venerdì 30 agosto 2019

Tuo, Simon (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/08/2019 Qui
Tema e genere: Adattamento cinematografico del romanzo Non so chi sei, ma io sono qui (Simon vs. the Homo Sapiens Agenda) di Becky Albertalli, un dramma sull'accettazione, sia da parte di sé stessi che degli altri.
Trama: Simon Spier non è così semplice: il giovane non ha ancora rivelato ai suoi familiari e amici di essere gay, sopportando ogni giorno il peso del segreto. Decide così di esporsi solo nel mondo virtuale, iniziando a flirtare online con un compagno di liceo di cui non conosce l'identità e che si nasconde sotto lo pseudonimo di "Blue", ma qualcosa va storto.
Recensione: Raccontare un tema scottante e di attualità come l'omosessualità al cinema è diventato esercizio molto complesso e di grande responsabilità, soprattutto se si intende farlo con originalità, leggerezza quanto basta e senza cadere nella retorica più bassa e in pregiudizi. Rischi in cui sono incappati diversi autori, ma nei quali invece non cade sorprendentemente (perché produttore sì di Riverdale, ma anche e soprattutto sceneggiatore di telefilm fatti con lo stampino) Greg Berlanti in questa sua terza pellicola. Una pellicola, ispirata ad un famoso (?) romanzo, molto ambiziosa che tratta un tema così duro e controverso, come l'omosessualità appunto, con toni leggeri e spensierati, ottenuti grazie alla fusione tra le dinamiche di una dramma e quelle di una commedia adolescenziale. Il risultato è dunque una film molto gradevole e capace di creare empatia ed emozioni nelle spettatore, pur nella sua semplicità. Nel cast troviamo Nick Robinson (attore giovane ma già ammirato in Jurassic World e Noi siamo tutto), Katherine Langford (la star del serial targato Netflix Tredici), Jennifer GarnerAlexandra ShippJosh DuhamelMackenzie LintzKeiynan Lonsdale (Wally West in The Flash). Simon è un ragazzo di diciassette anni come tanti nella sua cittadina e nel suo liceo: ha le sue passioni, un gruppo di amici, gioie, dolori e problemi come tutti. Il giovane, però, ha un segreto che nasconde a tutti, ovvero che è gay, una verità che reprime dentro di sé fino al giorno in cui inizia uno scambio di mail con un altro ragazzo anonimo il quale a sua volta gli confessa di essere omosessuale. Tra i due nasce così una bella amicizia virtuale che spinge Simon a confessare i propri orientamenti sessuali alla famiglia e agli amici. Ma tale scelta porta il protagonista ad affrontare conseguenze inaspettate e dure da affrontare. La parola chiave del film di Greg Berlanti, come detto sopra, è "semplicità". Un termine che se a primo impatto può suonare limitativo e volto a sminuire un'opera, in questo caso assume un significato positivo in quanto lo stile pulito e senza fronzoli del regista e la storia lineare e tutt'altro che contorta fanno di Tuo, Simon un film efficace e scevro da qualsiasi forma di retorica e luoghi comuni. Una semplicità presente durante l'intero svolgimento della storia e che si riversa, oltre che sul succitato stile registico, soprattutto in un plot diretto e immediato nel trasmettere a chi guarda i tormenti, il disagio e le emozioni di Simon e di tutte le altre figure che lo circondano e che sembrano vivere in sintonia con il protagonista. Proprio la scrittura dei personaggi rappresenta il grande punto di forza del lavoro del regista dal momento che ognuno di essi sembra essere un tassello inserito nei punti giusti e funzionale a diversi risvolti di un intreccio che, seppur prevedibile nel suo sviluppo, non annoia mai e riesce nel suo intento di trasmettere un messaggio di speranza e tolleranza. Tuo, Simon, in conclusione, è un film che fa della sua ingenuità e purezza carte molto utili e preziose da mettere sul tavolo a servizio di una tematica molto profonda.

Cake (2014)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/08/2019 Qui
Tema e genere: Un dramma intimistico che interseca due tragedie, con una brava Jennifer Aniston.
Trama: Claire Bennett è una ricca losangelina nevrastenica affetta da dolore cronico, dipendente dai farmaci e con un tragico passato alle spalle. Vive in simbiosi con la sua colf ispanica Silvana e frequenta le riunioni di un gruppo di sostegno: durante uno di questi incontri viene informata del suicidio di una conoscente, Nina. Attratta dalla vicenda, si insinua poco a poco nella famiglia della defunta.
Recensione: Una performance rilevante quella di Jennifer Aniston in Cake, che racconta la vita di una donna di Los Angeles e della sua lotta contro il dolore cronico. In questo film la famosa protagonista della serie televisiva Friends e di numerose altre commedie americane, stupisce infatti interpretando un ruolo difficile e altamente drammatico che le ha comportato anche una sorta di imbruttimento fisico, necessario ovviamente alla parte sostenuta. La parte di una persona che dice tutto ciò che le passa per la testa senza preoccuparsi della reazione degli altri. Cinica e burbera, con il suo atteggiamento fa sorridere lo spettatore più volte ma il suo è solo un modo per proteggersi, per non mostrare le sue sofferenze e le sue paure più profonde. Il film infatti presenta molti personaggi che soffrono, ognuno per un motivo diverso, ma Claire rifiuta l'idea di essere come loro reagendo con il suo "caratteraccio". E' così che il regista e lo sceneggiatore, in modo anche umoristico, si avvicinano a questioni pesanti come il suicidio, il dolore, la separazione e la dipendenza dai farmaci. Quest'ultima si evince dal modo compulsivo con cui Claire tiene sotto controllo la sua scorta di farmaci segreti o la sua abitudine di reclinare completamente indietro il sedile del passeggero perché per lei il dolore è troppo grande per sedersi normalmente. Queste ripetizioni non sono altro che indizi, che guidano appunto lo spettatore verso la verità e che mostrano l'antieroina Aniston sotto una luce più compassionevole. Solo gradualmente veniamo a conoscenza del suo passato e soprattutto del perché è così attratta dalla famiglia di una donna del suo gruppo di sostegno che si è suicidata. A proposito della Aniston, lei che in ogni respiro e cipiglio di Claire, anche se costruiti, colpisce al cuore. Azzeccata è quindi la scelta del cast (anche se è qui anche produttrice). In tal senso bellissimo e toccante è il rapporto che si sviluppa tra lei e la sua domestica Silvana che sopporta il sua comportamento maleducato e le continue richieste, ma in più di una scena sono mostrati accenni di gentilezza da parte della protagonista che rivelano quanto in fondo sia buona e fragile. Inoltre, anche il titolo del film stesso, Cake, di cui verrà svelato il significato alla fine del film, risulta quanto mai azzeccato in seno a tutta la vicenda e soprattutto quanto mai emblematico e consono alla sua stessa atmosfera. All'atmosfera di un film in cui non succede apparentemente nulla di rilevante nella sua ora e mezza, ma che riesce a colpire alquanto forte.

Effetto Lucifero (2015)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/08/2019 Qui
Tema e genere: Film drammatico incentrato sull'esperimento carcerario di Stanford, condotto nel 1971 dallo psicologo statunitense Philip Zimbardo presso l'Università di Stanford.
Trama: Ventiquattro studenti vengono scelti per un esperimento che li trasformerà in maniera casuale in guardie e prigionieri in una finta prigione situata nel seminterrato dell'università, ma le guardie abuseranno del loro potere.
Recensione: L'importanza del contesto ambientale in cui si trovano determinati individui è fondamentale e riesce più di ogni altro fattore ad influenzarne le condotte. Il cosiddetto "Effetto Lucifero" si occupa di studiare il processo secondo cui l'aggressività dell'individuo è fortemente influenzata dal contesto in cui egli si trova. Lo sa molto bene il professore di psicologia Philip Zimbardo (lo interpreta un risoluto Billy Crudup) della Stanford University che cerca ventiquattro cavie retribuite tra giovani studenti o disoccupati, per poter provare che tra guardie e ladri, il particolare contesto in cui entrambi sono costretti a vivere, li pone dinanzi ad una deviazione di comportamento che li fa sviare dal comportamento più razionale, sia da una parte che dall'altra, accentuando i contrasti, le tensioni, e favorendo da una parte l'abuso di posizione, e dall'altro il tentativo di fuga. Il professore pianifica, distribuisce i ruoli a suo arbitrio, sceglie la location appropriata per ricreare l'atmosfera carceraria. E già dai primi giorni le guardie, stressate dalla possibilità di non essere temute, cominciano a sconfinare in comportamenti che vanno ben al di là dei limiti rigorosamente previsti e concordati con il professore stesso. E i prigionieri, vessati e maltrattati, pianificano modalità di fuga, tentativi di ribellione, opere di convincimento da parte di tutti coloro che, per varie ragioni, al contrario di loro scelgono la via della remissività per affrontare le avversità ben più ostiche di quanto preventivato. Forte di due personalità attoriali carismatiche, per quanto ancora molto giovani, come il diabolico Ezra Miller e il più angelico Tye Sheridan (non dimenticando affatto tutti gli altri), The Stanford Prison Experiment è un film sulla teoria che lascia il posto alla pratica, all'azione, all'esplicitarsi di ciò che già era previsto, ma che nella concretezza dei fatti supera ogni possibilità teorica, moltiplicandone l'effetto distorsivo e deviato. Un film, non l'unico girato su questa singolare esperienza, non ho visto gli altri, ma tuttavia questo mi sembra ben fatto e ben recitato, scioccante e terribilmente istruttivo possibilmente da vedere.

