mercoledì 17 aprile 2019

Fiore (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 18/04/2018 Qui - Il Claudio Giovannesi di "Ali ha gli occhi azzurri", dirige con accuratezza ed efficacia un film intimista, fatto di sguardi e sfumature emotive, di studi approfonditi eseguiti a colpo d'occhio per capire e decifrare emozioni che le circostanze non permettono di sviscerare, ma anche un film di scatti emozionali, di rincorse in riva al mare e di fughe a rotta di collo, quando il sentimento è più forte del pericolo che incombe in seguito alla punizione. Fiore infatti, film del 2016 del regista romano, narra attraverso e nonostante l'esperienza dura della prigione, come gli istinti primari, sia positivi, il bisogno di essere amati, sia negativi, la tendenza a trasgredire alle regole imposte e la ricerca della fuga, non ci lascino mai soli. E per farlo il regista ci racconta in maniera nuda e cruda la vita della giovane Daphne, chiusa in un carcere minorile e con rapporti familiari spesso difficili. Ma nel grigiore generale (anche perché francamente pensare che la riabilitazione possa passare attraverso quelle mura, sembra improbabile, è più facile che invece incattivisca ulteriormente) troverà un caldo raggio di sole nell'amore verso un ragazzo con altrettante problematiche. Non a caso il film (un film decisamente coriaceo ma realistico e ben interpretato), non è altro che il desiderio d'amore di una adolescente e della forza che trova nel manifestare la propria dolcezza contro un destino apparso, fin da subito, tristemente segnato. Il film però proprio per questo ha una cifra non nuova e ben riconoscibile (che non sempre basta), tra la durezza del documentario in presa diretta, la denuncia sociale e le emozioni del melò, mutuato da altri prodotti del genere, ma è condotto in maniera credibile e sfrutta al meglio le discreti doti della protagonista. Perché sì, non sempre la sceneggiatura è strutturata in maniera perfetta (colpa di molti cliché carcerari e di improbabili coincidenze e circostanze) ma ci sono indubbi elementi di forza a sostenere la baracca.

Non solo per una delle canzoni della colonna sonora, che è la Maledetta Primavera reinterpretata da Greta Manuzi, ma perché di sdolcinato c'è davvero poco e per larga parte del film si rimane affascinati dalla verve e dall'energia della protagonista, minuta ma esplosiva allo stesso tempo, con uno sguardo davvero magnetico. Da sola infatti Daphne Scoccia innalza il livello della pellicola che in ogni caso più che un film di denuncia sui riformatori o sulla vita carceraria è soprattutto un inno alla libertà, alla voglia irrinunciabile di vivere un amore e una speranza. In questo Valerio Mastandrea, per una volta in un ruolo secondario (con cui però ha vinto un David di Donatello), viaggia con il pilota automatico nella parte di padre non certo irreprensibile, che prova a ricominciare daccapo e lascia spazio alla coppia di protagonisti, entrambi alle prime armi, ma opposti nel risultato delle loro performance, se straordinaria è Lei, lo sfortunato Josciua Algeri invece, scomparso in circostanze tragiche, a causa di un incidente, è decisamente impacciato nella parte. Tuttavia è pur sempre artefice di un discreto prodotto italiano che con un pizzico di attenzione in più verso i dettagli (come una seconda parte fin troppo positiva, altamente lontana dalla sordida realtà mostrata, che lo avvicina più a certi film del filone sentimental-giovanilistico del quale non si sentiva il bisogno) e il montaggio, sarebbe potuto diventare un cult. Giacché il film, che chiude sui ragazzi insieme in fuga, incoscientemente felici, senza esplorare quel che sarà poi (cosa già vista in altre pellicole) lascia la sensazione (anche se esso lascia comunque allo spettatore la possibilità di sperare o disperare, seppur con la sensazione confortante che la forza dell'amore ha liberato Daphne, almeno per un breve momento) di non aver goduto fino in fondo il messaggio del regista restando in sospeso per mancanza dell'ultimo battito di ali. In ogni caso film da vedere ed ammirare. Voto: 6,5