lunedì 30 settembre 2019

Metti la nonna in freezer (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/09/2019 Qui
Tema e genere: Sullo sfondo della crisi economica e culturale, Metti la nonna in freezer parte da un problema che riguarda molti giovani di oggi, la precarietà, e crea una vivace commedia in cui si intersecano equivoci, inganni, bugie e una nota di romanticismo.
Trama: Mantenersi solo grazie alla pensione della nonna. Ma cosa fare quando questa muore? L'unica soluzione è congelarla per continuare a riscuotere i soldi.
Recensione: Cosa può fare una persona se aspetta dei pagamenti dallo Stato e questi non arrivano mai per qualche cavillo legale? Cerca delle alternative per la propria sussistenza. Ed è quello che succede alla protagonista (Miriam Leone) della commedia Metti la nonna in freezer che da anni svolge la propria attività di restauratrice insieme a due amiche grazie proprio all'aiuto economico dell'amata nonna. Quando però quest'ultima muore, la giovane donna decide con la complicità delle due amiche/colleghe, di non denunciare per qualche mese il decesso dell'anziana parente (della quale occulta il corpo dentro un grosso freezer in casa) e di continuarne così ad usufruire della pensione. Ma in seguito a svariati imprevisti tale imbroglio si protrae nel tempo e nel frattempo la donna conosce ed intreccia una relazione con un incorruttibile maresciallo della Guardia di Finanza (Fabio De Luigi) a cui, ovviamente, deve nascondere il proprio misfatto. Metti la nonna in freezer è una commedia senza alcun dubbio irreale e paradossale in molteplici situazioni, ma in ogni caso essa risulta (nonostante lo spunto iniziale possa risultare un po' estremo e macabro) divertente e garbata nella sua atmosfera generale. Gli attori, da Fabio De Luigi a Miriam Leone, da Lucia Ocone a Marina Rocco (c'è anche Barbara Bouchet), sono molto simpatici e pertanto piacevoli da seguire nelle loro azioni ed avventure strampalate. A tratti irriverente e in alcuni frangenti un po' troppo sopra le righe, il film non a caso (una black comedy in salsa italiana, costruita con successo intorno al cast) arriva a strizzare l'occhio al famoso film Weekend con il morto del 1989, trasportando le situazioni nel contesto italiano contemporaneo. Il finale, infatti, ribalta le premesse iniziali portando ad una conclusione non perfettamente in linea con la prima parte, incentrata sulle attitudini di alcuni personaggi. Sono le scelte che facciamo a formare un carattere o è la situazione attuale ad obbligarci a compiere determinate azioni che si ripercuotono su chi siamo? Sono due delle domande che i protagonisti si pongono fino alla fine. Fino a quando si può essere incorruttibili? Sì perché la leggerezza di Metti la nonna in freezer (data dalle scelte di regia e tecnica, tali da non farci sentire nemmeno troppo in colpa per aver abbandonato la povera nonna in un freezer, anzi, si finisce per ridere delle peripezie che, suo malgrado, è costretta a vivere) non nega spazi d'approfondimento, seppur superficiale, anche ad altre tematiche, in primis quella del difficile rapporto genitoriale. Tuttavia, la recitazione non cede mai il passo a momenti di vera introspezione e, anzi, forse proprio in una recitazione non sempre convincente si riscontrano le uniche pecche del film. E poi certo, la "deriva" romantica della storia è sicuramente la parte più prevedibile e debole, ma nonostante questo ci sono scene ben scritte e recitate. E così Metti la nonna in freezer (che con i suoi piccoli difetti è però un lavoro valido che sulla scia del primo Smetto quando voglio getta uno sguardo non proprio confortante su certi aspetti del nostro paese) soddisfa nel complesso le aspettative iniziali, proponendo allo spettatore una commedia dal gusto fresco e velatamente dolce amaro, con situazioni ironiche e spensierate in grado di divertire e intrattenere. A suon di battute e gag esilaranti, il duo registico Fontana-Stasi in tal modo, supera brillantemente la loro (d'esordio, la seconda dal mio punto di vista) prova.

Ella & John - The Leisure Seeker (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/09/2019 Qui
Tema e genere: Adattamento cinematografico del romanzo del 2009 In viaggio contromano (The Leisure Seeker), scritto da Michael Zadoorian.
Trama: Ella e John sono due coniugi, anziani e non troppo in salute, che scappano dai figli e partono in camper per un viaggio sorprendente.
Recensione: Il cinema della terza età ormai è diventato un genere a sé, visti i tanti esempi che ultimamente, e non solo, imperversano nei cinema. E anche Paolo Virzì, per il suo debutto all'inglese, sceglie di trattare l'argomento con un adattamento di un romanzo on the road. E quello che ne viene fuori (nonostante il tema sfruttatissimo e anche se il regista va sul sicuro affidandosi a due mostri sacri, Helen Mirren e Donald Sutherland, e anche se lo stesso di suo pugno mette poco e niente) è un buon film, garbato e diretto, capace di intrattenere bene e coinvolgere con un apprezzabile mix di malinconia e leggerezza. Il film infatti, è una divertente e dolce pellicola che racconta, tra commozione e risate, una grande storia d'amore. Quella di due giovani anziani malati, lei di cancro in fase terminale, lui devastato dalla demenza, in quello che può essere il loro ultimo scorcio di vita. Un ultimo viaggio insieme con la semplice compagnia di loro stessi, in un contesto dove non c'è più tutta la vita davanti, bensì uno sguardo al passato di cinquant'anni di matrimonio. E così Ella & John è, a modo suo, un inno all'amore, a quella che è stata una vita piena, con alti e bassi, complicata e felice allo stesso modo, fino all'ultimo respiro. E così Ella & John, un road movie rivisitato e con protagonisti due personaggi insoliti, ma estremamente carismatici, una pellicola che tocca con delicatezza temi importanti, mescolando dramma e commedia, forse riuscendo a coinvolgere anche lo spettatore più cinico, conquista il cuore dello spettatore che spera fino ai titoli di coda in un happy ending, che ci sarà e non ci sarà, ma che appunto conquisterà. Certo, in certi momenti la storia soffre di rallentamenti nel ritmo, fortunatamente però non scade mai di tono poiché i due colossi protagonisti riescono a rimettere tutto in carreggiata, offrendo momenti delicati, drammatici e divertenti allo stesso tempo, mostrando tutta l'abilità di cui sono capaci. Certo, complessivamente il film sconta l'apparente intenzione di Paolo Virzì di semplificarsi la vita, giacché tutto è comunque prevedibile in questa sua ultima fatica: il genere, come detto, la storia di facile presa, persino la colonna sonora, che ripropone classici scontati, e gli sceneggiatori, pur bravi, arrancano per riempire i 112 minuti della pellicola, inserendo episodi talora gratuiti o incappando, in qualche caduta nel patetico, ma nel complesso, tra premesse autoriali e cinema per famiglie, un buon equilibrio ed una buona riuscita.

Upgrade (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/09/2019 Qui
Tema e genere: Thriller fantascientifico prevalentemente d'azione il cui motore iniziale è la vendetta del protagonista, per poi prendere inoltre, anche altre strade.
Trama: In un mondo ipertecnologico, un uomo rimasto paralizzato dopo un agguato criminale cerca vendetta per la moglie uccisa. E quando un tecnologo miliardario gli offre la possibilità di sottoporsi a una cura sperimentale in grado di curarlo, incurante però dei rischi, non ci penserà due volte.
Recensione: Nel filone fantascientifico che indaga robotica e I.A. in cui tutto sembra essere stato detto, questo film di Leigh Whannell (prodotto dalla Blumhouse di Jason Blum) si batte per stare a galla e ci riesce, riequilibrando strutture già sperimentate e rinfrescandole, senza strafare, nei limiti delle proprie possibilità, grazie ad una serie di elementi notevoli nel reparto tecnico registico e in quello narrativo. Il topos uomo versus macchina e la relativa, sterminata filmografia anni '80 e '90 stanno alla base dell'architettura del film, che ne rimastica abilmente gli ingredienti potenziando il fronte psicologico ed esistenziale. Al classico schema della macchina che si fa uomo migliorandone le capacità si aggiunge infatti la forte pervasività psicologica dell'apparecchio, che si sente dialogare con il protagonista: egli è pienamente al comando delle sue facoltà, ma inevitabilmente diviso in una sorta di doppio io, con il quale pare collaborare e che non va per il sottile quando si tratta di affrontare i cattivoni. Componente predominante della seconda parte è infatti la lotta corpo a corpo (una lotta di cui stile di combattimento riporta alla mente quello di Matrix), tradotta con una regia innovativa che blocca la macchina da presa sul protagonista e ne ripete in modo robotico e volutamente straniante gli esatti movimenti, questi espedienti di forma vivacizzano scontri e dialoghi piuttosto convenzionali, che si fanno invece interessanti soprattutto quando l'io si pone degli scrupoli tutti umani sulle proprie azioni, domandandosi infine chi sia davvero al comando della propria realtà. Un'ironia piuttosto equilibrata svolge il duplice compito di alleggerire i toni e sviare lo spettatore, nell'intenzione più generale di allontanare la trama da implicazioni filosofiche che restano in agguato, ma che il film non è in grado di sostenere. Al conflitto interiore e mai banale sulle responsabilità delle proprie scelte si affianca invece una violenza splatter con la quale il regista sembra divertirsi molto, e che talvolta ricorda le sue passate incursioni nel cinema horror (suo il dimenticabile Insidious 3 - L'inizio). Anche il finale è all'insegna di un già visto perfettamente rimodulato, addirittura capace di assestare un riuscito colpo di scena dai risvolti fatalisti e inquietanti per un futuro (il nostro) nel quale presto dovremo domandarci in quale realtà preferiamo davvero vivere. Upgrade è dunque un film che merita senza dubbio la visione, tra il distopico, l'horror e lo sci-fi, con una storia non particolarmente originale, ma uno svolgimento degli eventi avvincente ed intrigante e un finale da lasciare a bocca aperta.

