Recensione pubblicata su Pietro Saba World il 15/03/2019 Qui - E' di notevole interesse la questione dei rapporti tra potere politico e libera stampa e Steven Spielberg dirige con affinato mestiere due grandi interpreti, tuttavia la sceneggiatura non è particolarmente avvincente né scoppiettante ed il film non esce dai binari del convenzionale: un lavoro non innovativo rispetto ai numerosi film a tema "giornalistico". In questa ultima fatica del grande regista, The Post, film del 2017 diretto appunto dal regista americano, si parla, infatti, dei rischi che aveva corso la libera stampa negli Usa nel 1971 (Presidenza Nixon), dopo gli arroganti tentativi di imbavagliarla, quando erano state pubblicate dal New York Times alcune pagine blindate dei Servizi Segreti (Pentagon Papers) che permettevano di vedere chiaramente attraverso quale rete di menzogne e manipolazioni per circa trent'anni si fosse celato all'opinione pubblica il coinvolgimento militare degli USA nelle operazioni di guerra in Indocina (la guerra del Vietnam). Quattro presidenti americani di ogni fede politica, repubblicani (Eisenhauer) e democratici (Truman, Kennedy, Johnson), non solo non avevano mai detto la verità al Paese, ma avevano fatto credere che la vittoria contro i vietcong, ovvero contro gli abominevoli comunisti, fosse imminente, cercando in tal modo di giustificare l'incremento sempre maggiore di risorse economiche e umane destinate dai loro governi all'infernale tritacarne di quella guerra, nonostante le disfatte militari e la morte dei soldati, non solo volontari ormai, fossero triste realtà quotidiana. Ma nonostante nel complesso sia comunque appassionante, anche perché il messaggio sembri, ancor oggi dopo 30 anni, attuale più che mai, nel film, un film abbastanza soddisfacente, con delle ottime interpretazioni, ma un po' carente nell'esecuzione, c'è parecchio potenziale sprecato nella scelta del regista di concentrarsi quasi esclusivamente sul punto di vista della redazione del Post e sulla figura di Katharine Graham, che, per quanto siano magnificamente rappresentati da delle ottime interpretazioni di Tom Hanks, Meryl Streep e Bob Odenkirk, rendono la vicenda un po' troppo ristretta. Il film avrebbe potuto giovare sicuramente nel mostrare di più la reazione del popolo americano dell'epoca, sui sentimenti di tradimento e di disprezzo nei confronti di chi credevano fossero stati fino ad allora dei leader onesti e giusti e che invece avevano mentito spudoratamente per anni sugli andamenti della guerra in Vietnam e su come l'intero scandalo dei Pentagon Papers avesse gettato le basi della presa di coscienza del popolo statunitense a non fidarsi mai completamente dei loro leader. Non lo fa, peccato, eppure questo è un film riuscito, soprattutto importante.
Importante perché, come detto, è certamente di notevole interesse la questione, vitale per ogni democrazia e sempre attuale, dei rapporti tra potere politico e libera stampa, tra diritto dell'opinione pubblica ad essere informata ed esigenze di segretezza a tutela dell'interesse nazionale. E Steven Spielberg dirige ovviamente col suo affinato mestiere una pellicola ben fatta, muovendo con destrezza la macchina da presa intorno ai suoi protagonisti. Tuttavia la sceneggiatura non è particolarmente avvincente né scoppiettante ed il film non esce dai binari del convenzionale: un lavoro ben fatto ma certamente non innovativo rispetto ai numerosi film a tema "giornalistico" (giornalismo d'inchiesta ormai diventato un genere cinematografico) che Hollywood ha già sfornato in quantità. Uno su tutti, senza comunque togliere nulla a questo film (seppur non assolutamente allo stesso livello), l'ottimo Il caso Spotlight di Tom McCarthy del 2015, vincitore del premio Oscar come miglior film nel 2016. La ricostruzione del lavoro all'interno di una grande redazione e delle tecniche di stampa "vintage", ormai consegnate all'archeologia è interessante, certo, ma la storia rischia di venire soffocata dal prolungarsi dei conciliaboli all'interno delle ristrette stanze della sede del Washington Post, con una verbosità che, soprattutto nella prima parte, sfiora la caduta nel soporifero. Al top invece le interpretazioni dei due protagonisti, due veterani di Hollywood per la prima volta insieme sullo schermo: un sempre bravissimo Tom Hanks nel ruolo di un giornalista di principio che non si fa spaventare dalle prepotenze dei politici, ma soprattutto una impeccabile Meryl Streep (che per questo film ricevette l'ennesima candidatura all'Oscar) nella caratterizzazione sfaccettata di una donna di potere, a capo di una grande azienda e amica personale di almeno due Presidenti, che tuttavia mostra le insicurezze e le difficoltà di essere pienamente accettata come leader dalla consorteria maschile che dominava la carta stampata all'inizio degli anni '70.
