Valeria Bruni Tedeschi perfetta per la parte) cui fa credere di essere un fotografo (uno strano tipo di fotografo). La vedova (Tassadit Mandi) si vede piombare in casa, letteralmente dal cielo, un astronauta della NASA (uno stralunato ma efficace Michael Pitt) e il ragazzino (Jules Benchetrit, figlio del regista e di Marie Trintignant) stringe amicizia con una matura attrice semi-alcolizzata. Soprattutto nell'episodio dell'astronauta si ride di gusto, di fronte agli sforzi dei due personaggi per comunicare. Più malinconica, ma non per questo meno accattivante, è la storia del condomino innamorato, mentre mostra la corda la vicenda di cui è protagonista Isabelle Huppert nel ruolo dell'attrice dimenticata. Anche perché a quanto pare quest'ultima storia è stata scritta apposta per il film, forse inserita per consentire la presenza della grande diva, che però stona leggermente rispetto all'atmosfera surreale. Tuttavia nel complesso, un film davvero gradevole in tutto e in tutte le storie (assolutamente non noiose). Questo perché Samuel Benchetrit è abile nel maneggiare situazioni e personaggi in tanti finali aperti (un finale che con quasi nulla riesce a mostrare come lo scarto fra la banalità e la poesia sia al contempo minimo e abissale). Dopotutto tratto da un testo autobiografico dello stesso regista, Asphalte sembra raccontarci, lungo un amaro filo d'ironia, quanto la salvezza (una zoppicante salvezza, comunque provvisoria) passi attraverso l'incontro con le persone giuste. A tal proposito se il film funziona è anche grazie agli attori giusti scelti. Molto intense sono infatti le prove di tutto il cast, valorizzate da una fotografia essenziale e tenue nei colori, che conferisce un tono ancora più sospeso e intimista alla narrazione. Senza dimenticare una regia senza incertezze, dialoghi essenziali ma precisi e ritmo costante, per una visione coinvolgente ed appagante dal punto di vista delle emozioni recepite. Tutto per un film (comunque non eccezionale), poetico e bello, che non ricorrendo a battute volgari e scontate per strappare una risata, si fa valere e vale una visione (peccato solo per il titolo italiano, stupido e fuorviante come troppo spesso accade). Voto: 7-