La meccanica delle ombre (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/08/2019 Qui
Tema e genere: Film a cavallo tra thriller e lo spionaggio. Una spy story classica dal piacevole gusto "retrò".
Trama: Duval (François Cluzet), contabile ex alcolista, da tempo ha qualche difficoltà a trovare un nuovo posto di lavoro. Così, quando una misteriosa organizzazione gli chiede di trascrivere delle intercettazioni telefoniche, accetta senza porre domande: rimarrà invischiato in un pericoloso intrigo che vede coinvolti i servizi segreti e le alte sfere del governo francese.
Recensione: Un thriller senza numerose e grosse scene d'azione ma piuttosto claustrofobico (infatti la vicenda si svolge per lo più interamente all'interno di un appartamento vuoto) e con un ritmo che diventa sempre più incalzante e, pertanto, avvincente per i suoi svariati (seppur non troppo imprevedibili) colpi di scena. Ben girato dal regista Thomas Kruithof, qui peraltro alla sua prima esperienza registica, il film punta molto sulle atmosfere, sulla suspense, e soprattutto sulla bravura degli attori, quali François Cluzet (Alba Rohrwacher purtroppo è stata relegata in un ruolo di secondo piano), che sicuramente ne elevano il valore e la conseguente riuscita. Mescolando sapientemente le atmosfere raggelanti del noir francese con il meccanismo hitchcockiano dell'uomo qualunque inghiottito da un intrigo internazionale che rischia di schiacciarlo, il film infatti riflette (e bene), come in uno specchio deformante, l'alienazione contemporanea e la mania persecutoria di certa pubblicistica che dipinge una società perennemente spiata da occhi invisibili e agitata da movimenti para-istituzionali con derive eversive, e questo è sicuramente un pregio. Tuttavia, non mancano le pecche in questa onesta opera d'artigianato. Se, infatti, la scelta del regista di mostrare un mondo fatto solo di dispositivi analogici, può sembrare anacronistica, invece fa parte di questo affascinante progetto "retrò" elegante e asciutto, dove la tecnologia resta tagliata fuori a vantaggio dei personaggi, che sono al centro della vicenda (come in una vecchia storia di spionaggio anni '50), il finale, con punte action, appare affrettato e in controtendenza rispetto alla tenuta generale del film, incentrato su silenzi ed ellissi. Eppure il finale seppur inverosimile è piacevole, e nel complesso è questo un buon film, un thriller classico, solido, ben scritto e diretto.

Lupin III - Il film (2014)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/08/2019 Qui
Tema e genere: Adattamento in live action del celebre manga di Monkey Punch, quest'ultimo scomparso recentemente.
Trama: A Singapore, un gruppo di giovani ladri compete per rubare una medaglia da un museo privato. Tra questi vi è anche un giovane Lupin III, nipote del famoso ladro gentiluomo Arsenio Lupin.
Recensione: Lupin, Jigen, Fujiko, Goemon e l'ispettore Zenigata, ci sono tutti, tutti i personaggi di uno dei manga più famosi (e non solo in Oriente) del mondo nel primo live-action riconosciuto dal grande maestro Monkey Punch. Il film diretto da Ryūhei Kitamura vede infatti il ritorno del ladro gentiluomo che, con la sua fida banda, si ritrova a dover scassinare un caveau inespugnabile, di un losco individuo, per rubare la famosa collana appartenuta a Cleopatra. Il tutto mentre l'ispettore dell'Interpol Koichi Zenigata cercherà in tutti i modi di ostacolare i loro piani. Dopo una prima parte di "preparazione", dove le scene, seppur movimentate, possono non portare grande entusiasmo, la narrazione subisce un'impennata e nella seconda parte troviamo l'intrecciarsi e il conseguente sviluppo della trama in maniera gradevole e coinvolgente. In tal senso la sceneggiatura è all'altezza delle rocambolesche avventure di Lupin, con inseguimenti, furti, sparatorie, intrighi e colpi di scena, senza tralasciare le belle ragazze. Certo, all'inizio del film, si fa un po' di difficoltà ad entrare nell'ottica di personaggi conosciuti come anime ma con il proseguimento della pellicola e soprattutto grazie al doppiaggio delle voci storiche, diventano familiari. A proposito di personaggi, i più importanti sono supportati da volti nuovi (alcuni tuttavia del tutto sconosciuti, chi è Pierre?) ed originali (più o meno) che hanno un ruolo importante all'interno della vicenda e "rinfrescano" questa nuova interpretazione che poteva altrimenti risultare banale. Un'interpretazione, una vicenda appunto ben strutturata, anche se ci sono delle particolarità che rendono il film un discreto prodotto e non un capolavoro. La verve umoristica è totalmente mancante, elemento presente nel personaggio di Lupin, soprattutto manca la sua genialità nel mettere in atto gli audaci colpi, gli stessi compagni sono limitati nelle loro specialità. Inoltre ci sono troppe scazzottate ed in certi casi esse sono anche piuttosto confusionarie, si sente la mancanza della mitica colonna sonora della serie, e ci sono troppi personaggi di contorno che limitano il raggio d'azione della banda. Piacevoli sono però gli omaggi alla 500 gialla (sia quella degli anni '70 che l'ultimo modello), il fatto di aver fatto indossare a Lupin, sia la giacca rossa che quella verde, oppure il filmato in animazione. Ma soprattutto, seppur con scene "forzate" e battute scontate, la caratterizzazione dei personaggi è fedele all'opera di Monkey Punch e la scelta del cast risulta essere stata azzeccata, perché seppur per la maggior parte sconosciuti al mondo Occidentale, gli attori entrano abbastanza bene nel ruolo sia per qualità fisiche che per qualità recitative, dando sicuramente uno slancio maggiore al film. Un film che nonostante qualche "difettuccio" ed alcune sbavature, resta ed è un degno adattamento live action di un'opera famosa in tutto il mondo, che seppur non rende giustizia ad una Leggenda come Lupin è sicuramente da vedere.

Il viaggio di Fanny (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 30/08/2019 Qui
Tema e genere: Il film (basato sul libro autobiografico Le journal de Fanny, scritto da Fanny Ben-Ami) è un viaggio emozionante sull'amicizia e la libertà raccontato attraverso gli occhi dei bambini.
Trama: Basato su una storia vera, il film racconta la vicenda di Fanny, una ragazzina ebrea di 13 anni che nel 1943, durante l'occupazione della Francia da parte dei tedeschi, viene mandata insieme alle sorelline in una colonia in montagna. Lì conosce altri coetanei e con loro, quando i rastrellamenti nazisti si intensificano e inaspriscono, scappa nel tentativo di raggiungere il confine svizzero per salvarsi.
Recensione: Fanny è una tredicenne ebrea, che con le due sorelle viene lasciata dai genitori in una colonia francese per minori, durante la Seconda Guerra Mondiale. Quando i rastrellamenti tedeschi s'inaspriscono, le bimbe e alcuni loro coetanei, rifugiati nella colonia, sono costretti alla fuga. Inizia così il viaggio di Fanny (e di tutti) tra peripezie, rifugi e nascondigli. Tratto dal romanzo autobiografico della stessa protagonista, Il viaggio di Fanny è la storia di chi è costretto a crescere velocemente: il passaggio dall'infanzia all'adolescenza per Fanny arriva presto (forse troppo per una bambina della sua età) a causa delle insidie e della missione di sopravvivenza. Proprio questo passaggio tra l'infanzia e l'età adulta, imposto dalle condizioni in cui si trovano i ragazzi/bambini, sembra essere la chiave di lettura del film. L'opera di Lola Dolloin è infatti piena di momenti di sconforto: fame, freddo, sonno e paura sono i principali compagni di viaggio dei bambini, ma a proteggerli c'è lei, lei che diventerà il leader del gruppo, dovrà proteggere e portare in salvo tutti gli altri bimbi e prendere decisioni sulle sorti del gruppo. Un'opera quindi di grande intensità, tuttavia se da un lato efficace è la distanza della guerra rispetto al centro del film, un paradosso se pensate che ogni azione di ogni personaggio della storia ha come motivazione principale il dover scappare dalla guerra o il voler andare a combattere, dall'altro è inefficace. Infatti, il conflitto e i bombardamenti sono presenti nell'angoscia e nella paura dei ragazzi, separati dai genitori e lasciati in questo stato di oblio e di abbandono, ma questi non vengono esplicitati. Difatti il secondo conflitto mondiale è presente quasi solo in termini di uniformi naziste. Va bene che la vicenda è raccontata dal punto di vista dei ragazzi/bambini, e quindi mostrare combattimenti o efferatezze gratuite era giustificato (anche se un po' di coraggio in più non avrebbe guastato), ma ciò viene edulcorato in maniera eccessiva. Eccessivo come l'utilizzo dell'escamotage dell'età, i protagonisti sono pur sempre dei bambini e come tali hanno la capacità di divertirsi con poco, cancellando anche solo per qualche istante l'orrore della guerra, ma alla terza scena di gioco e allegria nate con poco, si comincia a storcere il naso. Tuttavia nonostante ciò il film fa quello che deve fare. Il viaggio di Fanny racconta infatti efficacemente (seppur sufficientemente) la storia di un gruppo di bambini in fuga dagli orrori della guerra (in tal senso gli attori, partendo dai piccoli protagonisti, si dimostrano all'altezza). Senza alcuna guida né alcuno strumento se non la loro determinazione e la fanciullesca ingenuità che muove ogni bambino, i piccoli protagonisti dovranno far fronte a delle difficoltà che li costringeranno a crescere prima del previsto. E' insomma un film più importante che bello, utile più per avvicinare le nuove generazioni alle tematiche della guerra e dello sterminio degli ebrei durante la seconda guerra mondiale, che per chi ha già visto i grandi capolavori sullo stesso argomento, ma ci si può accontentare.

