martedì 2 aprile 2019

Mine (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 20/10/2017 Qui - Ciò che mi incuriosiva di Mine, film del 2016 scritto e diretto da Fabio Guaglione e Fabio Resinaro, non era tanto la trama o il tema in sé, dato che Land of mine aveva già donato spessore a questo argomento (quello delle mine antiuomo ovviamente), ma era il fatto che fosse (semplificando) per un terzo italiano (prodotto e girato negli USA) e che fosse per la coppia di registi l'opera prima. E quindi ero curioso di vedere come se la fossero cavata, d'altronde quando il cinema italiano arriva ad Hollywood c'è sempre il rischio di fare una figuraccia, ma come recentemente visto in Escobar del regista italo-americano Andrea Di Stefano (e in altre rare eccezioni), quando c'è la qualità, la voglia e la bravura, qualcosa di buono esce sempre. E infatti davvero sorprendente è questo film realizzato con un budget non elevatissimo, un film molto curato tecnicamente (un prodotto di altissima qualità, con ottimo montaggio e direzione artistica) e ben recitato (dopotutto Armie Hammer qui dimostra tutta la sua bravura, perché il film si basa e si poggia per più di un ora su di lui) che raggiunge un discreto voto grazie ad un'ottima idea di base che forse poteva anche essere sfruttata (anche se la suddetta è comunque efficace e funzionale alla pellicola) ancora meglio. L'inizio infatti (della missione fallita miseramente) non è proprio perfetto, anzi, un po' banale e forzato, ma come il film prosegue devo ammettere che ti cattura. La pellicola, difatti, racchiude in sé particolari in grado di coinvolgere lo spettatore dall'inizio alla fine. Questo grazie non solo a una narrazione ben delineata e dal ritmo serrato (talvolta lento, ma adeguato al tipo di storia raccontata), ma anche all'attenzione ai dettagli sia dal punto di vista degli avvenimenti, sia da quello psicologico che ne deriva. Anche perché seppur i primi 20 minuti si presentano nel modo classico di un film di guerra moderna, ma che non è il classico film sui militari americani (anche se ricorda un po' il comunque personalmente discreto American Sniper), il racconto, che parte dalla situazione senza via di scampo in cui un soldato calpestando una mina e rimanendovi sopra per non farla esplodere si trova in una situazione apparentemente senza via d'uscita, si apre a una miriade di riflessioni (con la comparsa dello splendido personaggio berbero) che scorrono quasi come fossero allucinazioni nel deserto.
D'altronde i primi minuti sono solo una scusa per giungere al vero inizio del film, ovvero quando Mike (accortosi di aver pestato una mina) rimane immobilizzato dovendo attendere per più di 50 ore l'arrivo dei soccorsi (per di più stando anche attento alle insidie del deserto e alla terribile pressione psicologica che ne deriva). Ed è in questo contesto che il protagonista arriva ad analizzare la sua vita, e alcune situazioni che ne hanno determinato l'arruolamento e quindi per certi versi la situazione attuale. Dato che la pericolosissima situazione in cui si viene a trovare il protagonista, porteranno il soldato Mike a vivere un vero e proprio viaggio all'interno della propria mente. La mina che inizialmente è un semplice strumento di morte che lo tiene imprigionato nel deserto, nel corso del film si trasforma infatti in una metafora (dell'esistenza, con cui bisogna convivere e alla fine affrontare), una mina mentale che tiene Mike imprigionato in determinati momenti della sua vita. Esattamente come deve lottare con tutte le sue forze per sfuggire alla mina vera e propria, Mike dovrà difatti lottare per liberarsi anche dalla mina psicologica che gli impedisce di fuggire dagli spettri di un passato che ancora lo tormenta (il rapporto con il padre, quello con la sua ragazza che vorrebbe sposare, la bellissima Annabelle Wallis, ed altro), per poter finalmente trovare la pace e fare un altro passo nel cammino della propria vita.