Aquarius (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/09/2019 Qui
Tema e genere: Un film drammatico che è un vero e proprio inno alla libertà (non a caso incentrato sulla memoria del corpo e sulla costante resistenza al proprio annientamento), alla totale assenza di catene prima ancora che un film sull'(in)giustizia.
Trama: Una vedova indipendente si rifiuta di vendere il suo appartamento, ultimo abitato di un vecchio condominio su una bellissima spiaggia, che un impresa di costruzioni intende demolire per costruire un nuovo edificio.
Recensione: Un film, Aquarius, del regista, produttore, sceneggiatore e critico cinematografico Kleber Mendonça Filho, presentato in concorso a Cannes 2016, in forma di donna: donna Clara, impersonata da una brava e ancora bella Sonia Braga (celebre attrice brasiliana, Dona Flor e i suoi due maritiIl bacio della donna ragnoMilagro). La storia (le cui premesse vengono gettate attraverso un lungo e malinconico flashback, costruito per fornire le informazioni di base necessarie a cogliere l'essenza della narrazione) è semplice e non nuova. In un Brasile delle grandi città, in questo caso Recife, la speculazione edilizia di fine anni '70 erode le ultime tracce della vecchia urbanistica, soprattutto lungo il mare, e costruisce palazzoni dove sorgevano piccoli condomini dall'aspetto ancora umano. E' il caso del condominio Aquarius abitato da Clara, l'ultima a resistere nel suo appartamento dopo che tutti gli altri hanno capitolato di fronte alle offerte allettanti di una potente immobiliare. Il film è la storia della strenua lotta di una donna sola contro un colosso, ma, anche se questo aspetto è rilevante, è soprattutto un percorso nel mondo interiore della protagonista. Clara è ormai nella sua terza età, i suoi tre figli hanno una loro vita, ma non soffre la solitudine: la sua casa l'avvolge e la sostiene con un carico affettuoso di consuetudini e di ricordi, legati al marito scomparso da tempo, a una zia amatissima che lì ha abitato, spirito libero e spregiudicato come lei, alla sua vittoria su un cancro, al mare che adora e che sfida con la veemenza di una ragazza, alla musica che ha riempito la sua vita emotiva e professionale e che trabocca ovunque, nei vecchi dischi, nel pianoforte, dalla radio. Di fronte al vero e proprio mobbing che le scatenano contro, di fronte alla stessa scarsa comprensione dei figli, Clara non si agita, non fa piazzate: la sua resistenza ferma e tranquilla nasce dalla sua forza interiore, da una costruzione energica e armoniosa di personalità, energica e armoniosa come la sua musica preferita, che le consente di elaborare e superare anche i peggiori momenti di crisi. Più che un film di lotta ambientalista è dunque un film in lode di una donna e come tale ha un suo perché e una sua grazia, a cui Sonia Braga offre il contributo della sua espressività e di una buona recitazione, ella infatti è straordinaria in questo tour de force in cui esibisce senza trucchi e senza inganni tutte le rughe del suo viso. E in questa mancanza di finzione è davvero bellissima. Quel che manca, nonostante il ruolo importante della musica nella trama, è un ritmo sostenuto: una regia piuttosto tradizionale e una certa lentezza, ridondanza e staticità penalizzano un'opera complessivamente gradevole. Un'opera comunque e sicuramente da vedere.

Come ti divento bella (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/09/2019 Qui
Tema e genere: Una commedia all'insegna dei buoni sentimenti nonché portatrice di un messaggio positivo, credere in sé stessi.
Trama: Da sempre introversa e insicura del proprio aspetto fisico, Renée (Amy Schumer) si risveglia dopo una caduta convinta di essere sexy, spiritosa e irresistibile. Per magia la sua vita cambia completamente e si trasforma in quella che aveva sempre sognato: una donna sicura di sé e di grande successo a New York. Ma cosa accadrà quando si renderà conto che il suo aspetto fisico in realtà non è mai cambiato?
Recensione: Non conta la bellezza esteriore, ma quella interiore. Quante volte ce lo hanno detto e quante altre ce lo siamo ripetuto? Innumerevoli. Come ti divento bella parte da questo concetto trito e ritrito che spesso stona con la realtà perché è innegabile che una buona dose di bellezza aiuti e ci ricorda che bisogna credere in se stessi per riuscire nella vita. Pur basandosi su questo assunto piuttosto banale e scontato il film di Abby Kohn e Marc Silverstein si rivela però, al contrario delle aspettative iniziali, divertente, originale e ricco di una sua profondità. La storia è semplice, come la sua tesi di partenza, ma io l'ho trovato (sorprendentemente) piacevole, piacevole quanto basta per una visione serale senza impegno, riesce a strappare qualche risata e Amy Schumer (finalmente) se la cava piuttosto bene. Perché sì, è una nuova Bridget Jones quella che i due sceneggiatori (La verità è che non gli piaci abbastanzaAppuntamento con l'amoreSingle ma non troppo, quest'ultimo però scarso) al loro debutto alla regia portano sul grande schermo, e anche una commedia dai buoni sentimenti, esattamente come Tootsie o Big al quale il film si ispira esplicitamente (dopo averlo visto la protagonista si reca al parco più vicino, lancia una monetina e prega di diventare bellissima come il giovane Josh esprimeva il desiderio di diventare grande, ma non è il solito filmetto cretino e superficiale e non è poco. Nella sua semplicità, senza tanti fronzoli, e con il suo immancabile happy end Come ti divento bella porta difatti ironicamente sullo schermo un problema più che mai attuale nella nostra società basata sempre più sull'immagine (d'altronde la foto del profilo è tutto quello che conta dice la protagonista), e ci ricorda che il potere della mente è miracoloso tanto da far per esempio sentire belle le donne come, e anche più, di Naomi Campbell (che ha qui un cameo) o Emily Ratajkowski (qui nei panni di una top model che frequenta la sua stessa palestra). Morale: noi siamo come noi ci vediamo, e la ciccia può essere molto più sexy di una bella che non balla, l'importante, come dice la protagonista, è "ballare". A sorpresa quindi la pellicola riesce a strappare la sufficienza, perché sì, è un ibrido tra Big e Amore a prima svista, un soggetto stravisto al cinema e rimescolato in varie salse ma che alla fine funziona quasi sempre, ovviamente gli immancabili moralismi e critiche sull'autostima e i modelli imposti dalla società piovono da ogni lato ma non inficiano troppo sul risultato finale.

Hell Fest (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/09/2019 Qui
Tema e genere: Horror slasher del 2018 diretto da Gregory Plotkin, al debutto da regista.
Trama: Il film segue un gruppo di adolescenti che viene inseguito da un serial killer, all'interno di un parco a tema horror.
Recensione: Dopo che il filone è stato destrutturato (Scream), preso in giro (Scary Movie), rifondato, omaggiato (The Strangers: Prey at Night) ed è diventato oggetto di riflessione (Quella casa nel bosco) e originali tentativi di fusione con altri generi (Auguri per la tua morte), Hell Fest torna all'essenza dello slasher: prende un gruppo di ragazzi stupidi e sufficientemente incoscienti, li immerge in un luogo inospitale e li fa trucidare da un assassino misterioso armato di coltellaccio. Tutto qui, niente di innovativo, niente di trascendentale. Eppure che fascino, che tensione, che fantastica ambientazione. Il fascino di questa trama (semplice) è certamente il sadismo dell'Altro (termine con cui il regista denomina il killer) e le situazioni di ambiguità che genera: tutti sono all'Hell Fest per vivere la paura e sprofondare nel terrore, sicuri però di essere al sicuro, perché tutto in fondo è solo una magnifica finzione. Perciò anche il pericolo reale viene vissuto come parte del gioco e confuso con una recita in maschera, che presto si rivelerà fatale e atroce. Cosa c'è di più agghiacciante che assistere a un omicidio credendolo una farsa? L'idea di mantenere anonima l'identità dell'Altro è efficace e porta con sé un orizzonte di senso inquietante: chiunque potrebbe essere l'assassino. Ma la forza di Hell Fest sta tutta nella location, un parco dei divertimenti notturno, coloratissimo e inventivo nel riprodurre scenari da horror ricostruiti con cartapesta e protesi da supermercato, che richiama alla mente Il tunnel dell'orrore (1981) di Tobe Hooper, e che riesce a sopperire ad una reiterazione narrativa consistente nel seguire i protagonisti all'interno delle varie escape room. Questo perché Hell Fest fa proprie le atmosfere horror degli anni '80, soprattutto grazie alla regia e all'ottimo montaggio di Gregory Plotkin, un grande professionista del genere: regista di Paranormal Activity 5 e montatore degli altri film della saga, di Scappa - Get Out e Auguri per la tua morte. Egli porta avanti una preferenza per scene tipicamente splatter, non tanto consuete oggigiorno negli horror mainstream, e il gusto per il truculento è ampiamente presente in Hell Fest, anche se comunque non eccessivamente per gli habitué del genere. A livello stilistico è inoltre molto affascinante il gioco di luci, contrasti e colori psichedelici, che vanno dal rosso al viola, dal verde al blu, investendo tutte le realtà cromatiche di una certa intensità. E' insomma un riuscito esempio di horror teso e visionario, molto ben curato nell'impianto scenografico, che dà giusta misura del talento di Gregory Plotkin, regista che probabilmente saprà riservare in futuro piacevoli sorprese, un horror che è anche un contenitore di tutti gli ingredienti della suddetta cinematografia, come perturbanti bambole, clown angoscianti, spettri e serial killer, un horror che non colpisce con forza lo spettatore, come Hereditary per esempio, forse anche a causa della scelta di un cast con cui non sempre l'immedesimazione è immediata, ma che riesce a farsi ricordare. Perché questo è un film molto curato nell'evoluzione della suspense e in molte scene di forte impatto, davvero interessante, nonché il perfetto film da guardare nella notte di Halloween (e tutti gli altri giorni).