giovedì 29 agosto 2019

Il segreto (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 29/08/2019 Qui
Tema e genere: Adattamento cinematografico de Il segreto (The Secret Scripture) di Sebastian Barry, il racconto di una vita tormentata.
Trama: Un'anziana donna internata da 40 anni in un manicomio, un'accusa di un terribile omicidio, un marito scomparso, un oscuro segreto. E un medico che dopo tanto tempo cerca di vederci chiaro.
Recensione: Tratto dal romanzo omonimo, questo dramma romantico alterna due piani di racconto: ai giorni nostri un'anziana donna che non ci sta più con la testa e che ha vaghi ricordi del passato (ma che ha tenuto pezzi di diario tra le pagine di una Bibbia), ai tempi della seconda guerra mondiale una giovane ragazza che riceve troppe attenzioni e che si ritroverà coinvolta in un infanticidio. Rinchiusa in manicomio passerà la vita ad interrogarsi, fin quando un dottore si appassiona al caso e scopre man mano risvolti inediti, che porteranno ovviamente alla verità. Jim Sheridan, che fu grande con i suoi primi film (in un decennio scarso, dal 1989 al 1997, inanellò Il mio piede sinistroIl campoNel nome del padre e The Boxer), non ha avuto poi una carriera all'altezza di quegli inizi folgoranti, molto centrati sulla sua Irlanda e sui conflitti che hanno insanguinata il nord del paese. Qui aveva un ottimo cast, con la grande Vanessa Redgrave a interpretare Rose da anziana e Rooney Mara da giovane (ma c'è qui è un primo scivolone: le due attrici sono diversissime sotto tutti i punti di vista, dall'altezza ai lineamenti alla grinta) e un misurato Eric Bana nei panni del dottore che cerca di studiare il caso della donna, ed anche un altrettanto calibrato Jack Reynor in quelli dell'aviatore che Rose sposerà, ma la storia, che pure avrebbe elementi di "mistery" interessante (anche per una fotografia che rende cupi anche i bei paesaggi irlandesi e ambigui i ricordi dei flashback, tanto da chiedersi sempre se sono fatti realmente avvenuti), prende presto la via della solita tirata anticattolica, con suore-infermiere bigotte e aguzzine e un prete laido e ambiguo, giovane e col portamento da attore hollywoodiano, che prima insidia la ragazza, poi fa rissa con chi le si avvicina, infine la rovinerà quando viene respinto definitivamente (farà mettere e referto dell'ospedale la tendenza alla "ninfomania" della ragazza). Il tutto con una storia non solo manichea (con personaggi risibili, come il capo dei fanatici cattolici che la perseguitano) come spesso avviene in questo genere di film, ma povera dal punto di vista narrativo (quante scene frettolose), della caratterizzazione dei personaggi, della qualità dei dialoghi, e molto pasticciata nei suoi accadimenti, da melodramma di quart'ordine. Nell'ultima parte tutto diventa ancora più confuso, e anche noioso. Ma, colpa grave per un thriller "esistenziale", la soluzione si intuisce ben prima che la matassa si dipani, e non è mai un bel segno. Mai però come il finale, che dovrebbe costituire il culmine emotivo e si spegne invece malamente, con un segreto (che tutti hanno, appunto, già capito da un po') svelato da un biglietto in una scatola aperta tardivamente, che liquida in poche parole una verità sconvolgente, con il risultato di suscitare irritato sarcasmo al posto della commozione prevista. Verrebbe da pensare che Jim Sheridan (peraltro entrato in corsa sul progetto, in cui anche molti degli attori non era originariamente quelli previsti) sia solo l'omonimo di quel regista apprezzato un tempo, o comunque da rimpiangerne il prematuro declino.

211 - Rapina in corso (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 29/08/2019 Qui
Tema e genere: Action ispirato a una storia vera accaduta nel 1997 (la presa della Bank of America North Hollywood) che cambiò per sempre la modalità di agire delle forze di polizia.
Trama: Ai poliziotti Mike Chandler e Steve MacAvoy viene affidato il quindicenne Kenny, punito con una giornata in polizia dopo una rissa. Il destino li farà convergere con una rapina in banca.
Recensione: Le premesse per un bel film d'azione c'erano tutte: rapina in banca, ostaggi, criminali armati fino ai denti, inevitabili sparatorie, ma poi qualcosa è andato storto: a cominciare dal trailer italiano che parlava di un negoziatore che invece non c'è mai stato, a partire dalla scarsa recitazione degli attori in cui si salva solo Nicolas Cage per il rotto della cuffia, per finire con gli scontati cliché del cinema (es. poliziotto quasi in pensione che rischia la vita) e i dialoghi banali e superficiali. Si aggiunge un prologo troppo lungo e fuori luogo (tanto che all'inizio ho pensato di aver sbagliato film), tanti inutili retroscena buttati lì e poi non sviluppati (come la storia dell'anniversario di matrimonio del direttore della banca), l'insignificante partner, nonché genero, di Cage che appena viene colpito a una gamba continua a ripetere "sto per morire, ora muoio me lo sento" dimostrando meno coraggio e forza d'animo del ragazzino che era con loro. Anche la trama di base aveva un non so che di poco realistico: criminali ex-forze speciali ricercati dall'Interpol, con un armamentario da far invidia a un esercito, esplosioni di C4 su innocenti come diversivo, piani di riserva e altro ancora, il tutto per rubare 1 misero milione di dollari (che non bastava neanche per ripagare granate, proiettili ed esplosivi) da una banca del Massachusetts, neanche fosse Fort Knox. Quest'ultimi più volte decantati come abili strateghi, in grado di sovvertire qualsiasi attacco in via di fuga, decidono poi di uscire dalla banca uno alla volta, dalla porta principale, davanti a un esercito di poliziotti armati di fucili...decisamente qualcosa non ha funzionato. Unica nota positiva, a mio avviso, la freddezza e l'assoluta assenza di coscienza del capo dei rapinatori, che lo rendono un cattivo coi fiocchi, che quando dice "zitto o ti sparo" poi ti ammazza per davvero, senza girarci troppo intorno come spesso succede nei film.
RegiaYork Alec Shackleton prende argomenti molto attuali e critici e soprattutto intrinsecamente legati all'ossessione tutta a stelle e strisce per la guerra corporativa che sulla carta sarebbero anche interessanti, ma che le sue mani riescono a trattare solo con una banalità disarmante, diluiti da sotto-trame incongruenti in cui le persone di colore scoprono che, ehi, i poliziotti non sono tutti fascisti/razzisti/paranoici. Quando un regista ha così poco da dire (anche se questo è il suo debutto), e inoltre quel poco lo dice sussurrando (come se avesse paura delle implicazioni anti-autoritarie della sua narrazione) finisce per forza di cose col dilapidare le basi stesse della sua opera: se il primo a non credere in ciò che il film mostra è il film stesso, c'è qualcosa che non va. E non serve essere dei grossi esperti di cinema per intuirlo.

Colette (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 29/08/2019 Qui
Tema e genere: Film biografico basato sulla vita della famosa scrittrice francese Colette, che con la sua opera e la sua storia ha influenzato la cultura e il costume lungo tutto il XX secolo.
Trama: Nella Parigi dei primi del '900, dopo essere stata costretta a firmare i propri romanzi con il nome del marito Willy, la scrittrice e attrice teatrale Colette, emancipata e anticonformista, ottiene il successo meritato combattendo ogni forma di pregiudizio.
Recensione: Film biografico che non rinuncia a nessuna delle secche e delle regole minime del genere, Colette è un ritratto piuttosto convenzionale e stereotipato di una delle icone più trasgressive della Belle Époque, un periodo esplicitamente descritto che per questo irrita leggermente. Una provocatrice che, nella ricostruzione della sua vita firmata da Wash Westmoreland, uno dei due registi di Still Alice (del 2014), si tramuta in una figura edulcorata e ammansita, sminuita con una certa frettolosità da uno sguardo laccato e patinato, che trasmette l'immagine di un'autrice non particolarmente simpatica, piuttosto fortunata e capricciosa, con cui si fatica ad empatizzare. Prima donna nella Storia della Repubblica francese a ricevere i funerali di stato e totem culturale in grado di parlare anche al presente in modi e forme tutt'altro che banali, Colette è interpretata senza alcun nerbo e con scarsissima presa sul personaggio da Keira Knightley, ma è l'intero taglio dell'operazione, per quanto dignitosa sul piano della confezione, a destare più di una perplessità. Della Colette intellettuale ed "abile" scrittrice non c'è infatti praticamente traccia, la sua sessualità vorace e sfrenata e le sue relazioni con persone di ambo i sessi sono evocate con pudico pressappochismo e il film, di fatto, si concentra soprattutto sul rapporto di subalternità di Sidonie-Gabrielle (suo vero nome) con il cialtrone e meschino marito (sebbene si tratti di un legame forzato e scardinato ben presto nel segno della riscossa e della rivendicazione). Tale dimensione narrativa e tematica fa di Colette un prodotto banalmente appiattito su una parabola di empowerment femminile, chiaramente in linea col momento storico in cui è stato realizzato ma privo di reale spessore. Incapace, in definitiva, di stabilire una reale sintonia con la personalità della protagonista.
Regia: Nonostante il regista Wash Westmoreland si sia avvalso della collaborazione di Richard Glatzer (suo marito e coautore per vent'anni, scomparso nel 2015) non riesce a rendere l'importanza di questa donna, considerata dalla Francia una vera e propria risorsa nazionale. Eppure il regista aveva diretto magistralmente una splendida Julianne Moore in Still Alice dove si mostra la progressione spietata del morbo di Alzheimer in una donna scrittrice e docente universitario, facendole vincere anche l'Oscar nel 2015 come migliore attrice.