The Post infatti, che dopo una rapida ricostruzione degli antefatti del racconto, entra nel vivo inserendo nel quadro generale di quegli anni la crisi di una testata giornalistica a diffusione locale, a quel tempo: il Washington Post (quotidiano di proprietà della famiglia Mayer, la cui ultima erede, Katherine, la Streep, aveva deciso, fra mille esitazioni, di salvarlo dal fallimento più che probabile, quotandolo in borsa) sebbene rievochi moltissimo Tutti gli uomini del presidente per ambientazione e atmosfere, non è come si potrebbe pensare la ricostruzione di un'inchiesta giornalistica, ma un saggio che racconta di prese di coscienza, di etica (professionale e non) e di intrecci fra potere politico ed economico, fra pubblico e privato. Un saggio sulla storia della sofferta decisione della direttrice se pubblicare o meno i documenti "pregiudicati" (che già avevano messo in difficoltà il N.Y. Times, che dovette ricorrere alla Corte Suprema), rischiando il fallimento della casa editrice, i posti di lavoro dei reporter e la prigione. In tal senso Steven Spielberg conferma la passione e il coraggio con cui affronta tematiche controverse e calde. Un fervore governato da una forma impeccabile, specie nell'esposizione dettagliata di tutto il processo decisionale, editoriale e tecnico che precede la pubblicazione di un quotidiano e di una Prima pagina. Ed è straordinario come riesca a tenere tutto insieme: offrendoci la sua dichiarazione d'amore al giornalismo (con tanto di immersione nell'odore d'inchiostro delle rotative e dei caratteri mobili e nelle accalorate discussioni di redazioni fumose e isteriche) facendoci respirare il dramma di una donna sola al potere circondata da uomini che non rispettano la sua autorità e cercano solo di confonderla, infine, ricostruendo una fetta importante di Storia. Insomma l'obiettivo dichiarato di questo film bello e urgente del grande maestro hollywoodiano è risvegliare le coscienze sopite, rievocando quella stagione straordinaria in cui il Washington Post guidato da una donna riuscì non solo a far rispettare il primo emendamento, ottenendo dalla corte suprema la sentenza favorevole che riconosceva la stampa come "strumento per i governati e non i governanti".
Di più, compì infatti anche il primo passo per la destituzione di Nixon, che sarebbe avvenuta qualche anno dopo a causa dello scandalo Watergate, fatto emergere dallo stesso quotidiano, però il film, pur con i suoi meriti democratici e con la pulizia di una narrazione molto classica, degna del regista, non raggiunge, a mio modestissimo avviso, l'eccellenza dell'antico Tutti gli uomini del Presidente, il bellissimo film di Alan J. Pakula, che nel 1976 aveva raccontato, guadagnandosi l'Oscar, il Watergate (al centro anche dell'interessante The Silent Man), e che aveva appena accennato alla vicenda del Post, che si colloca, infatti, nel tempo appena precedente lo scandalo. The Post è difatti, e soprattutto, un film sulle migliori intenzioni, confezionato certo su misura per un cast di altissimo livello (tra gli altri Alison Brie, Bruce Greenwood, Carrie Coon, Jesse Plemons, Michael Stuhlbarg, Sarah Poulson e Tracy Letts), certo importante sul momento sociale dell'epoca, dopotutto la sua editrice Kay Graham incarna la volontà delle donne del Novecento di emanciparsi, di svincolarsi da quel ruolo subalterno imposto da una società ancora profondamente patriarcale, il suo personaggio non a caso, capace di dosare fermezza e continuo disagio nell'avvertire di continuo la netta sensazione di non essere all'altezza della situazione, divorata com'è dai dubbi e dal peso di amicizie scomode, sceglierà nel momento più teso la strada più giusta da intraprendere, ma il film, un film da cinema classico, facendo leva su dialoghi brillanti e affidando il ritmo del film a suoni e istantanee di un'era del giornalismo ormai estinta: fotocopiatrici in azione, revisione di bozze, trilli, il chiasso delle rotative, matrici, non convince fino in fondo, non è così tanto coinvolgente. Questo perché la detection, seppur scorri lineare per tutto il film, non raggiunge i livelli del film di Pakula, e nemmeno la tensione emotiva di Spotlight. Il film infatti, appare (anche troppo) interessato alle relazioni umane, a scandagliare l'animo in subbuglio di una vedova chiamata a fronteggiare in un colpo solo consigli di amministrazione, direttori carismatici, amici potenti e, in ultimo, la Giustizia. Interessante sì, ma non così tanto potente. E tuttavia, dire che Meryl Streep è brava, così come il suo collega Tom Hanks, sembrerebbe superfluo, così come sembra ovvio consigliare (nonostante tutto) la visione del film, che ha da insegnare molto anche oggi, a chi ha a cuore la democrazia, fermo restando che l'utilità di questo lavoro non lo colloca automaticamente fra le cose migliori di questo grande regista, di certo non migliore de Il ponte delle spie, quello sì autentico capolavoro, ma sicuramente migliore del personalmente deludente Il GGG: Il grande gigante gentile, comunque sempre in attesa di "collocare" Ready Player One. Voto: 7