Sei ancora qui (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/09/2019 Qui
Tema e genere: Film di fantascienza del 2018 tratto dal romanzo di Daniel Waters Break My Heart 1,000 Times e diretto da Scott Speer, che vede come protagonista Bella Thorne nel ruolo della sedicenne Veronica.
Trama: Un evento catastrofico e paranormale ha fatto sì che i fantasmi delle persone morte in una catastrofe continuino ad abitare il mondo reale, seppur in forma ectoplasmatica. Dopo anni di tranquilla convivenza con i vivi, un fantasma invia un messaggio minaccioso a una giovane ragazza, costringendola a una missione che cambierà per sempre il corso della sua vita.
Recensione: Prendete la serie tv Les revenants, mescolatela con Le verità nascoste di Robert Zemeckis, aggiungete un paio di plot twist "alla Shyamalan", affidate il ruolo principale a una star emergente e servite il tutto in una patinata confezione young adult. Come avrete già intuito, Sei ancora qui (I Still See You), thriller soprannaturale tratto dall'omonimo romanzo di Daniel Waters, non brilla certo per (troppa) originalità: troppi sono i debiti che la sceneggiatura ha nei confronti delle sopracitate opere e anche la storia spesso finisce per barare con le regole (sul ruolo, del perché e come dei redivivi) che lei stessa si da. Nonostante questi difetti, però, il risultato finale è un thriller di buona fattura, in grado di tenere alta l'attenzione dello spettatore fino alla fine e capace pure di infilare qua e là qualche riflessione non banale sui legami familiari e sul senso della perdita delle persone care. Il finale aperto, poi, lascia anche uno spiraglio per un possibile sequel (che tuttavia non servirebbe). Infatti, in quello che si presenta come un thriller, che assume le tinte di un giallo intrigante (ricco di flashback) che strizza l'occhio all'horror, Scott Speer si dimostra capace di creare suspense (l'elemento thriller è ben strutturato, aiutato appunto da buoni momenti di tensione che possono portare tranquillamente al Jumpscare), con una regia cupa quanto basta, per alimentare mistero e aspettative, una fotografia impeccabile e un'appropriata selezione musicale. Al netto degli effetti speciali, l'opera è tuttavia leggermente carente dal punto di vista della sceneggiatura: la storia d'amore tra i protagonisti appare forzata e scontata, inoltre il rapporto fra Ronnie e la madre non viene sufficientemente approfondito. Tali mancanze vengono supplite, parzialmente, dall'interpretazione dei singoli. Bella Thorne si conferma attrice oltre che bella anche volenterosa, convincente abbastanza Dermot Mulroney. E quindi nel complesso, al netto di alcune sbavature, Sei ancora qui è un bel calderone, da vedere e non sottovalutare.

venerdì 27 settembre 2019

A casa tutti bene (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 27/09/2019 Qui
Tema e genereGabriele Muccino racconta ancora una volta la famiglia disfunzionale in A casa tutti bene, coadiuvato da un cast stellare che finisce però per essere l'unica cosa interessante del film, di questa commedia agrodolce.
Trama: Il pranzo per i 50 anni di matrimonio di una coppia raduna a Ischia una numerosa famiglia. Rimarranno tutti bloccati per giorni a causa del maltempo, e saranno problemi per tutti. Ognuno si troverà difatti a fare i conti con la propria personale situazione, sentimentale, familiare o professionale.
Recensione: Dopo anni ed anni dal suo (fortunato) sbarco in America, Gabriele Muccino torna a dirigere un film in Italia, con un cast che raccoglie il meglio del cinema italiano, ci sono quasi tutti (basta vedere la locandina). Un film però su di una famiglia disfunzionale, l'ennesima. Questo è infatti il tema del film, che affronta ancora una volta insoddisfazioni, bugie e beghe familiari. Sì perché il regista romano parte dall'idea inflazionata ma sempre intrigante di sfruttare una riunione di famiglia per descrivere tipologie umane e come esse si compongono in un quadro più generale, lo fa purtroppo però puntando troppo su soluzioni facili e luoghi comuni. Le scene abbondano di pianti, strepiti e concitazione, richiamando alla mente format televisivi piuttosto fastidiosi ma di vasto seguito. In questo modo la drammatizzazione inevitabilmente si appiattisce e fatica ad oltrepassare la superficie dello stereotipo di genere. E' ovvio che se nelle riunioni famigliari tutto andasse liscio non avrebbe senso farci su un film, come insegna il Vintenberg di Festen ma anche il Monicelli di Parenti Serpenti. Ma non basta evidentemente puntare sul ritmo e sull'emotività per realizzare un buon film, anche se hai in squadra attori di spessore (e anche alcune new entry interessanti, una, Elena Cucci), anche perché stereotipi e banalità si rintracciano pure nella stesura dei personaggi e delle dinamiche. Giacché è questo un film di Muccino all'ennesima potenza che sembra mostrare i ragazzi de L'ultimo bacio ormai cresciuti, ma impantanati in personaggi numericamente eccessivi per essere approfonditi ed apprezzati. Un film corale in cui si fatica un po' a seguire le vicende personali di ogni coppia, troppo caciarone e avvolto in un tourbillon di eventi repentini che un po' stordisce lo spettatore. Tutto da buttare quindi in A casa tutti bene? Quasi. Sono soltanto pochissimi infatti i momenti in cui si intravede brillare qualche luce sotto la coltre di difetti. A volte si ha la sensazione che il regista riesca a dare la sensazione della coralità di voci che sta rappresentando, sulla scia del meglio del cinema nostrano, e altrove che in qualche misura colga la poesia dell'amore, ma si tratta solo di qualche inquadratura, veramente troppo poco. Perché nel complesso il suo tentativo di raccontare vizi e virtù dei vari componenti della famiglia, facendogli gettare la maschera sul loro ego e la loro voglia di essere migliori di ciò che sono, riesce solo a metà. L'argomento non viene indagato e la sceneggiatura non mette nessuno in discussione né permette di scoprire l'animo umano. Resta un pretesto che, grazie alla bravura degli attori, si regge in piedi. Per raccontare una tragedia si dovrebbe partire dalla commedia, invece qui si inscena il melodramma. Le risate sono contenutissime e i pianti e la disperazione degli attori (comunque tutti ottimi) sono estremi (soprattutto quelli di alcune troppo isteriche), cercando la commozione facile con note musicali e col montaggio ad hoc. Si può fare meglio.