Alpha - Un'amicizia forte come la vita (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 29/08/2019 Qui
Tema e genere: Un film sul coraggio e sulla capacità di autodeterminarsi, un racconto di formazione condito dall'amicizia tra un ragazzo e un lupo durante il Paleolitico superiore.
Trama: 20 mila anni fa, durante l'ultima era glaciale, dopo una battuta di caccia finita male, un giovane uomo delle caverne lotta contro una serie di ostacoli per ritrovare la strada di casa. Stringerà così un'improbabile amicizia con un lupo.
Recensione: Ambientato 20 mila anni fa, il film è una classica storia di formazione e di crescita di un ragazzo che diventa grande. Keda (Kodi Smit-McPhee, che si rivelò con The Road e visto poi anche in X-Men: Apocalisse), infatti, è abile con le mani ma non ama cacciare e uccidere animali. Imparerà a farlo perché dovrà sopravvivere per tornare dalla sua famiglia. Centrale nella storia diretta da Albert Hughes (al suo primo lungometraggio da solo, dopo vari diretti insieme al gemello Allen, tra cui La vera storia di Jack lo squartatore), è comunque la sua amicizia con il lupo. Che dapprima è una minaccia per la sua incolumità e poi diventa un prezioso amico e alleato, pronto a intervenire per aiutare il giovane che lo ha salvato. Alpha - Un'amicizia forte come la vita non inventa nulla di nuovo (pur partendo da buoni spunti, ha un canovaccio già visto molte volte e meglio), punta tutto sul senso di avventura e sul rapporto uomo-animale senza troppa retorica (e questo è un bene). Di grande impatto le ambientazioni di natura incontaminata che fanno da sfondo a tutto il film. Peccato per un uso eccessivo di computer grafica che toglie un po' di senso del vero. Peccato soprattutto che manchi il pathos, e in una pellicola dove la premessa è avventuristica e ricca di pericoli, è un'occasione sprecata. Perché l'adrenalina in parte c'è, grazie ad alcune impressionanti situazioni estreme, ma non basta. Nell'avventura manca invece quel pizzico di mistero e di scoperta che avrebbe davvero solleticato l'interesse dello spettatore, così, Alpha - Un'amicizia forte come la vita resta il racconto del percorso di un giovane costretto ad attraversare le terre più inesplorate per tornare al proprio villaggio e riprendersi la sua vita. Insomma gli elementi per un buon film c'erano tutti, e sicuramente potevano essere sfruttati al meglio. Molto più impattante (e riuscito), per rimanere in tema, a mio avviso era stato Il mio amico Nanuk (del 2014), forte storia di amicizia tra un bambino e un piccolo orso bianco, ambientato veramente tra i ghiacci e senza utilizzo di tecnologia. Altra grossa mazzata è l'inevitabile paragone con L'ultimo lupo, il bellissimo film di Jean-Jacques Annaud del 2015: un confronto dal quale Alpha esce inevitabilmente con le ossa rotte. Ma Alpha si fa comunque vedere: un film dignitoso (seppur non sufficientemente), in definitiva, che i ragazzi soprattutto (ma tutti) possono apprezzare perché certe avventure sono senza tempo.

Addio Fottuti Musi Verdi (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 29/08/2019 Qui
Tema e genere: Lungometraggio (commedia) d'esordio delle webstar The Jackal.
Trama: Ciro è un grafico ultra-qualificato disoccupato. In cerca di lavoro, si ritrova a mandare un curriculum nello spazio, dove troverà attenzione da una società aliena sì meritocratica, ma anche strana e soprattutto ambigua, quali saranno le loro vere intenzioni?
Recensione: Il film che porta al cinema i The Jackal, collettivo di youtubers dallo strepitoso successo di popolarità e visualizzazioni, è una esilissima commedia di fantascienza che prova a ironizzare con brio sul precariato dell'Italia di oggi. Un proposito portato avanti facendo leva sullo sfrenato gusto ridanciano e sulla verve dissacrante e surreale tipica dei The Jackal e della loro massiccia presenza sul web, ma il risultato non è affatto all'altezza delle aspettative: come altri youtubers prima di loro, in primis i The Pills che in tal senso sono il caso più eclatante, gli autori e attori napoletani patiscono il salto dal canale YouTube al grande schermo. Non basta infatti costruire un'impalcatura di sterili e controproducenti ambizioni sci-fi, che sfiorano spesso il ridicolo, per dare ritmo e consistenza alle proprie gag, né si può pretendere che delle pillole, anche molto divertenti, destinate ad altre piattaforme funzionino al cinema senza costruire loro intorno un'idea di scrittura e una valida gestione dei tempi comici e delle situazioni. Gli interpreti, forti della loro ampia visibilità mediatica tra i teenager, non vanno però mai oltre a smorfie e ammiccamenti da show televisivo di bassa lega. Si fa fatica a trovare elementi validi in questo esordio sfasato e zeppo di stonature, che strappa pochissime e stiracchiate risate e prova a vivacchiare di scherzi vari e strizzatine d'occhio ai fan e ai propri stessi tormentoni. Rimane l'amaro in bocca dell'occasione persa, perché alcune trovate avrebbero potuto raggiungere la sufficienza in un contesto meno raffazzonato (su tutte il ruolo di Gigi D'Alessio, tutto da scoprire). I notevoli mezzi a disposizione si vedono nella buona qualità degli effetti speciali. Presenti in un piccolo ruolo congiunto anche Fortunato Cerlino e Salvatore Esposito. E quindi Addio Fottuti Musi Verdi non è la pellicola che ci si aspettava. Ironia, follia e tempi comici sono i grandi assenti di un esordio cinematografico che poteva essere un grande successo ma che, purtroppo, pecca di tanta, troppa inesperienza.

Operation Avalanche (2016)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 29/08/2019 Qui
Tema e genere: L'ennesimo film (in questo caso thriller spionistico) su una delle teorie complottiste più diffuse, lo sbarco sulla Luna.
Trama: Nel 1967 quattro agenti sotto copertura della Cia vengono inviati alla Nasa per essere assunti dalla troupe di un documentario. Quello che scopriranno porterà a una delle più grandi (presunte) cospirazioni della storia americana. La paranoia prenderà il sopravvento e i problemi saranno tanti.
Recensione: Si è celebrato lo scorso mese l'anniversario dello sbarco sulla Luna, evento entrato nell'immaginario comune e indimenticabile per chi ai tempi poté assistere in diretta alle fasi cruciali dello sbarco, con le leggendarie parole di Neil Armstrong diventate un vero e proprio tormentone. Eppure tra le varie teorie del complotto ve ne è una assai diffusa che vorrebbe l'allunaggio frutto di riprese girate in studio, con il nome di Stanley Kubrick più volte tirato in ballo quale effettivo regista del finto filmato spaziale. Operazione Avalanche (come parecchi altri lavori, Moonwalkers per esempio, lì tuttavia c'era azione e si rideva) si ispira proprio a questa ipotesi, anche se ne offre una versione inedita e con un finale che smentisce da solo qualsiasi teoria del complotto lunare sul nascere, e questa è certamente una nota positiva. Il problema è che il resto, anche per colpa della formula scelta, sia ben poca cosa. La formula scelta è infatti quella del mockumentary, con riprese spesso "rubate" di nascosto ai due personaggi principali: una scelta, seppur necessaria dal punto di vista della logica narrativa per accompagnare i protagonisti in questo intrigo mystery in cui la tensione cresce progressivamente fino all'intenso finale, poco verosimile in diverse situazioni, difetto questo che lo accomuna a tanti esponenti del genere. Lo stile con camera a mano può effettivamente risultare fastidioso in più occasioni, con un senso di mal di mare questa volta nemmeno giustificato da dinamiche horror di sorta. Operazione Avalanche si pone difatti come thriller ante litteram con filtri e immagini che strizzano l'occhio alle vecchie cineprese anni '60. Una decisione senza dubbio coraggiosa per essere più fedeli possibili al determinato periodo storico, spesso però le sgranature o i colori spenti rischiano di affievolire e rendere poco chiari alcuni passaggi fondamentali ai fini degli eventi. Eventi di stampo puramente spionistici oltretutto abbastanza modesti, che a parte nel finale, non riescono a fare troppa presa e convincere interamente, facendo così risultare questo film interessante, anche originale, un film mediocre, leggermente inutile ormai (basta con questa teoria) e pletorico.