Dopotutto spesso anche noi nella nostra quotidianità abbiamo una mina che ci impedisce di andare avanti, oppure siamo noi che ce la creiamo per non andare avanti. Proprio per questo alla fine della storia è inevitabile lasciarsi andare a un bel pianto. In tal senso (per l'intensità della sua interpretazione) Armie Hammer, dimostra certamente di poter portare sulle proprie spalle tutto il peso di una pellicola senza risultare mai fuori parte. E' un grande passo avanti per un attore che, almeno al momento, è poco conosciuto (anche se bravissimo fu in The Lone Ranger e recentemente in Operazione U.N.C.L.E.). L'attore è stato in grado infatti di esprimere le sue emozioni (paura, angoscia) e la tensione fisica e psicologica (stanchezza, pazzia) a cui era sottoposto il suo personaggio con una naturalezza quasi surreale. Lo spettatore, conscio della difficile prova di resistenza che attende l'uomo, non può quindi fare altro che tifare per lui, il quale proverà a combattere con tutte le sue forze per tornare dall'amore della sua vita, unica sua certezza e punto di riferimento. Ad avere inoltre un ruolo rilevante (e importante) nel film è la pazzia, dovuta allo sforzo fisico e al caldo del deserto, che porterà Mike ad avere molte allucinazioni, alcune delle quali troppo surreali per apparire credibili, ma volte comunque a far riflettere lo spettatore.
A tal proposito è d'obbligo menzionare Tom Cullen (protagonista anche di una puntata della prima stagione di Black Mirror) nei panni dell'amico e collega di Mike, morto a causa di un'altra mina, Geoff Bell nel ruolo del padre di quest'ultimo e, soprattutto, la prestazione di Clint Dyer. L'attore infatti regalerà emozioni uniche e sorprendenti, grazie a una storia originale e ben descritta che provocherà non poche lacrime (e qualche risata). Ma la storia (comunque abbastanza lineare oltre ad essere piena di metafore e simbolismi) funziona, e viene resa interessante, soprattutto grazie alla regia e all'ottimo montaggio. Perché da uno spunto interessante i due cineasti nostrani hanno estrapolato un film godibile, che non annoia e che riesce ad intrigare soprattutto nella prima parte. La bravura dell'attore principale, una costruzione intelligente (che trova il suo punto di forza nei flashback, che non sono utilizzati in modo morboso per aumentare forzatamente la drammaticità, ma anzi rimangono sospesi, non approfonditi eccessivamente, rappresentati come emozioni più che storie) e un ritmo sostenuto vanno a formare infatti un primo troncone (nonostante l'incipit) davvero convincente. Nel secondo tempo Mine perde invece alcuni colpi e punti, la storia inizia a diventare eccessivamente poco credibile e il tutto viene diluito quando sarebbe bastata una durata più concentrata e meno dispersiva.
Inoltre verso il finale il pietismo e buonismo iniziano a farla da padrone, portando la pellicola su binari stucchevolmente hollywoodiani. Eppure, nonostante il finale forse un po' telefonato (tuttavia molto bello ed emozionante, che non fa rimpiangere il tempo speso) e alcune situazioni un po' forzate, questo è un gran bel film. Perché belle sono le rappresentazioni dei momenti di perdita di cognizione, miraggi, in un continuo passaggio tra realtà e immaginazione, tutto per trovare la forza a resistere in una tragica situazione, bellissima è la fotografia, ottima e struggente è la colonna sonora e ben fatti sono gli effetti speciali. Inoltre (seppur come detto non tutto è perfetto), devo ammettere che ha una fluidità (e una discreta riuscita) da non sottovalutare, specialmente se pensiamo che si tratta di un'opera prima. E per questo merita veramente un buon voto. Perché questo film notevole, anche con la povertà di mezzi, a cui Armie Hammer dà un contributo enorme, spero spiani la strada ai due registi Fabio & Fabio per fare altre opere oneste e intelligenti di cui il cinema ha sempre bisogno. Dato che Mine, un film originale e bello, è un film ampiamente riuscito e da non perdere, che certamente meritava e merita più considerazione. Voto: 7,5