Lo schiaccianoci e i quattro regni (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 27/09/2019 Qui
Tema e genere: Adattamento cinematografico del racconto Schiaccianoci e il re dei topi di E. T. A. Hoffmann e del balletto Lo schiaccianoci di Pëtr Il'ič Čajkovskij.
Trama: Una ragazzina in crisi per la morte della madre si trova a vivere un'avventura mirabolante in un mondo di fantasia, dove i giocattoli prendono vita.
Recensione: L'effetto Alice attraverso lo specchio (in senso narrativo e non solo di riuscita complessiva) era dietro l'angolo e, infatti, Lo Schiaccianoci e i Quattro Regni (che in termini di ispirazione tuttavia prende anche da Narnia) ci è caduto con tutte le scarpe. Diretto da Lasse Hallström (e per trentadue giorni di riprese aggiuntive da Joe Johnson) l'ennesimo maestoso film della Disney si rivela essenzialmente come uno dei giocattoli di cui parla: eccepibile nella sua forma estetica, ma vuoto se si va a scrutarne l'interno. Con una consequenzialità che si rincorre veloce nel racconto, dove gli eventi accadono con una fluidità che però non sembra giovare alla narrazione, rendendola soltanto più fanfarona, Lo Schiaccianoci e i Quattro Regni presenta un problema già nel proprio titolo, in contrasto con la realtà della propria storia. Non c'è schiaccianoci dentro questo film. O meglio c'è, ma la sceneggiatura va concentrandosi principalmente sulla figura di Clara, riducendo la pellicola ad una sola elaborazione del lutto e della presa di coscienza, escludendo tutte le dinamiche tra la protagonista e il suo compare che rendono veramente intrigante la storia de Lo schiaccianociMackenzie Foy non aiuta poi a supportare questa decisione del racconto. La giovane attrice statunitense non sa tenere sulle proprie spalle il fatto di dover vestire i panni del personaggio principale, riservando una recitazione che mostra dell'incapacità, partendo fin proprio dalle espressioni del voto. Non è però l'unica a dover rivedere il proprio operato all'interno del film. Una Keira Knightley nelle vesti violette di Fata Confetto dà, probabilmente, la sua peggior interpretazione, fatta soltanto di faccette da macchietta che sembrano oscurare la bravura che solitamente la contraddistingue. Sarà per una libertà troppo fantasiosa del film (questa è infatti una versione molto libera, cioè molto diversa, dal racconto Lo Schiaccianoci e il Re dei Topi di Ernst Hoffmann del 1816 e dalla versione successiva, e meno "horror", di Alexandre Dumas da cui fu tratto il celebre balletto con le musiche di Tchaikovsky, del racconto originario il film mantiene l'ambientazione natalizia e poco altro), sarà per una direzione incorretta degli attori, ma Lo Schiaccianoci e i Quattro Regni sembra andar peggiorando di man in mano più si procede verso la fine, dove forse l'unica possibilità di riscatto è possibile trovarla nei costumi e nella scenografia. Se si fosse scelto di silenziare il film, Lo Schiaccianoci e i Quattro Regni avrebbe sicuramente rimediato in meraviglia. Risulta infatti irresistibile il designer delle scene e l'arredo che brilla e fa brillare gli ambienti in cui vengono introdotti i personaggi, i quali indossano alcuni tra gli abiti più sfarzosi e minuziosamente elaborati che il cinema abbia visto in questi anni. Uno stupore suscitato dall'incanto per la superficie che non trova riscontro con la sostanza, che può consolarsi visto il suo risplendere in costumi "da favola". Una notte di Natale senza un vero e proprio dono, solo un grande meccanismo cinematografico che stavolta non ha saputo trovare la forza di splendere, se non solo esternamente.

A-X-L: Un'amicizia extraordinaria (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 27/09/2019 Qui
Tema e genere: Sullo sfondo dei classici film per famiglie degli anni '80, un'avventura fantascientifica dal taglio teen.
Trama: Miles è uno sfortunato ciclista adolescente che si imbatte in un cane robot, addestrato per scopi militari, di nome AXL. Dotato di grande intelligenza artificiale e di buon cuore, AXL in breve forma un intenso legame con Miles, con grande disappunto degli scienziati militari che farebbero qualsiasi cosa per riaverlo indietro. Sapendo quale sia la posta in gioco nel caso in cui AXL venga catturato, Miles si allea con Sara, la ragazza per cui ha una cotta, per proteggere il suo nuovo miglior amico.
Recensione: Non una cattiva idea ma eccessivamente "fredda" questa pellicola, anche per via di attori assai mediocri e di una trama che riporta subito alla mente cult d'altri tempi (da "Corto circuito" a "Robocop" o "Wall-E"). Il film infatti, opera prima di Oliver Daly, sembra prendere a piene mani dai classici film uomo-animale selvaggio e dalle fortunate operazioni per famiglie degli anni '80, solo che lo fa nel modo più sbagliato possibile. La patina da sci-fi non nasconde difatti la banalità di questa forse evitabile (a tratti noiosa e sicuramente facilmente dimenticabile) operazione. Un'operazione schiacciata da uno script che si concentra tanto sul restituire (o forzare) un'emozione allo spettatore, da dimenticarsi completamente di approfondire aspetti vitali. Non basta mostrare un cane e un ragazzo che giocano sorridendo e divertendosi o un filmato sintetico per raccontare qualcosa in più sulla vicenda. Un film del genere avrebbe meritato sicuramente maggior sviluppo e approfondimento, quantomeno per regalare qualcosa che rimanga allo spettatore a visione ultimata. Non è un caso che non venga sollevata nessuna domanda sul dilemma etico dell'esistenza di questa bestia tecnologica, che esiste sempre e solo per mettere in scena la stucchevole morale alla base del film, di un film ulteriormente appesantito dall'incursione militare finale praticamente senza "gusto". Insomma in questo Real Steel un po' sfigato e con gli animali non c'è, niente di originale e soprattutto niente di interessante, niente che riesce a suscitare un qualche minimo sense of wonder in ciò che stiamo vedendo, in ciò che la storia ci sta raccontando o nelle azioni che questi personaggi devono compiere nel corso della loro avventura per raggiungere i propri obiettivi. Quel che manca è la personalità necessaria a fare breccia nel cuore dello spettatore, al quale non importa niente né del cane, né del suo amico umano, né tanto meno di un evitabile sequel con il quale il tremendo finale sembra volerci minacciare. Certo, complessivamente è un prodotto ludico che intrattiene senza troppi sforzi, sostenuto da un ritmo discreto e qualche presenza femminile niente male, troppo poco però per ambire alla sufficienza.

Morto tra una settimana (o ti ridiamo i soldi) (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 27/09/2019 Qui
Tema e genere: Una commedia noir dai toni delicati con l'attore britannico Tom Wilkinson nel ruolo bizzarro e simpatico di un killer professionista prossimo alla pensione.
Trama: Un giovane aspirante suicida, non riuscendo a farla finita, assolda un killer professionista. Ma quando la sua vita ha una svolta positiva, cerca invano di annullare il contratto.
Recensione: Classica commedia britannica nera, diretta dall'esordiente Tom Edmunds, che si rifà a una gloriosa tradizione, Morto tra una settimana (o ti ridiamo i soldi) attinge anche alla contemporanea moda dell'umorismo scorretto e del cinismo allegro. Lo spunto non è originalissimo, già altre volte il cinema ha raccontato storie simili: qui si punta sull'interazione tra il candore del giovane Aneurin Barnard e la sagacia di un attore di classe come Tom Wilkinson, sulla bellezza e presenza di spirito della ragazza interpretata da Freya Mavor, o sui duetti tra i due coniugi (Tom Wilkinson e Marion Bailey, attrice molto divertente nonché moglie del regista Mike Leigh). La commedia nera esaurisce nella prima parte gli spunti migliori, ma molte battute e situazioni sono divertenti solo sulla carta (la cooperativa del sindacato assassini). Ovviamente chi non ama l'umorismo macabro se ne tenga alla larga (a un certo punto il perfetto killer inizia a infilare una serie di errori via l'altro, uccidendo persone sbagliate). Peraltro la seconda parte, con il capo del killer (il solitamente bravo Christopher Eccleston, qui un po' troppo sopra le righe) e i nuovi assassini dell'Est che dovrebbero togliere il lavoro a Leslie smorza il ritmo e il divertimento anche per i meglio intenzionati (pur aumentando il livello di cinismo, con battute su tutto e tutti, fra cui sul buon Michael J. Fox). Tutto diventa un po' contorto, le divagazioni allungano il brodo (pur di un film tutt'altro che lungo). E il finale lascia anche l'amaro in bocca e toglie quel poco di divertimento che il film aveva seminato inizialmente. Va bene scherzare su tutto, ma l'epilogo difficilmente garantirà un buon ricordo a un film più promettente che apprezzabile, per quanto ben realizzato e ottimamente interpretato dagli attori principali. L'intento del regista era sicuramente di costruire un'opera noir alla fratelli Coen o evocare l'atipico e bello In Bruges - La coscienza dell'assassino (2008), ma l'eccessiva semplicità nell'approccio alla trama non ha aiutato. A tratti ricorda il veramente dark e dalle atmosfere fredde e umoristiche In ordine di sparizione (2014), ma non ne eguaglia la portata tematica, né la forza registica, rintanandosi in un'opera prima godibile ma prettamente scolastica.