mercoledì 28 agosto 2019

Piccoli brividi 2 - I fantasmi di Halloween (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 27/08/2019 Qui
Tema e genere: Secondo capitolo della saga di film tratta dai libri horror per ragazzi di R. L. Stine.
Trama: Il giorno di Halloween due ragazzi scoprono un libro chiuso, lo aprono e appare loro un pupazzo da ventriloquo parlante. Sarà l'inizio di molti guai.
Recensione: Dopo il primo riuscitissimo capitolo (qui), mi aspettavo davvero molto da questo specie di sequel, specie perché la connessione con la pellicola precedente è molto flebile, rasentando l'inutilità ai fini della trama, tanto da sembrare quasi un spin-off (e in verità lo è, perché ambientato in un periodo preciso, Halloween). Purtroppo, però, devo ammettere che le mie attese sono state deluse per un buon 50%. Vuoi per l'assenza dei protagonisti "originali", vuoi perché la brillante e coinvolgente sceneggiatura del primo film qui lascia spazio a un tranquillo teen movie che sguazza nella comfort zone dei cliché. Un teeen movie in cui, come detto, non compaiono i protagonisti del primo film, con la sola eccezione di una fugace comparsata di Jack Black, qui relegato ad un numero di battute inferiore a quello di Arnold Schwarzenegger nel primo Terminator. I tre nuovi protagonisti, però, hanno un volto ben noto: Sam è interpretato da Caleel Harris, nel cast di Castle Rock e nella nuova serie Netflix When They See Us, Sonny ha invece il volto di Jeremy Ray Taylor, il Ben del terrificante IT di Andrés Muschietti, mentre Sarah vede in scena Madison Iseman, che proprio con Jack Black ha interpretato il riuscito sequel di Jumanji. I tre giovani attori funzionano molto bene assieme sullo schermo: anche se non sono aiutati da dialoghi particolarmente brillanti, è comunque un piacere vederli muoversi in un'interpretazione mai sopra le righe. Apprezzabile anche la resa degli effetti speciali e degli effetti visivi e belli i riferimenti alla cultura nerd, sparsi ovunque e sempre gustosissimi: da Street Fighter a Rocket League. Non male neanche la regia firmata da Ari Sandel (che può vantare nel suo palmarès un Oscar come miglior corto del 2005), egli infatti fa il compitino giusto, seguendo l'azione senza particolari voli pindarici e regalando qualche piccolo (davvero) brivido sparso qui e là. Ma c'è un ma. La cosa che davvero non va è la sceneggiatura. Siamo infatti davanti ad un teen movie annacquato, con dinamiche già viste, colpi di scena telefonati e soluzioni trite e ritrite. I bulli di quartiere sono decisamente spuntati, molto lontani dai terribili ragazzi selvaggi di IT o di Forrest Gump, il plot amoroso di Sarah si risolve in una manciata di minuti con tutto il "cucuzzaro": speranza, delusione, ripresa, lo stesso Slappy, i cui poteri sono diventati addirittura magici, alla fin fine è poco più che un fantoccio facilmente gestibile ad aggirabile. In nessun momento del film c'è sensazione di pathos, di ansia o tensione per i protagonisti: c'è qualche piccolo Jumpscare, ma niente che possa davvero impressionare, neanche un pubblico di ragazzini, per cui, de facto, il film è pensato. Tutto si svolge in modo decisamente lineare: da azione nasce azione, contro azione, e risoluzione. Chi dovrebbe non credere ai propri occhi, ci crede dopo due minuti, chi doveva mietere vittime, non le miete, chi doveva terrorizzare fa prevalentemente divertire, anzi, talvolta mancano direttamente dei pezzi, come se intere sequenze fossero state tagliate senza preoccuparsi troppo che la resa finale resti zoppicante. Il "terribile" aiutante alla Igor di Frankenstein Junior, sembra la brutta copia di Zio Tibia ma non spaventa per niente. Il diabolico piano di Slappy viene sventato senza nemmeno versare una goccia di sudore e, a ben pensarci, con il libro originale in mano Sarah avrebbe potuto chiudere la partita a metà del film.

martedì 27 agosto 2019

Yakuza Apocalypse (2015)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 26/08/2019 Qui
Tema e genere: Film d'azione horror grottesco giapponese che parla di yakuza e vampiri, e no, non è uno scherzo.
Trama: Akira ammira Genyo Kamiura, il più potente uomo della yakuza sopravvissuto numerose volte a vari attentati. A causa di tale ammirazione, decide di entrare nel mondo della mafia giapponese ma ben presto rimane deluso da una realtà diversa da quella vista nei film e dalla mancanza di valori come fedeltà e carità. La situazione però si complica quando Genyo entra nel mirino di un gruppo di assassini, che conoscono la sua vera natura di vampiro.
Recensione: Parlare della Yakuza giapponese è sempre argomento valido, quindi perché non allargare il campo facendoli diventare dei vampiri? E' infatti è quello che succede in Yakuza Apocalypse, un film che presenta appunto un'impressionante mescolanza di generi e di situazioni, per cui definirlo "thriller/action" oppure "vampire movie" sarebbe riduttivo. A dirigerlo è ovviamente Takashi Miike (uno specialista del tema della yakuza, avendo girato molti film con questo argomento), che regala al pubblico un film camaleontico che attraversa e mischia più generi fino a toccare vette di esilarante surrealismo e di originalità. Pregno di sequenze splatter, di violenza e di momenti bizzarri, Yakuza Apocalypse riflette perfettamente il particolare stile del cineasta giapponese. In questo yakuza movie condito da arti marziali e intaccato dal tema del vampirismo, Miike inserisce anche i personaggi più disparati attingendo anche dall'immaginario folkloristico giapponese. Rimane impresso anche il killer con lo zaino a forma di bara che ricorda Django ma anche tanti altri (stavolta però l'omaggio al contrario che in Sukiyaki Western Django si ferma qui). Non è tutto perché il protagonista dovrà affrontare anche un uomo che indossa un costume da rana (il personaggio più fantastico di tutti) e infine un mostro enorme che ricorda i kaijū (i mostri tipici della fantascienza giapponese). Miike apporta delle novità anche nel tema del vampirismo distinguendosi dai soliti vampire movie: la persona che viene morsa da un vampiro infatti si comporta come un membro della yakuza generando duelli di arti marziali e quindi violenza e caos. E così, tra colpi di scena, personaggi al limite del surreale (tipicamente giapponesi) e tanto sangue si ha modo di apprezzare questo prodotto della durata di quasi due ore. Un prodotto che intrattiene e riesce anche a far ridere, grazie appunto ad un impianto puramente grottesco e pieno di strane e curiose trovate. Un film in cui spettacolari sono le scene di lotta, grazie soprattutto agli interpreti chiamati in causa come Yayan Ruhian nel ruolo del villain (impossibile dimenticare le sue performance anche in The Raid e The Raid 2) ed il protagonista Hayato Ichihara, non un professionista nelle arti marziali ma che ben figura nelle coreografie di lotta. Un film, anzi, una bomba ad orologeria che esplode sin dai primi minuti travolgendo lo spettatore che non può far altro che ammirare gli eventi carichi di azione, passione e umorismo, abbellito dal finale enigmatico. Insomma un film folle e straordinario che nella sua durata di quasi 2 ore ingloba, oltre all'inconfondibile stile registico, anche gran parte della cultura, delle tradizioni e del folklore giapponese. Il risultato non solo è notevole ma anche sorprendente.

As the Gods Will (2014)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 26/08/2019 Qui
Tema e genere: Horror soprannaturale della commedia nera giapponese basata sull'omonimo primo arco di una serie manga
Trama: Shun Takahata è un normalissimo liceale che conduce una vita normale e che ha come miglior amica Ichika Akimoto. Un giorno, la testa di un insegnante esplode in classe e Shun e i suoi compagni sono costretti a giocare una partita con la morte senza sapere né con chi né come o perché.
Recensione: Vengono denominati i bambini di Dio gli studenti partecipanti loro malgrado al mefistofelico e impari scontro sovrannaturale che ha luogo in As the Gods Will, adattamento di un omonimo manga diretto per l'occasione da Takashi Miike, ben più che esperto in trasposizioni live-action. Il maestro nipponico ci trascina sin dai primi minuti, con una fase iniziale di rara e gustosa violenza filo splatter, nel puro delirio che dominerà le due ore di visione, un incontenibile concentrato di tipica follia giapponese sospesa tra horror e una verve demenziale e ispirata che si rifà proprio a iconografie e mitologie tipiche del Sol Levante. Ecco così che la narrazione, strutturata su una sorta di livelli da superare uno dopo l'altro, usa come inquietanti villain (resi in maniera piacevolmente caricaturale e con ottimi effetti speciali) figure classiche dell'immaginario nazionale e non come le bambole Daruma e Kokeshi, il Maneki Neko (il gatto della fortuna), l'orso bianco Shiro Kuma e la Matrioska, mettendole al comando di diverse sfide aventi a che fare con tipici giochi da bambini: da una simil versione di Un, due, tre, Stella al gioco della verità, da quello del gatto col topo fino al nascondino si usano sempre strade diverse affinché la sopravvivenza sia una meta da raggiungere soltanto per i più forti, i predestinati di un nuovo mondo. Le cause degli eventi rimangono di origine inspiegabile e se per buona parte del tempo i media di tutto il mondo (il fatto infatti ha avuto luogo nelle scuole di ogni dove) sembrano propendere, e noi con loro, per un'origine aliena, il finale aperto apre verso nuove vie, peccato che proprio la conclusione tranci parzialmente i fili della storia, costringendo presumibilmente lo spettatore ad aspettare un sequel (cinematografico) ad oggi non ancora annunciato. A ogni modo il film possiede una sua forza che gli permette di sopravvivere anche a se stante, un istinto viscerale che non lesina in risvolti dall'intenso impatto emotivo, tra tragiche perdite e inaspettati tradimenti, ben sorretti dal giovane e bravo cast che vede nel ruolo principale Sota Fukushi. Non dimenticando una trama ricca di colpi di scena al contempo stravaganti e drammatici e, cosa più importante, coinvolgenti. Insomma, film stravagante e folle, davvero incredibile.

