martedì 2 luglio 2019

Un sacchetto di biglie (2017)

Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 25/02/2019 Qui - A nemmeno un mese dal Giorno della Memoria, giorno (quello dopo) in cui ho visionato e recensito La signora dello zoo di Varsavia con Jessica Chastain, eccomi nuovamente a parlare di quella tragedia immensa, grazie ad uno dei film andati in onda in prima visione su Sky Cinema lo scorso Gennaio, un film che riesce a essere toccante soprattutto grazie alle performance dei sue giovani protagonisti, anche se esaspera i momenti di più facile commozione, ma che risulta prevedibile ed infantile. Perché ci sono tante prospettive per raccontare un avvenimento cruciale per l'umanità intera come l'olocausto, Christian Duguay però, regista e co-sceneggiatore di Un sacchetto di biglie (Un sac de billes), film del 2017 diretto dal regista canadese (già regista della miniserie Il giovane Hitler e del campione di incassi transalpino Belle & Sebastien - L'avventura continua), ha deciso di adottarne, seppur non scarna comunque di significato, una fanciullesca e forse ingenua (più di quella avventura per ragazzi del 2015). È infatti difficile rintracciare in questo film quegli spunti universali che il regista avrebbe voluto molto probabilmente ottenere. La possibilità di raccontare quello che è successo ieri per parlare anche di oggi è difatti limitata da uno stile molto tradizionale di racconto: Un sacchetto di biglie non aggiunge niente a quanto si è già visto o letto riguardo alla Shoah, perché sceglie di incanalarsi in quei binari sicuri di racconto già ampiamente solcati. E questo è un peccato, perché l'Olocausto è un argomento sempre denso di significato, che merita approcci che non lo banalizzino (seppur in buona fede). La linearità del racconto e l'assenza di guizzi registici rende infatti Un sacchetto di biglie un film adatto esclusivamente a un pubblico di bambini. Un'opera a scopo divulgativo (più un avventura che un racconto di grande intensità drammaturgica) che si accontenta di stare nel suo, facendolo anche bene, ma che con un po' di coraggio e inventiva in più avrebbe potuto essere accattivante per un pubblico molto più ampio.
Anche perché è la storia, una delle tante storie (l'epopea di una famiglia ebrea francese, ma soprattutto di due bambini costretti ad attraversare la Francia a piedi per sfuggire alla persecuzione tedesca), di una famiglia ebrea di Parigi, vittima delle persecuzioni inflitte agli ebrei con le leggi razziali durante il secondo conflitto mondiale. E' una storia vera, tratta dal libro autobiografico di Joseph Joffo pubblicato nel 1973, da cui il cineasta canadese trae il soggetto del film, un film che è tuttavia un remake di un film (anch'esso trasposizione cinematografica del memoriale omonimo) diretto da Jacques Doillon nel 1975, una storia, un viaggio che sarà per i due ragazzi (due fratelli ebrei appena adolescenti) momento di crescita e formazione. Infatti, tra incontri sinistri, aiuti ricevuti ed anche tanta inaspettata fortuna, tutte queste casualità difatti scateneranno emozioni forti, anche se la conquista della libertà per Joseph e Maurice avrà il sapore amaro della negazione forzata della propria identità di ebrei nella speranza di avere salva la vita, cresceranno e si formeranno, peccato che il tutto avvenga, per colpa del regista che spalma la musica su ogni sequenza e illumina gli ambienti come se fossero una cartolina (oltre a tanti piccoli sbagli, seppur fatti in buona fede), in modo anche troppo artificioso. In tal senso non per caso conviene da subito ammettere che il casting è l'elemento di gran lunga più convincente di Un sacchetto di biglie, non solo Patrick Bruel, Elsa Zylberstein e Christian Clavier (comunque solamente efficaci e funzionali), ma soprattutto Dorian Le Clech, il dodicenne protagonista che sa tenere la scena con un'intensità da attore navigato, aiutato dal diciottenne Batyste Fleurial Palmieri, che nella pellicola interpreta il fratello maggiore Maurice, con il quale Joseph intraprende il viaggio. Insomma due belle scoperte, bravissimi entrambi nel creare un credibile e tenero rapporto fraterno. Preoccupato ad introdurre questo rapporto, l'ambiente familiare dei due bambini, la loro vita parigina, lo script firmato da Jonathan Allouche con la collaborazione dello stesso Christian Duguay fallisce però nel presentare in maniera efficace l'atmosfera della Francia occupata.