The Post infatti, che dopo una rapida ricostruzione degli antefatti del racconto, entra nel vivo inserendo nel quadro generale di quegli anni la crisi di una testata giornalistica a diffusione locale, a quel tempo: il Washington Post (quotidiano di proprietà della famiglia Mayer, la cui ultima erede, Katherine, la Streep, aveva deciso, fra mille esitazioni, di salvarlo dal fallimento più che probabile, quotandolo in borsa) sebbene rievochi moltissimo Tutti gli uomini del presidente per ambientazione e atmosfere, non è come si potrebbe pensare la ricostruzione di un'inchiesta giornalistica, ma un saggio che racconta di prese di coscienza, di etica (professionale e non) e di intrecci fra potere politico ed economico, fra pubblico e privato. Un saggio sulla storia della sofferta decisione della direttrice se pubblicare o meno i documenti "pregiudicati" (che già avevano messo in difficoltà il N.Y. Times, che dovette ricorrere alla Corte Suprema), rischiando il fallimento della casa editrice, i posti di lavoro dei reporter e la prigione. In tal senso Steven Spielberg conferma la passione e il coraggio con cui affronta tematiche controverse e calde. Un fervore governato da una forma impeccabile, specie nell'esposizione dettagliata di tutto il processo decisionale, editoriale e tecnico che precede la pubblicazione di un quotidiano e di una Prima pagina. Ed è straordinario come riesca a tenere tutto insieme: offrendoci la sua dichiarazione d'amore al giornalismo (con tanto di immersione nell'odore d'inchiostro delle rotative e dei caratteri mobili e nelle accalorate discussioni di redazioni fumose e isteriche) facendoci respirare il dramma di una donna sola al potere circondata da uomini che non rispettano la sua autorità e cercano solo di confonderla, infine, ricostruendo una fetta importante di Storia. Insomma l'obiettivo dichiarato di questo film bello e urgente del grande maestro hollywoodiano è risvegliare le coscienze sopite, rievocando quella stagione straordinaria in cui il Washington Post guidato da una donna riuscì non solo a far rispettare il primo emendamento, ottenendo dalla corte suprema la sentenza favorevole che riconosceva la stampa come "strumento per i governati e non i governanti".
Di più, compì infatti anche il primo passo per la destituzione di Nixon, che sarebbe avvenuta qualche anno dopo a causa dello scandalo Watergate, fatto emergere dallo stesso quotidiano, però il film, pur con i suoi meriti democratici e con la pulizia di una narrazione molto classica, degna del regista, non raggiunge, a mio modestissimo avviso, l'eccellenza dell'antico Tutti gli uomini del Presidente, il bellissimo film di Alan J. Pakula, che nel 1976 aveva raccontato, guadagnandosi l'Oscar, il Watergate (al centro anche dell'interessante The Silent Man), e che aveva appena accennato alla vicenda del Post, che si colloca, infatti, nel tempo appena precedente lo scandalo. The Post è difatti, e soprattutto, un film sulle migliori intenzioni, confezionato certo su misura per un cast di altissimo livello (tra gli altri Alison Brie, Bruce Greenwood, Carrie Coon, Jesse Plemons, Michael Stuhlbarg, Sarah Poulson e Tracy Letts), certo importante sul momento sociale dell'epoca, dopotutto la sua editrice Kay Graham incarna la volontà delle donne del Novecento di emanciparsi, di svincolarsi da quel ruolo subalterno imposto da una società ancora profondamente patriarcale, il suo personaggio non a caso, capace di dosare fermezza e continuo disagio nell'avvertire di continuo la netta sensazione di non essere all'altezza della situazione, divorata com'è dai dubbi e dal peso di amicizie scomode, sceglierà nel momento più teso la strada più giusta da intraprendere, ma il film, un film da cinema classico, facendo leva su dialoghi brillanti e affidando il ritmo del film a suoni e istantanee di un'era del giornalismo ormai estinta: fotocopiatrici in azione, revisione di bozze, trilli, il chiasso delle rotative, matrici, non convince fino in fondo, non è così tanto coinvolgente. Questo perché la detection, seppur scorri lineare per tutto il film, non raggiunge i livelli del film di Pakula, e nemmeno la tensione emotiva di Spotlight. Il film infatti, appare (anche troppo) interessato alle relazioni umane, a scandagliare l'animo in subbuglio di una vedova chiamata a fronteggiare in un colpo solo consigli di amministrazione, direttori carismatici, amici potenti e, in ultimo, la Giustizia. Interessante sì, ma non così tanto potente. E tuttavia, dire che Meryl Streep è brava, così come il suo collega Tom Hanks, sembrerebbe superfluo, così come sembra ovvio consigliare (nonostante tutto) la visione del film, che ha da insegnare molto anche oggi, a chi ha a cuore la democrazia, fermo restando che l'utilità di questo lavoro non lo colloca automaticamente fra le cose migliori di questo grande regista, di certo non migliore de Il ponte delle spie, quello sì autentico capolavoro, ma sicuramente migliore del personalmente deludente Il GGG: Il grande gigante gentile, comunque sempre in attesa di "collocare" Ready Player One. Voto: 7