lunedì 1 aprile 2019

Captain Fantastic (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 09/10/2017 Qui - Captain Fantastic, presentato in anteprima mondiale al Sundance Film Festival 2016, vincitore all'undicesima edizione della Festa del cinema di Roma e vincitore del premio alla miglior regia al Festival di Cannes 2016 (proiettato nella sezione Un Certain Regard), è un'avventura emozionante e divertente (del 2016 scritta e diretta da Matt Ross) che vede protagonista un padre fuori dagli schemi ed i suoi sei figli. Dopotutto questa è essenzialmente una commedia, che, strizzando l'occhio al genere indie, e al contempo, e soprattutto, ad una cultura hippie, mai eradicata dallo stereotipo anticonformista statunitense, tratta temi alquanto delicati e riflessivi, come quello dell'adolescenza, e di conseguenza dell'educazione, passando per borghesia e proletariato, nonché per l'economia di mercato, col suo fervente e dissonante capitalismo. Infatti la pellicola racconta di Ben (Viggo Mortensen), un padre decisamente sui generis e sopra le righe, che ha deciso assieme alla moglie Leslie di crescere i figli lontano dalla moderna civiltà consumista, nei meravigliosi boschi del Nord America. I ragazzi seguono una rigida disciplina basata sostanzialmente sulla filosofia della mens sana in corpore sano, questi sono, difatti, quotidianamente impegnanti in duri allenamenti atti a temprare ed irrobustire il loro fisico e vengono inoltre sottoposti ad una impegnativa istruzione che spazia dai testi di filosofia e di politica, a quelli di letteratura, di scienze e via dicendo. In questo modo tanto i più grandi quanto i più piccoli saranno, secondo Ben, perfettamente in grado di difendersi e di procurarsi del cibo da soli nonché di sostenere una discussione su qualsiasi argomento in maniera esaustiva e di avere una propria opinione critica negli ambiti più disparati. Questa vita apparentemente arcadica e paradisiaca però viene interrotta quando arriva la notizia che la madre dei ragazzi si è suicidata in ospedale. A quel punto, nonostante il suocero (Frank Langella) minacci di fa arrestare il padre se oserà farsi vedere al funerale, la tribù sale un vecchio scuolabus dipinto di blu e si mette in viaggio per il caldo del Nuovo Messico. Ma sarà solo l'inizio di un viaggio che porterà la famiglia a confrontarsi non solo con la società moderna ma con le loro idee e modi alquanto poco convenzionali e forse inadatti nel mondo reale.
L'attore Matt Ross, che si cimenta nuovamente dietro la macchina da presa dopo due cortometraggi ed un lungometraggio del 2012, incentra il suo film quindi sul delicato argomento dell'educazione dei figli e delle scelte che i genitori prendono credendo e sperando di fare il loro bene. Il protagonista, interpretato da un sempre convincente ed intenso Viggo Mortensen, ha deciso infatti di vivere quel tipo di vita e di impartire quella disciplina anche ai propri figli non per puro amore dell'eccentricità o di uno sterile modus vivendi hippie, ma ritenendo fermamente di fare del suo meglio per garantire alla propria famiglia un grandioso futuro. Questa convinzione è tuttavia destinata a scontrarsi con la vita vera che, pur essendo ricca di superficialità e frivolezze, mette in luce gli aspetti anacronistici ed a tratti ridicoli della scelta dei Cash e porta i ragazzi a porsi delle domande su se stessi e sul loro padre. D'altronde la prima cosa che appare stridente nel film (che non mi ha convinto tanto) è che, nonostante la scelta di vita fatta e imposta ai figli, non si capisce lo scopo di tale scelta educativa (vivranno sempre nella foresta? Il giorno che vorranno farsi una famiglia dove troveranno un partner che possa condividere le loro scelte? Quale contatto avranno con la società dei consumi?). In molte scene, che vorrebbero essere fastidiose e indispettire la gente "normale" (come arrivare inghirlandati e con una maschera antigas al collo in chiesa per il funerale, facendo una tirata contro le religioni, buddismo escluso), sembra di vedere il ricalco di certe scene di Little Miss Sunshine per catturare l'attenzione di quel pubblico.
