martedì 2 aprile 2019

Barriere (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 24/10/2017 Qui - Valutare un film come Barriere non è affatto facile. Quello di Denzel Washington, alla sua terza regia dopo Antwone Fisher (2002) e The Great Debaters: Il potere della parola (2007) e qui nelle vesti di attore e regista, è un lavoro, l'adattamento cinematografico (del 2016) dell'opera teatrale del 1983 Fences di August Wilson (accreditato come sceneggiatore del film nonostante sia morto nel 2005) e vincitrice del premio Pulitzer per la drammaturgia, che nella sostanza rimane prigioniero della sua impostazione teatrale soprattutto nella regia che concede molto poco, come poche sono l'escursioni all'esterno delle quattro mura di casa e del cortiletto posteriore, piccoli palcoscenici dove si sviluppano e si sviscerano in un profluvio di parole, le vicende ed i caratteri dei personaggi. E non amando molto le impostazioni teatrali l'ho trovato molto spesso noioso, causa anche la durata forse eccessiva che appesantisce la visione. Perché se Steve JobsCarnage o Birdman, avevano nel loro manico la storia avvincente, l'intrigo e il coinvolgimento, qui niente di tutto ciò. D'altronde anche se Barriere è un film intenso, molto parlato e ben recitato (che offre in ogni caso bei momenti e buoni spunti) è irrimediabilmente teatrale. E non si capisce quindi come abbia fatto a meritarsi la candidatura all'Oscar, e non si spiega neanche come Viola Davis abbia fatto a vincere l'Oscar come migliore attrice non protagonista, non perché lei non è brava, anzi, è un'ottima interprete ma il ruolo non mi è sembrato un ruolo tale da meritare un simile riconoscimento. Certo, ci sono scene emotivamente struggenti impreziosite dalla bravura degli attori (giacché certamente Washington e la Davis fanno la parte del leone), ma come detto prima è un film prigioniero della sua stessa struttura teatrale nella verbosità e nella ridondanza dei dialoghi. Barriere difatti si muove fra il sublime ed il noioso allo stesso tempo, e l'unico motivo di interesse diventa il tema.
Un tema che però non riguarda (almeno non direttamente) il tema del razzismo (e delle barriere sociali di stampo razziale) come si potrebbe immaginare, anche se vengono citate e che fanno parte integrante del carattere del protagonista che nel passato le ha subite, ma sono quelle assi di legno che il protagonista cerca di mettere intorno alla sua casa per proteggersi. Il film infatti (e non per questo è un film eccezionale) parla delle barriere che si ergono fra i personaggi e soprattutto fra il protagonista Troy e il mondo che gli ruota intorno. Un uomo dalla parlantina facile, apparentemente simpatico ad un primo approccio (di cui ben poco rimane alla fine), ma anche un uomo dal passato travagliato di sogni infranti, tanto da essere affettivamente arido (forse anche per la vergogna dell'uomo che è diventato, che non ha avuto la carriera sportiva che desiderava e che adesso vuole vietare al figlio per invidia, delle nefandezze che ha compiuto con altre donne tradendo sua moglie), specialmente nei confronti dei figli a cui si erge come figura castrante, disposta a tarpare sistematicamente le ali per non vedersi superato da essi. Un pater familias con tutte le caratteristiche negative del termine insomma, che vorrebbe difendere i propri affetti con la costruzione dello steccato ma ne innalza simbolicamente altri e più alti verso quella stessa famiglia che vorrebbe proteggere, ma che tiene prigioniera di un proprio codice morale fatto di doveri e responsabilità però privo di qualsiasi trasporto affettivo, nonché coinvolto in una relazione extraconiugale.
Relazione che comunque mai vediamo, dato che il film conta 7 attori in carne ed ossa più 2 solo sempre nominati ma mai in campo, che, senza soluzione di continuità, discutono, crescono, si scontrano, si confrontano. Intanto la vita va avanti e qualcosa di rompe, qualcosa nasce e qualcosa muore, come in tutte le famiglie americane e soprattutto in quelle afroamericane, anche perché una cosa che si nota subito è la sensazione di esser finiti in turbinio di cliché di quel particolare popolo, che molto spesso avevano famiglie allargate. D'altronde la storia che viene raccontata (che per il 90% si svolge nel giardino di una modesta casa di un ex carcerato e promessa tardiva del baseball negli anni '50) ci fa conoscere Troy (Denzel Washington), che vive nella Pittsburgh con la moglie Rose (Viola Davis) e il figlio Cory (Jovan Adepo) e che adesso fa il netturbino. Gli fa compagnia tutti i giorni il fidato amico Bono (Stephen Henderson), con cui passa le serate del venerdì dopo aver ricevuto la paga settimanale. Troy, però, ha anche un altro figlio, Lyons (Russell Hornsby), avuto da una precedente relazione, un fratello, Gabe (Mykelti Williamson), tornato dalla Seconda Guerra Mondiale con un serio handicap mentale, e un'amante, Alberta (che non si vede mai) da cui aspetta un figlio.
Ed ovviamente quando lo confessa alla moglie, tutto il mondo che la coppia si è costruito in diciotto anni di matrimonio (irrimediabilmente e giustamente), crolla. Come se non bastasse un inaspettato evento porterà ancor di più alla luce problemi sopiti ma ormai incontrollabili. Comunque oltre alle dinamiche familiari, fanno da sfondo al film anche le rivendicazioni sociali di una comunità nera che era sfruttata e messa ai margini dai bianchi. Troy ottiene un'importante promozione, da raccoglitore di immondizia diventa autista di camion. Peccato, però, che quella conquista (l'ennesima barriera) lo porterà a separarsi dall'amico Bono. Il film per questo, ma anche per gli splendidi in ogni caso monologhi di Rose (che offre certamente una prova migliore che in Suicide Squad e Blackhat) sul senso dell'amore e del matrimonio e degni di nota sono anche gli animati scambi di opinione tra il padre e i suoi figli, mostrando altresì il cambiamento sostanziale nel rapporto tra genitori e figli e nel lento inserimento dei neri nel sociale, mantiene un alto livello di intensità (e di interesse) salvo nell'ultima parte, un po' troppo tirata in lungo e un po' troppo "moralisteggiante" che toglie un po' di pathos e nella quale si vede che tutti i tasselli della storia devono tornare al loro posto in modo un po' troppo costruito.
Anche se, Barriere, comunque, rimane un film molto interessante nel quale Denzel Washington, che con la sua fisicità, la sua parlata secca e rapida, quasi rap verrebbe da dire, i suoi sguardi anche cattivi, riempie la scena (al contrario della moccicosa Viola "delitto perfetto" Davis, come piange dal naso lei nessuno mai), e che viene da una convincente prova nel buon remake de I Magnifici 7, ha dimostrato tutta la sua bravura alle prese con un testo teatrale non semplice. Ma se belli sono alcuni ma pochissimi brillanti dialoghi e nel complesso buona è la performance dell'intero cast, la pellicola non attinge a livelli di assoluta eccellenza perché riflette troppo l'impianto teatrale dal quale è nata, più che cinema è teatro filmato, anche se resta un'opera da vedere. Un'opera che forse solo grazie alla quota "colored", che è andata a colmare il torto dell'anno precedente, è arrivata al successo, ma senza grandi meriti. Anche perché Barriere, non solo non è imperdibile come immaginavo, è un film pesante, che se fosse durato mezz'ora in meno, tagliando qualche parte, sarebbe risultato meno pesante tale da emozionare e coinvolgere. E poiché questo non fa la pellicola raggiunge solo la sufficienza. Voto: 6