Ichi the Killer (2001)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 26/08/2019 Qui
Tema e genere: Splatter tratto dall'omonimo manga di Hideo Yamamoto.
Trama: Dopo la misteriosa scomparsa del boss Anjo, il folle e masochista Kakihara scatena una guerra fra bande per ritrovarlo. Ignora però il fatto che dietro a tutto c'è la mano di Jijii, il quale si sta servendo del fragile e sanguinario Ichi per tessere i fili di un complicato e pericoloso intreccio.
Recensione: Geniale, folle, bizzarro, ironico, prolisso, incoerente e a tratti noioso. Questo e tanto altro ancora è Ichi the Killer, spettacolo raccapricciante partorito dalla mente del diabolico Takashi Miike che qui rilegge un celebre manga. Non è un horror, ma è piuttosto splatter, anche se questo è un lavoro talmente particolare che non si sa dove collocarlo, Ichi the Killer non ha infatti un genere, lui è Ichi e basta, e ammazza un sacco. Si sa però che per film di questo "genere" si sente spesso usare la frase "per stomaci forti". E questo senza dubbio lo è, anche se Ichi the Killer non è un mero splatter privo di sostanza, è un film in cui il drammatico, lo yakuza-movie, il grottesco e lo splatter appunto, vanno a braccetto e non scadono nel banale, anche se l'eccelso è ben distante, perché seppur geniale è anche al tempo stesso, così ripetitivo e confuso da risultare a tratti letargico, e non tutte le trovate poi hanno la stessa forza dirompente. Ichi ha la faccia da debole, da uno che pare più uno studentello sfigato, piuttosto che un terribile carnefice. Ma Ichi è entrambe le cose e il regista "gioca" e sgretola lo stereotipo del temibile Killer annientatore. Si prova una certa compassione verso questo "povero" essere sfruttato e plagiato da chi cerca solo di raggiungere i propri interessi. Kakihara (interpretato da un grande già Tadanobu Asano), dalla faccia da Joker sfregiato, è un yakuza dall'animo di ghiaccio, che ricerca più il dolore fisico come piacere piuttosto che la vendetta. E' forte e freddo quanto sadico e masochista. Il sadismo e il masochismo, appunto, sono un filo conduttore dal primo all'ultimo minuto, sia nella nelle torture ai rivali, sia nella sessualità deviata. Le donne appaiono soltanto come prostitute e si respira una certa misoginia per nulla velata. La telecamera è spesso "schizofrenica" nel suo inseguire il sangue che zampilla dalle ferite mortali inflitte ai personaggi. La fotografia è curatissima e il montaggio accelera e rallenta a seconda delle azioni, nulla è lasciato al caso. Ichi the Killer è insomma un film sadico e lo spettatore è la sua vittima consapevole e consenziente, in cui il genio visionario e folle di Takashi Miike tortura la mente del suo pubblico, riuscendo a farlo ridere con una cascata di budella e sangue. Sufficienza piena di sicuro, più che piena.

Sukiyaki Western Django (2007)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 26/08/2019 Qui
Tema e genere: Omaggio al western all'italiana, nato dalla volontà del regista Takashi Miike di volerne girare uno.
Trama: In Nevada un piccolo villaggio è conteso fra i Bianchi, guidati da Yoshitsune, e i Rossi, capeggiati da Kiyomori. L'improvviso arrivo di un misterioso pistolero sconvolge i precari equilibri del villaggio, contribuendo a far precipitare in un bagno di sangue una situazione già tesissima.
Recensione: Il successo del Django di Sergio Corbucci del 1966 rese il personaggio del pistolero con l'ingombrante bara, una vera e propria icona del cinema. Non solo per la fama ottenuta a livello nazionale, ma anche all'estero. Molti sembrano aver apprezzato questo lungometraggio. Tarantino, con il suo Django Unchained e la sua passione non celata per i western all'italiana, è il più recente autore ad aver omaggiato la pellicola di Corbucci in un suo lavoro. E poco prima di lui, nel 2007, il noto regista Takashi Miike aveva sfornato il suo personalissimo tributo alla pellicola nostrana: Sukiyaki Western Django, appunto. Miike raccoglie lo stile e l'atmosfera del genere western e lo fonde insieme a quello dell'oriente e della tradizione nipponica. Ad una trama che ricorda immediatamente Per un pugno di dollari di Sergio Leone, si unisce un cast di personaggi assurdi, con una caratterizzazione portata all'inverosimile. Dallo sceriffo schizofrenico fino al capo rozzo col pallino per Shakespeare, tanto da farsi chiamare Enrico. Proprio come il noto sovrano decantato dall'autore inglese. Ed è doveroso menzionare il personaggio di Yoshitzune, esperto nell'uso della pistola ed allo stesso tempo della katana, simboli dei due stili che collidono in questa pellicola. A questo enorme calderone di citazioni, battaglie e sangue, si unisce la violenza tanto amata da Miike. Una pellicola che intrattiene, ben congegnata e curata. Il finale, poi (come l'inizio in cui un certo Quentin fa la sua divertita comparsa) è davvero una bella trovata.
Regia: Un film costellato di errori probabilmente voluti dallo stesso regista, che mette in gioco un simbolismo tipico giapponese mischiandolo alle tipiche atmosfere western in stile Sergio Leone, il tutto con una spruzzata di violenza in puro stile Tarantiniano, niente di originale, tutto alquanto confuso in certi frangenti, eppure come per la maggior parte dei film del regista giapponese (che fortunatamente non rinuncia alla violenza, alla sua natura), riesce ad incuriosire lo spettatore rendendolo partecipe della pellicola.

Takashi Miike Filmography

Post pubblicato su Pietro Saba World il 26/08/2019 Qui - Credo già di aver di lui parlato in occasione della recensione del suo interessante e bel live action Yattaman: Il film, del perché Takashi Miike è diverso da qualsiasi altro regista, del suo stile unico e controverso, del perché sia considerato uno dei registi più "folli" del cinema orientale, ed anche uno dei più eclettici, prolifici ed originali di sempre (ha al suo attivo, dal suo debutto nel 1991, oltre 100 tra film ed episodi televisivi di dorama, praticamente fiction), ma ripetersi non è sbagliato, se si parla appunto di questo incredibile ed ambiguo (in senso buono) regista. Un regista noto per i suoi film estremamente violenti e inquietanti, pregni di sequenze splatter e di bizzarre perversioni sessuali. Tuttavia Miike non è solo gore, splatter e perversioni, è anche un grandissimo regista e sceneggiatore dallo stile appunto inconfondibile. Perché dietro la forma violenta e disturbante delle sue opere, si nascondono tematiche profonde e ricorrenti: i rapporti familiari, l'amicizia, l'amore, la fedeltà al proprio gruppo (spesso si tratta di gruppi criminali), la solitudine e l'isolamento. Però analizzare, seppur superficialmente, tutti questi aspetti è impresa ardua e che lascio volentieri ad altri più coraggiosi e più esperti di me. Io mi limito solo a vedere ed a "gustarmi" il suo cinema. E infatti non potevo fare a meno di lui, dei suoi film, anche se consapevole che la mia conoscenza si basa su un campione limitato, avendo visto una percentuale minima della filmografia totale di Miike (stare al passo è quasi impossibile), anche quest'anno. Difatti, approfittando delle mie ormai consuete (anche se questo è solo il secondo anno) Promesse Cinematografiche, eccomi ora e adesso a presentare un pezzettino della sua (prolifica) filmografia che ho visto recentemente. Quattro pellicole che trasudano il suo cinema da tutti i pori, quattro film di cui alcune scene è impossibile dimenticare.

Sukiyaki Western Django
Ichi the Killer
As the Gods Will
Yakuza Apocalypse

sabato 24 agosto 2019

Searching (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 23/08/2019 Qui
Tema e genere: Thriller innovativo che segue la storia di un padre alla ricerca di sua figlia, usando esclusivamente il punto di vista di smartphone e computer.
Trama: Un uomo da poco rimasto vedovo è scosso dalla sparizione della figlia. In parallelo alle indagini, lui stesso cerca indizi utili a rintracciarla tra password, messaggi, siti web e profili social.
Recensione: Non un semplice filone ma un vero e proprio nuovo genere cinematografico, quello degli screen life movies è un fenomeno che sta prendendo piede negli ultimi anni grazie soprattutto alla figura del regista kazako Timur Bekmambetov, che magari non ci sa esattamente fare quando si tratta di dirigere un film (a lui si devono opere mediocri come Wanted, La leggenda del cacciatore di vampiri e il più brutto di tutti, il remake di Ben-Hur) ma se c'è da farsi venire nuove idee e andare a produrle, bisogna rendergli atto che ha il fiuto per gli affari. A lui si deve quello schizofrenico b-movie girato interamente in prima persona che è Hardcore! di Ilya Naishuller ma anche l'antesignano di questo Searching, vale a dire l'horror Unfriended (che a me tuttavia non convinse). Se avete visto questi film sapete già di cosa sto parlando: l'idea è quella di una narrazione continua in cui l'inquadratura corrisponde sempre al monitor di un computer, con lo spettatore che assiste in diretta all'apertura di finestre web e chiamate face-time fra i vari personaggi. L'idea è semplice ma efficace, soprattutto quando svolta bene come fanno Aneesh Chaganty (regista americano di origina indiana qui al suo esordio dietro la macchina da presa) e John Cho (anche Debra Messing contribuisce però all'efficacia del tutto) in questo piccolo, piccolissimo thriller che sfrutta questo linguaggio per raccontare una storia da giallo che appassiona davvero. Perché se all'apparenza è questa una tecnica forse un po' difficile e "fredda", in verità non lo è, poiché superato il primo impatto, prevale la narrazione, semplice e lineare, che si concede qualche colpo di scena ma che è sempre capace di creare un filo conduttore solido e coerente, che guida lo spettatore fino al fine. Infatti, nonostante il doppio filtro dello schermo dentro lo schermo, è impossibile non fare il tifo per la famiglia Kim. Difatti si empatizza con loro fin da subito, fin dalle primissime scene, che ci raccontano in pochi minuti la nascita e l'evoluzione di una famiglia stroncata da un lutto prematuro: una sequenza asciutta ma ricca di sentimento, che ricorda vagamente l'ormai iconica sequenza d'apertura di Up. Ed è così che il nostro cuore è con il padre David quando, ancora segnato dalla morte della moglie, realizza con dolore che Margot, la sua unica figlia, è scomparsa nel nulla. Cercando affannosamente indizi tra i messaggi privati e i profili social di Margot, David si trova a fare i conti con un'ulteriore amara verità, ovvero che non conosce per nulla sua figlia. Naturalmente non vi dirò come andrà a finire (soprattutto a chi non ha ancora avuto l'occasione di vederlo) ma vi assicuro che la vicenda riuscirà ad appassionarvi. L'anima b-movie che trasuda questa operazione commerciale priva di regia (o con una regia che è presunta tale, mettiamola così) mette in risalto le indubbie qualità narrative di Aneesh Chaganty, che rinuncia in toto al valore cinematografico ed estetico della sua opera per puntare tutte le sue fiches sul bisogno primordiale del racconto, sul piacere del racconto, sulla potenza del mistero e sulla voglia che lo spettatore avrà di svelarlo. Non solo: nel corso dei cento minuti del film la sceneggiatura avvincente dello stesso regista ci coinvolgerà al punto da farci affezionare ai personaggi, alle loro vicende passate e ai loro destini, e nel farlo riuscirà anche a farci riflettere sull'accanimento e la sete che i media e internet hanno nei confronti di determinati fatti di cronaca nera. Il regista Aneesh Chaganty si è proposto insomma di realizzare un film che permettesse di comprendere quanto la tecnologia sia penetrata nella vita quotidiana di ognuno, con scene girate principalmente in soggettiva, e ci riesce, anche perché pur non essendo un film "di denuncia", Searching mette in guardia lo spettatore dai pericoli della Grande Rete, dove l'inganno è praticamente dietro l'angolo.