Per tutto il film l'ideologia di Ben è un confuso "Potere al popolo" che si basa su assunti tanto approssimativi quanto irrealistici (si può pensare che un diciottenne sia cresciuto nella foresta vedendo solo la sua famiglia e parli sei lingue?). Il finale, dopo un funerale stile indù della madre e la crisi del figlio maggiore che inizia a realizzare che la vita va ben oltre gli insegnamenti del padre, sembra portare Ben a più miti consigli, a un certo confronto con una vita meno oltranzista (e ad accettare anche che i figli vadano a scuola). Viggo Mortensen è bravissimo nel mostrare la tenacia e l'affetto per i suoi ragazzi (anche se spesso insopportabile), così come il giovane George McKay (Bogdan) nei panni del figlio che comincia a interrogarsi sulla sua vita. Ma le capacità degli attori non sembrano bastare a rendere credibile e appetibile un film dalla sostanza velleitaria e confusa. Anche perché il film, che vorrebbe passare per particolare e originale per il tema trattato, ben presto scivola in una retorica spicciola e inconcludente sulla società moderna, non basta mostrare la dissoluzione della civiltà dei consumi e scioccare, con l'aiuto del protagonista, chi gli sta davanti, magari presentandosi nudo nel mezzo del parcheggio, mentre i figli confrontano le loro stupefacenti preparazioni culturali e abilità manuali con l'incapacità dei figli delle famiglie cittadine, per avere ragione. La vita lontana dal consumismo e dal "dover essere" socialmente omologati, ci rende liberi? Ci rende migliori? Un bambino può crescere senza sapere cosa siano Coca-Cola, fast food, televisione, etc? Questi sono gli interrogativi che questo film si (e ci) pone. Purtroppo però questi interrogativi vengono estremizzati all'eccesso in questo film, che non risparmia niente e nessuno.
Perché anche se la risposta arriverà poco per volta (giacché come spesso accade la verità sta nel mezzo e il padre, assieme a noi, capirà che l'equilibrio sta nel compromesso, in una vita di poco fuori dalla società, piuttosto che totalmente isolata in una bolla), dove dapprima conosceremo il bello di una vita simile e dove non verranno tralasciate le inevitabili mancanze che soprattutto il figlio più grande svilupperà (sì perché se da una parte la società ci condiziona negativamente, conoscerla e viverla ci insegna cose che sui libri e nella natura non potremmo imparare), il regista banalizza e allo stesso tempo denuncia tali aspetti, anche grazie ad una sontuosa sceneggiatura che ne impreziosisce i contenuti, con una critica tutt'altro che silenziosa, ma che non sortisce e non ha sortito in me l'effetto sperato. Tuttavia, questo film pieno di contraddizioni e di non sensi, mi è piaciuto comunque, sia per il tema affrontato, estremamente delicato ed attuale, e per il messaggio (buonista) finale che ho ritrovato in esso, anche se per quanto sensato appare in contrasto con la morale del protagonista. Le venature drammatiche sono affrontate con piglio ironico e intelligente, anche se, a mio avviso, a dispetto di una fiorente ed opulenta cultura (letteraria e non) ostentata, manca di fantasia e creatività, se non quella legata ad una elaborata funzione cognitiva, o mnemonica. In definitiva, un intenso viaggio per scoprirsi genitori, e anche un po' figli, cercando di ritrovare quella naturale empatia tra uomo e natura. Purtroppo però, nonostante il cast, comprendente anche insieme ad un comunque ottimo Mortensen (che per questo ha ricevuto una candidatura all'Oscar) la Ann Dowd di The Leftlovers (che ha da poco chiuso i battenti degnamente), Steve Zahn e Kathryn Hahn, nonostante il messaggio e il risultato discreto, giacché è in ogni caso girato bene e in più di un'occasione strappa anche risate, per colpa delle troppe estremizzazioni visive, etiche e morali, e di ridicole supposizioni (e ideali), poco mi ha appassionato o coinvolto, seppur un film consigliabile questo è, perché originale ed educativo, ma non troppo. Voto: 6+