Miss Bala - Sola contro tutti (2019)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 27/09/2019 Qui
Tema e genere: Basato sull'omonimo crime action messicano del 2011, segue le vicende di una donna che a seguito del rapimento di una sua amica sarà costretta a lavorare per un boss criminale.
Trama: Gloria scopre un potere che non sapeva di avere quando viene trascinata suo malgrado nel pericoloso mondo della criminalità oltreconfine. Sopravvivere richiederà tutta la sua astuzia, inventiva e forza.
Recensione: Decisamente poche sono le parole da spendere per questo film, che da dire e da far vedere in effetti ha ben poco. Il film infatti non solo racconta cose già viste, ma lo fa in modo sbagliato. Perché il film, a metà tra Miss Detective e un qualsiasi action spionistico, si rivela un pessimo prodotto. Eppure il film originale nel 2011 (che non penso e credo di aver visto) si guadagnò l'anteprima a Cannes e la prima selezione agli Oscar come rappresentativo del Messico, colpa di Hollywood quindi? In parte, anche perché è evidente che esso sia solo un prodotto commerciale realizzato su commissione, ma la colpa è anche della sua stessa struttura. Perché certo, a tratti è interessante, siamo in Messico e le cose narrate sembrano plausibili (soprattutto a Tijuana che è una delle città più pericolose), però l'azione è blanda, il ritmo quasi mai avvincente, e non credo sia colpa del nuovo, di corso. Da un punto di vista della caratterizzazione del personaggio, interpretato da Gina Rodriguez (che non è niente di che davvero, e in tutti i sensi), Miss Bala scoprirà una forza che ignorava di sé, tenendo testa al boss locale. Il film perciò gioca sugli stereotipi del genere con Miss Bala che, tradotto, significa letteralmente "Miss proiettile". Insomma, c'è una discreta retorica rappresentata, sbandierando slogan in forza al "girl power". Cosa che non sarebbe un problema, se non fosse che il film, diretto da Catherine Hardwicke, regista texana nota per aver lavorato dietro la cinepresa del primo Twilight (e questo già dice tutto), fa acqua da molte parti, non fa nessun effetto.

Bentornato Presidente (2019)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 27/09/2019 Qui
Tema e genere: Sequel della commedia Benvenuto Presidente! del 2013.
Trama: Dopo 8 anni di felice esilio in montagna, Peppino Garibaldi deve tornare a Roma per riprendersi la moglie. Si ritroverà non più al Quirinale, ma a Palazzo Chigi.
Recensione: Non avevo intenzione di vederlo, poi spinto da alcuni commenti ho voluto provare, ma era meglio se non l'avessi fatto, perché come previsto, da bocciare è questo film. Se già il primo film non era un granché ma almeno risultava passabile, questo secondo è una vera delusione. Il ritorno sulla scena politica per motivi sentimentali del fugace ex Presidente della Repubblica Giuseppe Garibaldi risulta solo una scusa per un instant movie che cerca molto bonariamente di sbeffeggiare l'attuale momento politico ed i suoi leaders, ma la presa in giro si dimostra talmente soft e telefonata da strappare solo qualche sorrisetto ogni tanto (l'unica fonte di vivacità sono infatti le non velate prese in giro alla classe politica attuale, alla lunga però si nota una certa ripetitività). Se poi ci aggiungiamo l'improbabile assurdità delle soluzioni politiche che il film suggerisce, secondo le quali il nostro incattivito popolo di anarchici individualisti ed egoisti si trasformerebbe in un batter d'occhio in un esempio di orgoglioso civismo per il mondo, vi rendete conto pure voi che proprio non ci siamo. Qualche scena azzeccata c'è, ma ce ne sono anche alcune imbarazzanti davvero improponibili. Claudio Bisio, con la professionalità costruita sui palchi teatrali di tutt'Italia, prova a tenere in piedi la baracca, ma non ci riesce, anche perché gli altri fanno poco. Sarah Felberbaum (che prende il ruolo che fu di Kasia Smutniak) è davvero una magnifica ragazza, ma è rigida e non è (ancora) una brava attrice. Pietro Sermonti si sta specializzando in ruoli da carognetta. Il resto del cast è macchiettistico al massimo e non ha modo di farsi apprezzare adeguatamente. Pellicola decisamente insufficiente.

Looking Glass (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 27/09/2019 Qui
Tema e genereNicolas Cage e Robin Tunney in un thriller voyeuristico.
Trama: In un motel nel deserto, una coppia scopre l'esistenza di una stanza segreta dove accadono torbidi e inaspettati eventi. Quando ci scappa anche il morto, l'arrivo di un fastidioso poliziotto mette sottosopra la vita di entrambi.
Recensione: Nonostante la presenza del mitico Nicolas Cage e della bella e in forma (nonostante una certa età) Robin TunneyLooking Glass non è un film che si potrebbe considerare della, tipica grande qualità. In primis è tutto strano, come strani sono i comportamenti dei protagonisti, quest'ultimi che lo sono per colpa della pessima sceneggiatura, tanto che difficilmente si attende il finale per capire chi è l'assassino (sfido chiunque a non capire chi sia il colpevole dopo i primi 60 minuti). Il thriller di Tim Hunter ci porta nella vita di una coppia sconvolta da un dramma, dal quale decide di allontanarsene e di voltare pagina acquistando un motel in un posto quasi totalmente disabitato, se non da pochi esseri guardinghi e sospettosi. Durante il film le scene spesso sono abitate da brevissimi flashback che rammentano ciò che è accaduto alla coppia e da cui si può dedurre che hanno perso la loro unica figlia. Ma il film non approfondisce mai la questione e non suggerisce cosa le sia accaduto: questa è una delle tante piccole pecche drammatiche del film, che ha il pessimo vizio di aprire infinite sotto-trame senza mai risolverle o concluderle. Looking Glass - Oltre lo specchio è simile al film di Drew Goddard 7 sconosciuti a El Royale per l'ambientazione e la scelta di usare l'idea dello specchio semiriflettente inserito in un motel (senza dimenticare una certa somiglianza anche con Vacancy), ma per il resto i due film sono totalmente agli antipodi. Il film è in parte un thriller voyeuristico, in parte un dramma coniugale, ma sfortunatamente, nessuno di questi elementi si fonde perfettamente con l'altro. La pellicola, nonostante un'interessante premessa che racchiude delle buone potenzialità, soprattutto alcune che lo collegano nelle prime scene alle atmosfere di Psycho, non si solleva minimamente dalla sua stasi, da un'inerzia narrativa che soffoca ogni scena e ogni intrigo, diventando una mera e pallida imitazione di un decadente spettacolo auto-indulgente. Looking Glass - Oltre lo specchio è un desueto B-movie noir, un film che possiede l'estetica di un low-budget di fine anni '80, al centro del quale non c'è un vero tema di base, non c'è un messaggio o un motivo per cui la maggior parte dei personaggi agisce o fa ciò che si vede nel film. La trama è divergente, confusionaria, cambia registro e direzione e invece di rendere interessante l'omicidio e creare tensione, offre solo la noia e la prevedibilità di un finale stanco e poco travolgente.

giovedì 26 settembre 2019

Ocean's 8 (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 26/09/2019 Qui
Tema e genere: Sequel e spin-off al femminile della trilogia Ocean's, l'heist movie per eccellenza.
Trama: Dopo cinque anni trascorsi in prigione, Debbie Ocean ha in mente il colpo più grande della sua vita: rubare una collana di diamanti dal valore di 150 milioni di dollari. Per riuscirci, mette in piedi una squadra di sole donne pronte a colpire durante una delle serate di gala più importanti di New York.
Recensione: Era un film atteso Ocean's 8 (non da me comunque), il film diretto da Gary Ross che voleva forse replicare il successo ed avere la stessa potenza della trilogia originale ma non ci riesce. Non solo perché la pellicola in sé non ha abbastanza forza stilistica da essere minimamente paragonabile all'originale (ha meno ritmo e più glamour), ma anche per la storia raccontata, che di avvincente non ha nulla (neanche di tanto divertente). Otto donne, tutte diverse tra loro, che devono rubare gioielli di valore inestimabile. Già il soggetto non gode di particolare originalità, se poi si pensa al modo in cui è stato orchestrato il piano e la sua esecuzione, ci rendiamo conto che il tutto si svolge in maniera troppo veloce. Sì, il piano è stato ideato da Debbie e messo a punto in quasi sei anni, ma allo spettatore viene mostrato poco come le protagoniste insieme si siano preparate per metterlo in pratica. Così come la realizzazione dello stesso, i cui dettagli vengono messi in luce solo successivamente, adottando la tecnica del flashback. Quello che manca per aderire completamente al genere è però un senso di suspense classico degli heist movie. Il colpo è talmente ben oliato che nulla ne turba lo svolgimento, grazie alla professionalità delle truffatrici, una buona dose di inverosimiglianza, e colpi di scena non del tutto imprevedibili, e decisamente esagerati. Ma tutto questo è secondario: quello che manca davvero è un antagonista. Insomma tutto è semplice e facile, anche troppo. Inoltre il lungometraggio viene in parte schiacciato anche dal dovere di essere una pellicola interpretata da donne e, per qualche strano motivo, in quanto tale obbligata a piacere prima di tutto alle spettatrici, trasformandosi in più punti un "fashion movie" alla Sex and the City dove gli outfit sfoggiati dalle attrici e dalle star/cameo distolgono l'attenzione da una narrazione già abbastanza fragile e sfilacciata. In Ocean's 8 ritroviamo alcuni interpreti del cast originale, mentre scopriamo che altri, molto probabilmente, non li vedremo più. È sempre bello, però, vedere su schermo dei rimandi a un qualcosa che il pubblico, per la maggior parte, ha amato, o comunque apprezzato molto. E probabilmente è proprio questo il punto forte della pellicola, insieme a una sceneggiatura diretta (ma non propriamente solida) e all'intenzione di rafforzare il concetto di solidarietà fra donne e i forti legami che si possono creare tra i loro. Ognuna di queste donne ha un'abilità specifica, ognuna contribuisce a rendere il piano perfetto, ognuna sa esattamente dove deve essere nel momento esatto in cui dovrebbe essere in quel posto.