giovedì 22 agosto 2019

7 sconosciuti a El Royale (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 21/08/2019 Qui
Tema e genere: Film corale dall'impronta decisamente pulp, un thriller drammatico di Tarantiniana memoria.
Trama: Sette sconosciuti, ognuno con un segreto da seppellire, si incontrano al El Royale, un fatiscente hotel dall'oscuro passato sul lago Lahoe. Nel corso di una fatidica notte, tutti avranno un'ultima occasione di redenzione prima che tutto vada all'inferno.
Recensione: All'El Royale si può scegliere di soggiornare in California o in Nevada, dato che il motel, un tempo rifugio di gente dello spettacolo, mafiosi, politici e ricconi, si trova esattamente a metà tra i due stati e una linea rossa segna il confine nel bel mezzo della hall di ingresso. È il 1969 e qui si ritrova una strana serie di personaggi, tutti con qualche segreto, come del resto il luogo che li ospita. Un venditore di aspirapolvere dalla curiosità sospetta, un prete con problemi di memoria (un memorabile Jeff Bridges), una corista di colore in cerca del successo da solista, una hippy dai modi bruschi che si trascina dietro un sacco dal contenuto poco chiaro e un fucile. Ad accoglierli solo un giovane concierge che combatte i suoi incubi in modi poco ortodossi e che di sicuro sa più di quello che dice. A loro, più avanti, si unirà il carismatico leader di una setta (Chris Hemsworth, davvero inquietante e convincente anche lontano dai suoi ruoli di supereroi). La trama del film di Drew Goddard (un amante degli esercizi di stile e delle citazioni, come aveva già dimostrato in Quella casa nel bosco) è un complesso gioco di incastri di destino tra personaggi tutti in cerca di qualcosa e disposti a tutto per ottenerlo. L'approccio metanarrativo e sofisticato del regista, del resto, sfrutta tutti gli espedienti stilistici a disposizione (voce narrante, suddivisione in capitoli, scene che si ripetono da punti di vista differenti) per mantenere un registro che appare più ironico che drammatico a dispetto della violenza e degli orrori che ben presto iniziano a susseguirsi. L'anno in cui la vicenda si svolge (a parte un breve prologo) è il 1969 e il regista sfrutta a piene mani gli spunti della cronaca: dalle sette assassine nello stile di Charles Manson, alle cospirazioni politiche, dalle tensioni razziali e tra i sessi alla criminalità organizzata. Il tutto mescolato in un crescendo di colpi di scena, rivelazioni e morti a sorpresa dal tono sempre più truculento. Raccontare nel dettaglio la storia significherebbe prima di tutto disinnescare il gioco di intelligenza che resta alla fine il maggior pregio del film, un po' latitante invece sul piano del coinvolgimento emotivo, a dispetto del gran cast che schiera e le situazioni estreme che le backstory rivelano poco alla volta. Il film ricorda a tratti (anche nel florilegio verbale) la filmografia di Quentin Tarantino, senza mai raggiungere analoga brillantezza e forza dirompente, forse perché resta sempre il sospetto che anche i temi più sociali e politici siano più che altro un pretesto. Ciò non toglie che, una volta partito il jukebox (e la colonna sonora, complice la professione di cantante di una dei protagonisti, è davvero fenomenale), non si smetta mai di ballare, fino all'escalation finale, una resa dei conti che sfiora il patetico senza affogarci dentro e regala qualche momento di emozione vera.

mercoledì 21 agosto 2019

Notte Horror 2019: Cimitero vivente (1989)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 20/08/2019 Qui
Tema e genere: Horror tratto dal romanzo Pet Sematary, di Stephen King, che racconta una storia d'amore ma soprattutto morte.
Trama: La famiglia Creed si trasferisce in una piccola cittadina del Maine che sorge vicino ad un antico cimitero indiano in grado di far tornare in vita i morti. Un tragico incidente costringerà il Dott. Louis a seppellire un membro della famiglia e sarà l'inizio della sua discesa negli inferi.
Recensione: Esistono film di genere non perfetti, con difetti evidenti, ma che riescono comunque a ritagliarsi un posto nell'alveo dei cult non troppo trascurabili. In questo gruppo rientra Cimitero vivente, film del 1989, diretto da Mary Lambert e celebre adattamento del romanzo di Stephen King Pet Sematary pubblicato nel 1983. Gli adolescenti degli anni '90, amanti del brivido, con probabilità avranno visto per la prima volta questo titolo nella celebre rubrica Notti Horror di Italia 1 (e questo è uno dei motivi del perché ho scelto questo film per partecipare alla sesta edizione della Notte Horror, la quarta mia personale), i neofiti magari l'hanno recuperato in seguito, ma tutti avranno notato come, nonostante una sceneggiatura a volte lacunare e un ventaglio di interpretazioni caricate, Cimitero vivente sia un piccolo gioiellino che racconta al meglio quel che il cinema horror realizzava a fine anni '80. Tanto che in pieno revival '80 era più o meno scontato che ciò avrebbe suscitato anche 30 anni dopo, l'interesse di Hollywood nel rifarlo. Infatti, mesi fa è uscito il remake, perciò valeva forse la pena (ri)dare uno sguardo al film "originale", e così ho fatto (questo l'altro motivo del perché ho scelto questo film per la rassegna cinematografica tra blogger). Uscito nel 1989, il film appare come una produzione minore se paragonato ad altre incarnazioni (successive o precedenti) su celluloide dei lavori di King. Opere imprescindibili come Carrie - Lo sguardo di Satana di Brian De Palma, It (la miniserie) diretta da Tommy Lee Wallace e ovviamente Shining di Stanley Kubrick. A Cimitero vivente non è legato alcun grosso nome hollywoodiano: la regista Mary Lambert aveva alle spalle solo una lunga gavetta di video musicali (perlopiù di Madonna) e il nome più altisonante che appariva nel cast era quello di Fred Gwynne, che negli anni '60 era parecchio attivo soprattutto in tv. Ma contro ogni previsione Cimitero vivente è un film che riesce a terrorizzare oggi come allora, soprattutto per l'argomento che tratta, ovvero la difficoltà dell'essere umano di accettare la morte di un suo caro. I Creed sono la tipica famiglia medio borghese americana degli anni '80. Si trasferiscono in uno sperduto paesino di provincia (ovviamente nel Maine, dove sennò) dove le loro vite subiscono improvvisi traumi. Quando il gatto Churchill muore, il capo famiglia e il vicino di casa lo seppelliscono in un vecchio cimitero indiano in grado di riportare i defunti di nuovo in vita. In effetti la bestiola tornerà ancora a vivere, ma pervasa da un'anima corrotta e malvagia. Eppure ciò non frenerà il protagonista nell'affrontare lo stesso percorso quando a morire sarà qualcun altro. È tutta questione di essenza: gli stacchi di montaggio irruenti, la presentazione didascalica della famiglia medio-borghese americana, i momenti stereotipati non influiscono sull'atmosfera malsana e angosciante che si respira in Cimitero vivente. Complice di questa atmosfera l'argomento universale dell'accettazione del lutto, inserito in contesto sovrannaturale che si mischia lievemente anche con la storia dei nativi americani.