"Stanno arrivando i tedeschi", proclama qualcuno, e noi naturalmente ci crediamo, ma dopo quello che abbiamo visto in tante pellicole e documenti dedicati a quel periodo tanto denso della storia europea, ci sembra che qui la minaccia fatichi davvero a concretizzarsi, al punto che è difficile fare i conti con la necessità che la famiglia si separi per sfuggire ai nazisti, costringendo due ragazzini di dodici e dieci anni ad attraversare da soli un paese grande come la Francia (in tal senso mentre i protagonisti si spostano per il paese, tornano alla mente le pagine forti e drammatiche di Irène Némirovsky e del suo Suite francese), con tutti i rischi che ciò comporta (nazisti inclusi). Perché certo, Christian Duguay filtra quel momento di storia funesta e crudele attraverso gli occhi onesti e limpidi di un bambino di dieci anni che ponendosi domande ovvie sul perché fuggire e smembrarsi come famiglia, cammina e si nasconde, insieme al fratello, per raggiungere la zona libera (anche se la separazione da genitori e fratelli più grandi avviene in modo troppo melenso), ma con il suo stile troppo romanzato, vivido e alquanto edulcorato (se la sceneggiatura è tutto sommato gradevole e abbastanza a fuoco, sembra inoltre un po' meno funzionale a una narrazione fluida l'insistenza del regista nell'utilizzare inquadrature ravvicinate, quasi macro), egli non coglie il senso di quella tragedia umana, della sopravvivenza che va conquistata prima di ogni cosa, seppur qualcosa comunque arriva. Più volte lo spettatore si sente infatti parte della scena nel condividere il vissuto dei due giovani protagonisti. Quel padre che intima ai propri figli di negare sempre e comunque la propria identità di ebreo a chiunque e in qualsiasi situazione, rappresenta la figura guida, il verbo giusto per custodire ed infine conquistare la propria salvezza. E' la figura simbolicamente più rappresentativa del film, tanto cara al regista che ritroviamo anche in "Belle & Sebastien". La stella gialla di stoffa segno distintivo della persona ebrea che Joseph scambia con il suo amichetto di scuola per un sacchetto di biglie (è questo l'unica "ripresa" al titolo) rappresenta la purezza dell'infanzia nel non capire la pericolosità dell'atto.
Tuttavia, senza quell'artificiosa ricerca di effetti melensi e strappalacrime (un po' ridicolo il richiamo a Schindler's List e alla colonna sonora di John Williams, quando la madre suona il violino), il film, che riesce comunque in un messaggio onesto e singolare nel mediare l'universalità della storia nella pericolosità dell'odio razziale, messaggio utile a tutti per una necessaria riflessione, sarebbe stato forse migliore. Perché in Un sacchetto di biglie, che si inserisce in ogni caso in un filone abbastanza ricco e importante, quello delle pellicole che toccano il tema dell'Olocausto rivolgendosi con delicatezza e commozione ai più giovani e alle famiglie, con la lacuna di non fare una (forse non indispensabile, ma molto utile) introduzione storica, resta l'autenticità del racconto e la bellezza delle performance dei due giovani protagonisti, che non vediamo l'ora di veder crescere professionalmente sul grande schermo, ma questa avventura, anzi, odissea (che però niente a che fare con il bellissimo e valido Corri ragazzo corri), non convince. Giacché questo film, nonostante ci tocchi un po' il cuore (ridicola tuttavia la storia d'amore con una giovane francese), oltre che prevedibile è superficiale. Un film dalle buone intenzioni, e, almeno per il pubblico italiano, di ambientazione innovativa, in quanto descrive gli ultimi mesi di guerra in area transalpina, tuttavia non molto approfondito. Il regista non entra nella caratterizzazione dei personaggi, limitandosi, in tale ambito, a descrivere il rapporto tra i due fratelli, i quali, nonostante qualche bisticcio infantile, comprendono i pericoli che corrono e si prendono cura l'uno dell'altro. Gli altri personaggi sono stereotipati, e nettamente divisi tra "buoni" e "cattivi". Le scenografie ed i costumi appaiono un po' troppo "tirati a lucido" per essere realistici, ma, nel complesso, non male. Nell'ultima parte del film, il regista, che non disdegna la realizzazione di inquadrature ad effetto rappresentanti gli ambienti naturali della Francia centrale e meridionale, cede alla tentazione di mostrare qualche sequenza melò. Un film insomma interessante per ambientazione e lodevole per gli intenti, carente negli approfondimenti storici e nella caratterizzazione dei personaggi. Un film in definitiva da non sottovalutare ma neanche da sopravvalutare. Voto: 6