mercoledì 25 settembre 2019

Van Gogh - Sulla soglia dell'eternità (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 24/09/2019 Qui
Tema e genere: Dramma biografico che racconta gli ultimi e tormentati anni di Vincent Van Gogh, dalla burrascosa amicizia con Paul Gauguin, fino al colpo di pistola che lo uccise a soli 37 anni.
Trama: Uno sguardo al periodo che Vincent Van Gogh ha passato nella regione di Arles tra il febbraio del 1888 e il maggio del 1889.
Recensione: Dopo decine di adattamenti e opere originali dedicategli (l'ultimo bellissimo Loving Vincent, troppo particolare, per tecnica ed inventiva, per essere dimenticato), arriva Julian Schnabel con il suo Van Gogh - Sulla soglia dell'eternità a parlare ancora una volta di Vincent Van Gogh. Presentato alla 75ma Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia, il film si focalizza sugli ultimi anni di vita dell'artista, tormentato da grosse difficoltà economiche e da una crisi esistenziale che lo ha portato al crollo delle sue condizioni psichiche e al ricovero presso l'ospedale psichiatrico di Saint Remy. Per parlare di un personaggio-simbolo della cultura occidentale su cui tutto sembra esser stato detto, il regista lavora per ellissi e sottrazioni, contestualizzando la figura tormentata di Vincent quasi esclusivamente attraverso la sua arte. Il film privilegia infatti la materia pittorica in quanto tale piuttosto che la componente biografica, scommettendo sulla composizione di immagini e paesaggi, sono i luoghi, i colori e i dipinti a parlare, ancor più del protagonista e del suo viaggio "sulla soglia dell'eternità", come recita il titolo della pellicola tratto da un suo dipinto. Schnabel conosce bene la materia che sta trattando (oltre che regista è lui stesso un pittore) e vuole omaggiare l'artista imitandone lo stile pittorico: colori saturi, scene di paesaggi sconfinati e inquadrature in soggettiva sembrano volerci calare nei panni dell'ultimo Van Gogh, solo e discriminato da quella società borghese che non lo ha mai del tutto compreso. Le immagini si susseguono dunque in una continua frizione tra la realtà interiorizzata dall'artista e una concretezza superficiale e immediata alla quale il suo genio non ha mai saputo adeguarsi. La sua sensibilità dolce e tormentata è tradotta dalle parole delle lettere realmente indirizzate ad amici e parenti, che qui fungono da voce narrante e guida attraverso gli stati d'animo del protagonista, più didascalici sono invece i dialoghi tra i personaggi, che in una sceneggiatura volutamente elementare si perdono in spiegazioni un po' artificiose e ridondanti sul valore della pittura. Con la sua interpretazione Willem Dafoe si è guadagnato a Venezia la Coppa Volpi (ed una candidatura agli Oscar), ma Rupert Friend nei panni del fratello Theo e Oscar Isaac in quelli di Gauguin non sono certo da meno, purtroppo in più di un'occasione la cura del versante estetico si scontra con la fragilità di una controparte narrativa eccessivamente piatta e lineare, che talvolta rende il film faticoso e non sempre ha la forza per arrivare al cuore dello spettatore. Il tentativo di Schnabel, non del tutto esaustivo, è comunque coraggioso e merita di essere ricordato anche soltanto per aver concretizzato quel dramma esistenziale (centrale nella vita di Van Gogh) che raramente è stato affrontato con tale consapevolezza sul grande schermo.

lunedì 23 settembre 2019

Videodrome (1983)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 23/09/2019 Qui
Tema e genere: Un horror che come altre opere dell'autore, affronta il tema della mutazione della carne e della fusione fra tecnologia e uomo.
Trama: Il direttore di una rete televisiva capta un'inquietante trasmissione e si ritrova catapultato nell'incubo.
Recensione: Come spesso avviene con David Cronenberg, la scelta di fare fantascienza/horror non è fine a se stessa, ma speculare a riflessioni più ampie sulla realtà che ci circonda. Infatti, dopo il successo di Scanners, egli esplora il mondo onirico con Videodrome, e mette in evidenza con una sceneggiatura ben strutturata ed efficace, la debolezza della mente umana che cerca il benessere attraverso la videodipendenza. Distruggere pensieri con l'utilizzo di mass media digitali, perché pensare è considerato uno strumento di autodifesa contro il sistema. Max Renn dirige una piccola emittente privata specializzata in pornografia. Nella ricerca di prodotti sempre nuovi, utili a scongiurare il pericolo di un'assuefazione del pubblico, un giorno egli si imbatte in un programma clandestino (il "videodrome" del titolo) a base di sevizie mortali. Rimane colpito e cerca di contattarne i produttori. Cadrà vittima di un gioco più grande di lui: forze occulte e incomprensibili, celate dietro lo schermo televisivo, lo assoggettano a un mostruoso controllo rendendolo il possibile antesignano di un futuro che non vorremmo mai vedere. Senza dubbio, una delle pellicole più complesse del regista canadese che usa un James Woods risucchiato dal vortice cronenberghiano di sesso, violenza, mutazione genetica e psicolabilità, per rivelare appunto il controllo assoluto della televisione sulla mente umana. Non è un caso che il significato del film risieda nella frase: "La televisione è la realtà, e la realtà è meno della televisione". E l'uomo perciò diventa schiavo delle false verità mostrate sullo schermo, ricercando la perfezione attraverso queste ultime piuttosto che attraverso la realtà stessa. Si perché Videodrome (e siamo solo nel 1983) è un film che parla indirettamente dei pericoli insiti nei sistemi di comunicazione di massa, con la loro subdola capacità di stuzzicare gli istinti più bassi e meschini degli spettatori. Molte le scene forti, dove vediamo lo "stile" del regista canadese atto a fondere materia inorganica e organica, tanto che il protagonista diventa egli stesso un videoregistratore: la sua carne si apre affinché si possano inserire delle cassette che lo "programmino".

Crash (1996)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 23/09/2019 Qui
Tema e genere: Film drammatico ispirato all'omonimo romanzo di James Graham Ballard del 1973, vincitore del Premio della giuria al Festival di Cannes.
Trama: Il regista televisivo James Ballard (James Spader) viene coinvolto in uno spaventoso incidente stradale che rischia di costargli la vita. L'evento, unito all'incontro con Vaughan (Elias Koteas), teorico del legame tra piacere sessuale e morte violenta in auto, è il detonatore che scatena una reazione a catena sempre più estrema.
RecensioneDavid Cronenberg, da regista alternativo e provocatorio qual è, continua (ma non si è mai fermato) il suo viaggio, attraverso la perversione umana, qui anche grottesca oltre che repellente, ottenendo cosi un film "disturbante" allucinato e visionario, una sorta di pornografico tecnologico, un'esperienza visivo-emotiva estrema. Un connubio malato tra depravazione e sesso, tecnologia e brutalità, violenza e patologia. Un film ascrivibile al genere body horror, in cui attraverso la mutazione fisica del corpo, esplora le reazioni che ciò suscita, immagini forti e sconvolgenti, che mettono a dura prova la sensibilità dello spettatore. In Crash infatti, dalla prima all'ultima scena, quello che viene definito il "comune senso del pudore" viene costantemente messo a dura prova. Tuttavia se le scene di sesso sono il leitmotiv dell'opera, un altro tema affiora con evidenza, quello della morte: il primo incidente del protagonista (che si chiama James Ballard, come lo scrittore dal cui romanzo il film è tratto) costa la vita a un uomo, poi c'è la ricostruzione della morte di James Dean, poi quella di un cascatore che muore allo stesso modo di Jayne Mansfield, e infine la morte della controversa figura di Vaughan. Eros e Thanatos quindi, ma non solo: il terzo argomento sono ovviamente le automobili, il mezzo (è proprio il caso di dirlo) attraverso cui l'erotismo e la morte entrano in contatto (tutte le scene di sesso si svolgono all'interno di automobili, tutte le morti sono causate da incidenti stradali). Pertanto i temi ci sono, un'idea ed un pensiero lo stesso, eppure questo film, un film di non facile approccio, spiegarlo razionalmente è impresa ardua. Poco lineare, morboso come non mai e permeato da un senso di malattia decisamente fuori dal comune. I personaggi, in continua attività sessuale, sono sospesi in un universo psichico che lega appunto l'idea del piacere (e dell'amore) a quella della morte, ma che si protende senza soluzione di continuità tra un oggi meccanico e impersonale e un immediato futuro di mutazioni.