martedì 20 agosto 2019

Napoli velata (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 19/08/2019 Qui
Tema e genere: Thriller drammatico con venature noir dai toni melodrammatici, un'opera che vive tutta in quel limbo in cui realtà, sogno e ricordo si incrociano fino quasi a confondersi.
Trama: Una notte di passione, una scomparsa misteriosa: chi è l'uomo di cui Adriana si è innamorata in modo così repentino e travolgente?
RecensioneNapoli velata, l'ultimo film di Ferzan Ozpetek, uscito pochi mesi dopo Rosso Istanbul (che non ho visto), è un giallo molto sui generis, ambientato in una Napoli epicentro di magie e superstizioni paganeggianti, amori e odi. C'è molta carne al fuoco, tanti personaggi (e attori noti: ma tra tutti si distingue solo Peppe Barra, parecchio sprecati vari interpreti tra cui una grande attrice come Lina Sastri), colpi di scena e ambienti attraenti o inquietanti. Ne si può rimanere affascinati o intontiti, oppure vagamente irritati per le tante false piste e le numerose "citazioni" che sfociano nel modello da cui non ci si riesce a distanziare: alcune soluzioni, che vorrebbero stupire, lasciano perplessi in quanto utilizzate fin troppo spesso (ma evito di dare dettagli per non rovinare la sorpresa), flashback rivelatori compresi. Ne risulta un giallo-melò come sempre molto ambizioso (e pieno di simboli da decifrare) ma, come altrettanto spesso avviene al regista turco ormai italianizzato, anche al di sotto delle promesse. La passione iniziale, al netto di una chimica tra la pur brava Giovanna Mezzogiorno e l'emergente Alessandro Borghi che rimane solo sulla carta, lascia il passo a una città appunto magica e superstiziosa (con tanto di santona che sembra uscire da un film di parodia) che dovrebbe almeno ribollire di umori, e che invece ha il suo riflesso in una curiosa freddezza di stili e ambienti, spesso bui, come gli interni (case, musei, negozi) pieni di mobili, oggetti da antiquario, arredi d'arte e così via. L'occhio degli esteti ne è a tratti appagato, anche l'orecchio per una colonna sonora inconsueta, ma l'aggancio a una narrazione più che farraginosa richiede una notevole forza di volontà. Il giallo non si addice agli autori, questo si sa, ma forse Ferzan Ozpetek, ottimo regista per stile e anche dalla buona direzione degli attori, dovrebbe curare maggiormente le proprie sceneggiature (e magari scegliersi co-sceneggiatori più rigorosi e "aggiornati"), perché è vero che le storie indefinite e sospese possono intrigare, ma fino a un certo punto. A tirar troppo la corda, e continuando a sfornare film eleganti ma inerti come Napoli velata (e a tratti noiosi), il rischio è disperdere il capitale di stima guadagnatosi con i primi film. E suggerire il sospetto che, comunque, il proprio percorso abbia già dato le sue prove più interessanti. E' un bel film, intendiamoci: non si esce troppo delusi dalla visione (se non per un finale che si sarà costretti a non capire mai, se non sventolandosi con le piume di struzzo di una "magicalità" non ben definita), però Ferzan Ozpetek esagera nella sua autoreferenzialità, ed alla fine quello che rimane è un film dal potenziale inespresso alquanto insoddisfacente nel suo complesso, che nonostante i pregi tecnici non convince appieno.

venerdì 9 agosto 2019

L'uomo che uccise Don Chisciotte (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 08/08/2019 Qui
Tema e genere: Dramma di fantasia liberamente ispirato al Don Chisciotte di Miguel de Cervantes.
Trama: Un cinico regista pubblicitario si imbatte in un vecchio attore impazzito che si crede Don Chisciotte e si ritrova immerso in diverse avventure.
Recensione: Dopo 25 anni di produzione a dir poco travagliata, finalmente è uscita l'interpretazione in chiave comica e, come sempre, grottesca del mitico regista Terry Gilliam, ex componente dello storico gruppo Monty Python nonché regista del cult "Brazil" e altri grandi film, della celeberrima storia di Don Quixote. La domanda che sorge spontanea, date la lunga attesa, la storia che lo ha reso cult già prima che uscisse e le numerose speculazioni che lo hanno accompagnato nel corso degli anni, è non solo se il film meritava di essere finito, e la risposta è sempre sì perché ogni film bello o brutto che possa essere merita di essere visto da un pubblico, ma se tutta questa difficile e complessa lavorazione ha influito negativamente sul profitto finito. Purtroppo la risposta è anch'essa un sì. Perché purtroppo, L'uomo che uccise Don Chisciotte è essenzialmente questo: un tentativo quasi eroico, ma al tempo stesso alquanto confusionario, raffazzonato, quasi strampalato, esattamente come le imprese del protagonista del libro di Cervantes. Lo scorrere del tempo influisce su ogni cosa, e nemmeno il più sincero dei film è esente da questa legge inflessibile. Eppure il film ha un inizio perfetto, un inizio che cattura subito l'attenzione dello spettatore catapultandolo immediatamente nella storia e abituandolo già dai primi minuti al timbro costantemente in bilico tra il comico e il grottesco con il quale praticamente ogni film di Terry Gilliam viene da lui caratterizzato, purtroppo però più il tempo passa, più la storia prosegue e più il film si perde in sé stesso in un nodo sempre più stretto ed irreparabile di strade imboccate e strade abbandonate in quanto al proseguimento della trama. La difficoltosa produzione ha difatti portato a degli enormi problemi nella scrittura e soprattutto nella narrazione all'interno dell'intera pellicola che appare confusa, confusionaria e indecisa su quale genere appartenere finendo per staccare da genere a genere in maniera fastidiosamente netta: drammatico poi comico poi parodistico, ma mai riuscendo né a far prediligere uno di questi genere né ad amalgamare i vari generi che sceglie di seguire. Fa confusione anche con le varie sotto-trame che vanno ad incatenarsi in maniera forzata e poco chiara finendo per far perdere nella confusione totale anche la trama principale che infatti finisce per risultare quasi assente, o meglio raccontata in maniera da farla sembrare tale, proprio perché imbocca troppe strade senza accorgersi di aver lasciato quella precedente senza averla prima conclusa o collegata. Il film si conclude con un finale altrettanto confuso e assolutamente mal contestualizzato che lascia lo spettatore alla fine della visione con più domande che risposte, tanto dispiacere e un pizzico di frustrazione. Un vero peccato perché la regia del punto di vista visivo riesce in diversi tratti a stupire con varie inquadrature e scene suggestive, tecnicamente impeccabili ed inventive, anche la fotografia, con i suoi splendidi colori e la sua luce ben calibrata, e la colonna sonora irriverente ci provano a rendere il tutto più piacevole ed in parte ci riescono, viste anche le ottime interpretazioni, ma la confusione la fa da padrone. Tanto che, ancor più che in altri film di Terry Gilliam, risulta qui abbastanza difficile definire con precisione di che cosa parli la pellicola. Sarebbe fin troppo facile, e forse anche riduttivo, parlare di un semplice adattamento dell'omonimo romanzo. Più in linea con la poetica di Gilliam, è corretto ravvisare in L'uomo che uccise Don Chisciotte una personalissima rielaborazione emotiva, un pretesto per parlare d'altro.

mercoledì 7 agosto 2019

Halloween (2018)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 06/08/2019 Qui
Tema e genere: Slasher thriller/horror, sequel diretto di Halloween - La notte delle streghe del 1978.
Trama: Quarant'anni dopo la strage di Halloween, la sopravvissuta Laurie Strode è ancora perseguitata dal ricordo di Michael Myers. Intanto, Michael sta per essere trasferito in un altro manicomio.
Recensione: A 40 anni esatti (ora 41) dall'uscita del primo, indimenticato Halloween (1978) del Maestro John Carpenter, David Gordon Green dirige un sequel che sceglie sapientemente (e genialmente) di ignorare gli altri nove capitoli (tra sequel, remake e reboot) della saga realizzati nel frattempo. Una buona premessa: se il film originale ha difatti retto bene alla prova del tempo ed è ancora oggi considerato un pilastro, non si può dire altrettanto degli episodi successivi, dimenticabili quando non proprio evitabili (anche se ne avrò visti al massimo due). Undicesimo film della saga, Halloween infatti (che riparte dall'essenziale: Laurie e Michael, la vittima e il carnefice) rinnega la quasi totalità delle dieci pellicole che l'hanno preceduto, prendendo per buoni solo gli eventi accaduti nel primo film firmato da John Carpenter, e fa centro. Perché con questo nuovo Halloween, David Gordon Green rispetta la regola non scritta per un sequel di successo, ovvero un giusto mix fra innovazione e richiami all'originale. Fin dai titoli di testa, ripresi da quelli del film di Carpenter sia nell'indimenticabile accompagnamento sonoro sia con il font, veniamo infatti coinvolti in quella che è sostanzialmente una versione riammodernata dell'originale, dal quale diverge in pochi ma basilari punti. Siamo di nuovo nella famigerata notte delle streghe, in cui avviene nuovamente un'altra fuga dall'ospedale psichiatrico, che dà inevitabilmente vita a un'altra mattanza di giovani locali, coinvolti nelle più disparate attività ricreative, e di chiunque si metta sulla strada del feroce Michael Myers. Attenzione però, perché se queste premesse potrebbero fare pensare a un prodotto puramente derivativo, privo di qualsiasi spunto originale e volto a replicare pedissequamente i punti di forza del cult del 1978, non è così. L'Halloween del 2018 è infatti un film tutto sommato godibile, che rende onore alla pietra miliare del cinema di cui porta il nome, pur senza avvicinarsi neanche alla sua grandezza. L'intuizione migliore del regista è certamente la scelta di creare una sorta di filo invisibile che collega Michael Myers alla sua mancata vittima Laurie Strode, influenzandone ogni loro comportamento e azione e facendoli attrarre come due magneti di poli opposti. Il tema portante del film è l'ossessione, sopita per 40 anni e pronta a riaccendersi nel caso di Myers e tormento per quando riguarda Laurie, capace di costruire una vera e propria panic room all'interno della propria abitazione, per proteggersi da qualsiasi attacco esterno. La dolce e determinata Laurie dell'Halloween del 1978 è ormai solo un pallido ricordo, che ha lasciato posto a una donna sola e rancorosa, incapace di tenere legati a se i propri affetti e incline a una violenza che, seppur in chiave difensiva, la rende non così lontana dalla ferocia del suo aguzzino di 40 anni prima. Le ossessioni di Laurie e Myers sono contagiose, e portano ad allargare il conflitto a persone di passaggio e soprattutto a figlia e nipote della prima. Inevitabile quindi, visto anche il periodo, un finale all'insegna del girl power, in cui 3 generazioni si riuniscono per fronteggiare la personificazione stessa del Male. Rispetto all'originale, questo Halloween è decisamente più esplicito, e replica solo in sporadici momenti il gusto per il dettaglio nell'inquadratura di John Carpenter (uno dei quali è una piacevole apparizione di Laurie in puro stile Myers).