Scanners (1981)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 23/09/2019 Qui
Tema e genere: Thriller orrorifico fantascientifico tra i più sconvolgenti e inquietanti di Cronenberg.
Trama: La Consec, una multinazionale del settore armamenti, è messa in pericolo da una misteriosa organizzazione formata da Scanners, individui capaci anche di uccidere facendo esplodere telepaticamente la testa degli avversari.
Recensione: Correva l'anno 1981 e il canadese David Cronenberg (un paio di cult già alle spalle e un occhio sempre più attento alle degenerazioni della società) si confermava regista dell'eccesso umano, con una delle punte massime di quella che sarebbe diventata la sua personalissima poetica. Muovendosi secondo il tipico canovaccio cronenberghiano, che parte da un problema manifestatosi a livello collettivo per poi proiettarlo nel privato del protagonista, Scanners (che prende il titolo dai soggetti in questione, persone dotate di potenzialità telecinetiche, in grado di penetrare nel cervello degli altri e manipolarlo a proprio piacimento) propone infatti come le opere precedenti il tema della pericolosità sociale e della scienza che modifica i corpi, ma al contempo trasporta il tutto in una dimensione più psicologica, e anticipa le tematiche dell'ibridazione uomo-macchina, della cospirazione e della ribellione che caratterizzeranno molti dei suoi lavori del decennio successivo. Non manca nemmeno l'elemento del body horror, che anzi caratterizza il celebre scontro finale in cui i corpi dei protagonisti vengono trasfigurati da gigantesche varici. Visti oggi, alcuni momenti (come quello in cui i poteri psichici vengono applicati ai "cervelloni" dei computer, o come quando gli attori si producono in improbabili smorfie di sforzo per dimostrare il proprio uso della telepatia) non possono non far sorridere, ma ciò non toglie nulla alla visionarietà di questo incredibile film di genere (strepitoso Michael Ironside nei panni di Revok, con ghigno inquietante al seguito, angosciante come il vociare altrui che si sovrappone nei meandri del cervello), che affondando le sue radici nelle sfumature dell'eterno duello tra il Bene e il Male e pure in quelle dei generi che si contaminano tra loro, dà vita ad un'opera debordante, ma non arcigna e quindi accessibile anche ai non appassionati. Se si deve cercare un difetto, si può notare che in Scanners manca un po' del ritmo a cui siamo abituati in un certo cinema d'azione. Si deve considerare però che siamo all'inizio degli anni '80 e non si trattava certo di una grande produzione. Inoltre Cronenberg è un regista che tende ad "umanizzare" l'horror, a farlo risalire direttamente dall'interno del nostro corpo o, come in questo caso, dai meandri della mente, creando una nuovo immaginario orrorifico che ha dato vita ad altri due blandi seguiti senza alcun motivo di interesse. Scanners invece resta (e sarà) una pietra miliare che apre (e aprirà) degnamente un decennio ricco di idee, quegli ormai lontani anni '80 pieni di classici. E pure questo è un grande classico, che mantiene fresco ed intatto il suo fascino ed i suoi contenuti di denuncia sociale, purtroppo più che mai attuali.

La zona morta (1983)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 23/09/2019 Qui
Tema e genere: Thriller drammatico paranormale tratto dall'omonimo romanzo di Stephen King.
Trama: Johnny rimane vittima di un incidente stradale ed esce dal coma dopo cinque anni, la sua esistenza è sconvolta. La sua ragazza ha sposato un altro, e per di più si rende conto in circostanze drammatiche di avere il potere di "vedere" il futuro.
Recensione: "La zona morta" è quella parte del nostro cervello molto spesso inutilizzata che ha la capacità di carpire scene o situazioni da altri luoghi. Questa è la facoltà acquisita da Johnny Smith (un'eccezionale Cristopher Walken) dopo un incidente stradale, una facoltà che avrà ripercussioni importanti su di lui e su tanti. Il lungometraggio di David Cronenberg è come da copione perfettamente nel suo stile: atmosfera rarefatta e perennemente ostile, amori vissuti sempre al limite, problemi mentali e scene tipicamente thrilling. Forse però la scelta hollywoodiana non ha permesso al regista canadese di sfogare tutta la sua violenza: il lato gore tanto caro al regista canadese viene soltanto accennato in alcune sequenze, per il resto non ha l'importanza che avrà in un film come Videodrome. Inoltre sebbene si deve riconoscere l'ottima resa filmica, non si può non notare come le ristrettezze dettate dalla casa produttrice abbiano influito sul film. La zona morta è infatti un prodotto un po' a metà tra il credo cinematografico di David Cronenberg e il marketing made in Hollywood. Un problema che si riflette nel concatenarsi di eventi dislocati tra loro, che non contribuiscono a rendere scorrevole il film, mentre quando si delinea un deciso diagramma narrativo (come nell'ultima mezz'ora), il film decolla nettamente nei confronti di una prima parte singhiozzante. Rimane però del tutto inconfondibile la mano di David Cronenberg, uno dei massimi scrutatori della mente umana per quanto riguarda il cinema. Quest'altra sua pellicola non fa che confermare e ampliare il suo concetto di "uomo in perenne metamorfosi", chiarendo fin da subito che il cambiamento è in questo caso interiore al protagonista e non si manifesta con cambiamenti fisici. Motivo per cui La zona morta rimane comunque un film prettamente in stile Cronenberg, nonostante alcune lacune sparse qua e là. Motivo per cui questo film, un film dove tanto materiale c'è per riflettere, temi fondamentali quali la sofferenza e la solitudine di vite spezzate dal destino beffardo e relative occasioni mancate, la solita contrapposizione bene/male, egoismo o altruismo, eroi per caso e criminali megalomani, ovviamente non ultimo l'elemento "paranormale" maledizione che succhia l'anima o dono "divino" utile a evitare le crudeltà del mondo, rimane (ed è) uno dei suoi punti più belli ed emozionanti.

David Cronenberg Filmography

Post pubblicato su Pietro Saba World il 23/09/2019 Qui - Dopo aver esplorato la filmografia di uno registi più folli del cinema orientale e del cinema tutto, ovvero Takashi Miike, eccone un altro, un vero e proprio pioniere di un genere cinematografico. Meglio conosciuto come "The Baron of blood", camaleontico, filosofico e feticcio del cinema sperimentale. Parlo di David Cronenberg, classe 1943, Canadese nato a Toronto, da padre scrittore e madre musicista, regista e sceneggiatore di molte opere ritenute da molteplici esperti dei veri e propri cult. Appunto uno dei registi più controversi, sperimentali e talentuosi della nostra epoca (nel 2018 gli è stato conferito il Leone d'Oro alla carriera). Un regista che, pazzo o genio? sregolato o perfezionista? non è dato sapere, è riuscito, proprio con i suoi film difficilmente dimenticabili (uno dei suoi film più conosciuti e degno di nota è senz'altro La Mosca, con Jeff Goldblum, dove i maldestri tentativi di creare una macchina del teletrasporto da parte di uno scienziato si tramuteranno, in maniera terrificante, in una fusione accidentale di geni umani con quelli di mosca), a plasmare la concezione del cinema post-moderno e contemporaneo. Come? Tramite appunto il genere body horror (praticamente da lui inventato), un genere cinematografico che esplora il terrore dell'uomo di fronte alla mutazione del corpo, all'infezione e contaminazione della carne, intrecciando l'elemento psicologico della storia con quello fisico. Nella prima metà della sua carriera Cronenberg ha esplorato questi temi soprattutto attraverso l'horror e la fantascienza, sebbene i suoi lavori si siano successivamente spinti al di là di questi generi approdando anche al noir. E in entrambi i casi, grazie al loro aspetto aspetto contorto e visionario ma capace di affascinare, egli è divenuto un tassello importante della storia del cinema mondiale. Perciò come avevo accennato in occasione di quell'ottimo film recensito per l'edizione 2018 della Notte Horror (che quest'anno è ovviamente tornata, io ho partecipato vedendo e recensendo Cimitero vivente) e come poi ribadito in occasione della lista compilata per la mia Promessa cinematografica dell'anno corrente, dovevo con lui confrontarmi, e così che, memore solo di alcune reminiscenze del giovane cinema Cronenberghiano, ho visto quattro dei suoi film più belli ed importanti, ecco quali.

sabato 21 settembre 2019

Spider-Man - Un nuovo universo (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 20/09/2019 Qui
Tema e genere: Film d'animazione che vede per la prima volta l'Uomo Ragno come protagonista, film che, basato sul fumetto del Ragnoverso e sulla serie televisiva The Amazing Spider-Man, racconta di un nuovo giovane Spider-Man che dovrà salvare New York insieme ad altri uomini e donne ragno dei fumetti Marvel provenienti da universi alternativi.
Trama: Punto da un ragno radioattivo, l'adolescente Miles Morales diventa Spider-Man. Ma ce ne sono altri, finché il perfido Kingpin non li riunisce.
Recensione: Avevo già molta voglia di vederlo, già da quando seppi della vittoria all'Oscar, poi vidi L'isola dei cani ed ero curioso di scoprire del come e perché avesse battuto quel piccolo capolavoro, poi vidi Venom, anzi, i titoli di coda di quest'ultimo (una delle sue parti migliori), e il desiderio aumentava, ma è quando ho visto The LEGO Movie 2 che non vedevo l'ora di vederlo, per vedere cosa si erano già inventati gli geniali sceneggiatori Phil Lord e Christopher Miller (sceneggiatori in quell'altro e questo film), per il primo film cinematografico di animazione (dopo parecchi film "live action" e tante serie tv, dove il Ragnoverso ha fatto la sua comparsa dopo quella fumettistica) dedicato all'Uomo ragno. Ebbene, Spider-Man: Un nuovo universo, diretto da Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman, co-prodotto da Columbia Pictures, Sony Pictures Animation e Marvel Entertainment, è un film a dir poco sorprendente. Non solo perché riesce a creare un nuovo mito di Spider-Man su celluloide per la contemporaneità (superando in freschezza e qualità l'intera saga di Amazing Spider-Man con Andrew Garfield e anche il recente Spider-Man: Homecoming con Tom Holland) ma anche perché dimostra molto coraggio. Giacché il protagonista questa volta non è il "solito" Peter Parker, bensì Miles Morales, che per quanto non avrà le origini e la caratterizzazione più originali di sempre (anzi, per niente), riesce a non sfigurare. Ed è così che Spider-Man: Un nuovo universo, è un gioiello davvero imperdibile per chi non ha pregiudizi sul "genere" animato: una gioia per gli occhi e per la mente, una vera goduria per i fans (che colgono ogni riferimento: e chissà quanto vanno in visibilio quando si cita il loro adorato Comic-Con, l'annuale convention/festival di San Diego) ma anche per chi conosce poco o non va matto per cinecomic e universi autoreferenziali in cui bisogna essere super preparati (e ci sono tante citazioni colte, come il più volte citato romanzo dickensiano Grandi speranze). Qui, bambini troppo piccoli esclusi (non tanto perché si spaventino, quanto perché la narrazione e lo stile sono troppo complessi), tutti possono divertirsi e appassionarsi alla vicenda, grazie a una narrazione e a una grafica moderna, mai come in questo caso debitrici del fumetto (come le didascalie per i pensieri, per i rumori, ma con colpi di genio innovativi, o per gli snodi dell'azione) ma anche autonome e ricche di invenzioni e di umorismo (il compagno di stanza al college, che ricorda peraltro Spider-Man: Homecoming). Che poggiano anche sul racconto, reiterato e legato ai fumetti, delle vicende dei singoli "eroi" e allo stile, per ognuno diverso (in bianco e nero, versione Manga o addirittura Looney Toones per il maialino Peter Porker). La "grana visiva" è un trionfo di gag, colori e soluzioni visive (i personaggi che vengono risucchiati dai loro universi) che fanno ringraziare chi ha inventato la Computer Grafica. Esaltando le infinite possibilità della fantasia e delle sue realizzazioni visive, tridimensionalità compresa pure in un universo che nasce (e non rinnega) il bidimensionale. E la colonna sonora, tra rap e hip hop, si sposa benissimo con la storia (attorno alle vicende di Miles c'è il mood giusto di un ambiente black, tra graffiti, bassifondi, inquietudini e desiderio di riscatto).

venerdì 20 settembre 2019

Millennium - Quello che non uccide (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 19/09/2019 Qui
Tema e genere: Quinto adattamento per il grande schermo delle (dis)avventure di quella che, ormai, si può considerare a tutti gli effetti una vera icona dei nostri tempi, Lisbeth Salander, la protagonista della saga Millennium di Stieg Larsson.
Trama: Mentre si trova coinvolta nell'ennesimo caso, il passato di Lisbeth Salander torna a bussare alla sua porta.
Recensione: Chi è abituato alle atmosfere tipiche della saga Millennium (quella del thriller a tinte fosche, con sfumature di macabro) rimarrà sorpreso (o forse deluso e indignato): questo è un action movie. Un action neanche tanto eccezionale, un action che sminuisce ogni cosa di buono era stata creata in precedenza. Uomini che odiano le donne. Maschilismo, perversione, la figura femminile che diventa un oggetto di piacere. Nessuna etica, nessuna moralità. Le intenzioni erano chiare fin dal titolo per lo scrittore Stieg Larsson: andare oltre il limite, sfidare il lettore (lo spettatore) a immergersi in un universo cupo, violento, sessualmente esplicito. Sulla carta (e sullo schermo) era un'operazione non adatta a tutti. Risultato? Milioni di copie vendute, una trilogia di bestseller (Uomini che odiano le donne, La ragazza che giocava con il fuoco e La regina dei castelli di carta) e quindi di pellicole omonime (la prima diretta da Niels Arden Oplev, le altre due da Daniel Alfredson). Alla morte di Larsson le redini del progetto vengono prese dal giornalista David Lagercrantz, con altri due romanzi (Quello che non uccide e L'uomo che inseguiva la sua ombra), e il cinema riparte da qui, dal quarto capitolo della serie Millennium. Difficile raccogliere l'eredità lasciata da David Fincher con il suo Millennium - Uomini che odiano le donne (a sua volta reboot dei tre film svedesi che avevano lanciato l'attrice Noomi Rapace): la geometria delle inquadrature, l'immagine di una Svezia in qualche modo "americanizzata" (le riprese erano state realizzate a Montreal), l'oscurità che incombeva sulla nazione. La macchina da presa non distoglieva lo sguardo dai momenti forti, dal sangue e dalle scene "d'amore". Invece il nuovo Millennium - Quello che non uccide viaggia con il freno a mano tirato. Ha paura di mostrare, di urtare il suo pubblico. Si propone come un prodotto di massa sempre attento a non disturbare, un prodotto decisamente diverso (che non si capisce cos'è di preciso, si presenta come un reboot ma non lo è, non è uno spin off, né un sequel diretto, ha però nuovi attori a dar volto ai protagonisti) e (mal) trasformato. Le menti dietro questo film decidono infatti di seguire la strada che solitamente si intraprende a Hollywood quando si vuole creare una saga: smorzare i toni della violenza e delle tematiche morbose e trasformare il protagonista in una sorta di super-eroe (piena di gadget come Batman). Nonostante non sia privo di una certa cruenza visiva, Quello che non uccide abbandona quelle tematiche sgradevolmente intense che hanno caratterizzato le inchieste di Blomkvist e le azioni della Salander, piuttosto va a rifugiarsi in territori spesso battuti dei legami famigliari difficili, puntando i riflettori su una fratellanza conflittuale che non convince per motivazioni. Il focus della vicenda è poi la "solita" storia di terrorismo informatico, armi di distruzione di massa e missione per salvare il mondo, roba che nelle mani di James Bond avrebbe fatto scintille, ma in quelle di Lisbeth Salander appare solo una scelta fuori contesto e lontana dagli obiettivi a cui la saga Millennium ci aveva abituato.

mercoledì 18 settembre 2019

A Private War (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 17/09/2019 Qui
Tema e genere: Adattamento cinematografico dell'articolo Marie Colvin's Private War, uscito nel 2012 su Vanity Fair, scritto da Marie Brenner.
Trama: Vita e morte di Marie Colvin, giornalista americana dell'inglese Sunday Times specializzata nel coprire i conflitti più sanguinosi (anche se spesso dimenticati) del mondo.
RecensioneA Private War, come anticipato, costituisce l'autobiografia della statunitense Marie Colvin che esercitò la professione di reporter di guerra per il quotidiano Sunday Times dal 1985 sino però al 2012, anno della sua morte ad Homs, in Siria, nel corso di un bombardamento aereo. E la pellicola ovviamente presenta la figura di questa abile e coraggiosa donna, donna che rischiò la propria vita molteplici volte nel corso della sua carriera di inviata speciale: sempre presente nei luoghi in cui si verificavano scontri bellici, quali quelli in Sri Lanka, Cecenia, Iraq, Afghanistan, ed ultimo in Siria, ella dimostrò di avere coraggio battendosi e denunciando in prima persona con i suoi articoli le crudeltà, le violenze, ed i raggiri politici a discapito delle popolazioni inermi, vittime innocenti di guerre cruente ed inammissibili. Insignita di molti riconoscimenti per il suo operato e famosa per indossare costantemente una benda "da pirata" sull'occhio sinistro perso durante un attacco in Sri Lanka, in quest'opera cinematografica ella viene presentata non solo dal punto di vista professionale, ma anche da quello della propria vita privata. Lo spettatore, così, viene ad apprendere della sua relazione sentimentale (poi terminata) con un collega giornalista/scrittore, dei suoi svariati incontri occasionali dovuti al suo continuo viaggiare e mai risiedere a lungo in un luogo, la sua collaborazione, ma soprattutto la sua profonda amicizia, con il britannico fotografo freelance Paul Conroy, incontrato "casualmente" in Afghanistan, il suo desiderio, purtroppo per lei mai realizzato, di diventare madre e la sua propensione a bere talvolta qualche bicchiere di troppo. Insomma, A Private War, come biopic, risulta, dunque, una pellicola completa e non soltanto meramente biografica, forse, probabilmente anche un poco romanzata da parte del suo regista Matthew Heineman, ma assai interessante per le molteplici sfaccettature che egli presenta sullo schermo di questo affascinante ed intelligente personaggio femminile (simile ma diverso da una delle più importanti figure del ruolo, Martha Gellhorn), dal cui ritratto emerge soprattutto che, accanto alla natura ed al carattere forte e coraggioso, esisteva anche una parte profondamente umana e quanto mai reale di donna provvista di debolezze, d'inquietudini e di saltuari scatti d'ira, una donna dalla vita complessa e a tratti contraddittoria, ma realmente mossa dal desiderio di servire la verità e, in questo, cercare di cambiare le cose. È davvero "privata" la guerra di Marie, perché è una guerra anche con se stessa.